“Loro non imbrogliano,
non opprimono e non fanno male a nessuno, credono nella reincarnazione,
e in un dio buono e in un dio cattivo”. Loro, i “buoni uomini” e “buoni
cristiani” vestiti di nero, che si aggiravano tra i paesi e le campagne
di mezza Europa. Loro, i catari. Il più diffuso, originale e
organizzato movimento eretico del Medioevo, sorto ai margini
dell’ortodossia cattolica, che riuscì a contrastare lo strapotere della
Chiesa di Roma e a destabilizzare, per oltre tre secoli, l’intero
assetto sociale e religioso dell’Europa. Temuto e combattuto con
spietata energia dalla chiesa cattolica, per la sua capacità di
espandersi e di influenzare vasti strati della società dell’epoca, il
movimento cataro venne infine annientato e cancellato dalla faccia
della terra con una imponente e feroce crociata, organizzata dal papa
Innocenzo III. Come per tutti i vinti della storia, le informazioni sul
movimento ci sono pervenute dai suoi nemici, che, molto probabilmente,
e come sempre succede, hanno “ritoccato” e deformato a loro piacimento
la memoria e la storia della dottrina e dell’organizzazione religiosa
catara.
Ma chi furono i catari? In che cosa credevano? Perché furono
considerati eretici e perseguitati duramente dalla chiesa ufficiale di
Roma? E in cosa consisteva la loro dottrina? In cosa credevano? E
perché i catari si diffusero così rapidamente in ampi strati della
popolazione di molte regioni europee, e soltanto dopo un intervento
armato, con una vera e propria crociata (la prima contro una
popolazione cristiana), si riuscì ad “estirparli” definitivamente dalla
storia? Per molti secoli il loro movimento è stato occultato e immerso
nell’oblio del tempo, perché?
I catari si sono diffusi tra il XII e il XIV secolo, soprattutto, in
alcune regioni dell’Europa, in Linguadoca e in Occitania (Francia del
sud), nell’Italia del nord, in Bosnia, in Bulgaria e in molte aree
dell’Impero bizantino. L’appellativo “catari” (dal greco antico “puri”)
gli venne dato a partire dal 1163 dall’abate Ecberto di Schoönau (c.
1132-1184), che scrisse contro di loro. Venivano chiamati anche
Albigesi, dalla città di Albi, una delle roccaforti catare nella
Francia meridionale, o pubblicani o pobliciani o populiciani in
riferimento all’eresia pauliciana, come anche bulgari, in riferimento
alle presunte origini bogomile della loro dottrina. In Italia gli
appartenenti alla Chiesa di Desenzano era conosciuti anche come
albanesi, dal nome del loro primo vescovo Albano; i seguaci della
chiesa di Concorrezzo si chiamavano garattisti dal nome del loro primo
vescovo Garatto; quelli di Bagnolo San Vito erano bagnolenso o
coloianni, dal nome del loro primo vescovo Giovanni il Bello.
L’origine della dottrina dei catari si perde nella notte dei tempi, si
dice che sia stata un’unione tra le idee neomanichee, pauliciani (metà
VII sec.) e bogomili (inizio X sec.), cioè il vecchio manicheismo,
presente soprattutto nei Balcani, nel sud della Francia e in Italia del
nord, e gli ideali, diffusi tra molti cristiani, della necessità di una
reale riforma religiosa e morale della Chiesa di Roma. Nonostante nel
1163 il Concilio di Tours avesse condannato la dottrina catara e
stabilito la prigione e la confisca dei beni per gli aderenti, la
diffusione degli ideali del catarismo fu così veloce che nel 1167, a
Saint-Félix-de-Caraman, presso Tolosa, si tenne il loro primo concilio,
in cui si posero le basi organizzative del movimento, in vescovati e
diocesi. A questo incontro parteciparono il vescovo bogomila Niceta, il
vescovo cataro della Chiesa di Francia, Robert d’Espernon, il vescovo
cataro della Chiesa d’Italia, Marco di Lombardia, Siccardo Cellerier di
Albi e Bernard Cathala di Carcassonne.
Questo concilio fu molto importante perché stabilì che la Francia del
sud doveva essere suddivisa in quattro chiese catare: Agen, Tolosa,
Albi e Carcassonne; una quinta, quella del Razés, fu istituita nel
1226. Il concilio, inoltre, decise un irrigidimento della dottrina, la
divisione dei membri, tra “perfecti” e simpatizzanti, detti
“credentes”, e venne dato maggiore peso alla gerarchia e alla liturgia.
In tale processo di “ecclesiasticizzazione” solo il gruppo della
Francia meridionale, gli Albigesi, rimase compatto, sotto l’aspetto
dottrinale ed organizzativo. Nella penisola italiana il movimento si
suddivise in sei chiese: Desenzano, (degli “Albanesi”, il cui
principale maestro era Giovanni di Lugio, la più radicale),
Concorrezzo, Bagnolo San Vito, Vicenza o Marca di Treviso, Firenze,
Spoleto e Orvieto. I primi due vescovi catari italiani furono Marco di
Lombardia e Giovanni Giudeo.
La loro dottrina si basava su un “dualismo”, due principi che reggono
la terra: il mondo visibile, la materia, opera del dio cattivo, e il
cielo, opera del dio buono; il Re del Male (Rex mundi) e il Re d’amore
(Dio), che si rivaleggiano alla pari per il dominio delle anime umane.
Essi svilupparono così alcune opposizioni irriducibili, tra Spirito e
Materia, tra Luce e Tenebra, tra Bene e Male, all’interno delle quali
tutto il creato diventava una sorta di grande “campo d’azione” di
Satana (una sorta di Anti-Dio diverso dalla concezione cristiana), dove
il Maligno circuiva lo spirito umano contro le sue inclinazioni giuste
verso Dio. Inoltre, credevano che le anime umane preesistevano alla
nascita, essendo anime di angeli decaduti, imprigionate da Lucifero in
corpi materiali, e destinate a reincarnarsi fino alla liberazione; tale
idea ha molte analogie con la dottrina “origenista” da cui in qualche
modo deriverebbe il loro credo.
Sulla base di questi principi, i catari seguivano alcune rigide norme
di comportamento sociale e individuale: si rifiutavano di mangiare ogni
alimento originato da un atto sessuale, come carne di animali a sangue
caldo, uova, latte, formaggi, ad eccezione del pesce, di cui in epoca
medievale non era ancora conosciuta la riproduzione sessuale; dovevano
astenersi dalle relazioni sessuali, in quanto responsabili della
nascita di persone considerate prigioni per lo spirito e potenziali
“schiavi di Satana”, perfino il matrimonio era considerato peccaminoso.
I catari, inoltre, abiuravano l’uso della forza, il servizio militare e
ogni giuramento, il che li poneva in antitesi con le leggi degli Stati.
La proprietà privata era rifiutata come elemento del mondo materiale, i
“perfecti”, infatti, non potevano possedere nessun bene individuale. Ai
Catari, quindