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nel 1963, il famoso saggio “La banalità del male (Eichmann a
Gerusalemme)”, di Hannah Arendt, è il resoconto del processo a cui fu
sottoposto, a Gerusalemme, l’ufficiale delle SS Adolf Eichmann ad opera
delle autorità israeliane, dal 1960 al 1962, e che si concluse con la
condanna a morte mediante impiccagione, la cui sentenza venne eseguita
la notte tra il 31 maggio e il 1 giugno 1962.
Da allora il termine “banalità del male” è diventato un “giudizio”
condiviso universalmente, accettato da tutti per comprendere e spiegare
il “male assoluto”. L’autrice, dopo aver seguito le 120 sedute del
processo, arrivò alla deduzione che il “male assoluto” commesso dai
nazisti non fosse dovuto ad una innata indole malvagia, connaturata
nell’uomo, quanto invece frutto della inconsapevolezza, del senso di
impersonalità, della frammentarietà delle azioni, dell’incapacità di
comprendere pienamente e fino in fondo il significato dei singoli fatti
commessi da una moltitudine indefinita e non correlata di persone.
Per l’autrice, Eichmann “era un uomo comune, caratterizzato dalla sua
superficialità e mediocrità, anzi qualcosa in più, dalla “incapacità di
pensare”; sosteneva che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era
pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”.
Dietro questa “terribile normalità” della massa burocratica, che era
capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai
visto, la Arendt rintracciava la questione della “banalità del male”.
Questa “normalità” fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati
dalla società del tempo, si manifestino nel cittadino comune, che non
riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente.
Eichmann incarnava il “pericolo estremo della irriflessività”. Ma il
guaio del “caso Eichmann” era che di uomini come lui ce n’erano tanti e
che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono
tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di
tutte le atrocità messe insieme”. E ancora, Arendt sosteneva che solo
“l’uso del pensiero previene il male”, perché la capacità di
riflettere, la manifestazione del pensiero è capace di provocare
perplessità e obbliga l’uomo a riflettere e a pronunciare un giudizio”.
Quindi, “banalità significa “senza radici”, non radicato, il male non è
mai radicale, ma soltanto estremo, non possiede né la profondità né una
dimensione demoniaca. Il male può invadere e devastare il mondo perché
cresce in superficie, come un fungo. Solo il bene ha profondità e può
essere integrale”.
Mettendo per un attimo da parte la storia e la personalità di Eichmann,
e la vicenda del suo “prelevamento” a Buenos Aires ad opera degli
agenti del Mossad israeliano (ufficialmente Eichmann non venne mai
arrestato ed estradato dall’Argentina in Israele), io ritengo, invece,
che per dovere di giustizia e per rispetto nei confronti dei sei
milioni di ebrei vittime dell’Olocausto, oltre che per tentare di
comprendere appieno la Shoah, le premesse, le cause, le azioni e le
responsabilità dei carnefici, è riduttivo, superficiale, oltreché
irriguardoso e ingiusto etichettare “banale” il male, soprattutto quel
“tipo” di male che ha prodotto così tanta sofferenza.
E come volerlo sottrarre da un giudizio giusto, rigoroso, imparziale,
scientifico, giuridico, e umano. Sembra quasi un voler giustificare
quel male, a tratti scagionarlo, pressoché discolparlo (quasi che il
male non dipendesse dalla ferma, decisa volontà del carnefice, cioè di
chi, in fine dei conti, ha commesso l’azione malvagia), appare quasi
come un voler comprendere, e “giustificare”, “la massa di aguzzini” per
la mancanza, o comunque per la loro non sufficiente, e non
indipendente, volontà e capacità di scelta, vera, mirata, voluta,
perseguita (con tutti i mezzi possibili).
A mio parere, il contenuto del saggio della Arendt sembra quasi voler
delegittimare il male stesso, sminuire il suo profondo carico di
colpevolezza, depotenziare e indebolire le responsabilità personali;
l’autrice, secondo me, emette una “condanna sommaria”, approssimativa,
pur approfondendo le origini, le cause, il contesto dell’antisemitismo,
pur analizzando in maniera “scientifica” il processo che portò alla
“soluzione finale” degli ebrei, pur esaminando attentamente il periodo
storico in questione, anche per spiegare da dove nasce e perché nasce e
come si sviluppa il male. Ma si vuole dare, a tutti i costi, la
responsabilità alla irresponsabilità delle persone che invece hanno
deliberatamente commesso i fatti.
Il male dipinto come banale, nelle pagine della Arendt, diventa quasi
un assioma, una regola immutabile, una legge universale, un’opinione
collettivo, quasi un luogo comune. E invece no! Non sono d’accordo: il
male non è mai banale. Il male è lucido, deciso, astuto, intelligente,
sottile, furbo. Il male sa quel che vuole, e come realizzarlo, sa come
raggiungere il suo obiettivo, cerca i mezzi adatti, il contesto idoneo,
il tempo utile, le situazioni favorevoli, soprattutto cammina con la
testa e con le gambe degli uomini, cioè sa trovare gli uomini “giusti”,
utili, adeguati, efficaci, sa come sceglierli, selezionarli, sedurli,
convincerli.
Il male sa mimetizzarsi, nascondersi, cambiare pelle, all’occorrenza
inabissarsi, sa uscire allo scoperto al momento opportuno, quando meno
te l’aspetti, quando non l’immagini, quando non ci pensi nemmeno. Il
male può anche essere “buono”, o può anche travestirsi da agnello per
colpire come un lupo famelico. Il male conosce gli uomini, il loro
“ventre molle”, il loro carattere, le loro debolezze, i loro punti
sensibili, li sa tentare, li sa abbindolare, riesce a traviarli, sa
come corromperli, come conquistarli, come dominarli. Ma il male,
soprattutto, non è e non deve essere visto come una “entità” metafisica
astratta, indefinita, esterna e autonoma che non dipende dall’uomo, o
come una categoria dello spirito, vaga, eterna, immutabile.
No! Il male, come il bene, è connaturato con l’uomo, nell’uomo, è
insito nel suo pensiero, è un derivato delle sue idee, è un prodotto
delle sue azioni,. Ecco! La “idea” produce il male, come può produrre
il bene. In ultima analisi, il male è il risultato della libertà e del
libero arbitrio dell’uomo. Questa è la più grande responsabilità
dell’uomo. E tutto questo può produrre il “male assoluto”.
Quindi, a mio parere, non è possibile, come ha tentato di fare la
Arendt, o altri, cercare il male assoluto nelle azioni di un semplice
esecutore, in un militare (Adolf Eichmann non andò mai oltre il grado
di tenente-colonnello) che era addetto solo a coordinare
l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di
concentramento e di sterminio, perché se no si rischia di “perdere il
filo”, di “banalizzare” il male (in questo caso si) e di non rendere un
buon servizio alla conoscenza e alla consapevolezza del male e alla
ricerca delle responsabilità.
Eichmann era inserito nella struttura militare della RSHA (Ufficio
Centrale per la Sicurezza del Reich), intruppato in un ingranaggio che
probabilmente andava oltre la sua comprensione, sicuramente al di là
della sua effettiva capacità di controllo e analisi, non dico di
conoscenza, cioè probabilmente sapeva il “risultato” del suo lavoro, la
“soluzione finale”, ma non era protagonista, non poteva determinare il
corso degli eventi, non aveva gli strumenti e la capacità giuridica,
professionale, oltre che morale e umana di “cambiare la storia”. Lui
faceva solamente parte di una catena di comando, era un esecutore di
ordini decisi da altri, con regole ferree, indiscutibili e
incontrovertibili.
I comandi che lui eseguiva erano il prodotto (quelli si) di una “idea”
voluta, studiata, pianificata e organizzata dai livelli più alti del
potere nazista, “ideata” da e in un regime totalitario, in cui era
impensabile, e impossibile, disobbedire e contravvenire agli ordini
dati. Ecco perché il male non può essere banale, non è mai banale.
Angelo Battiato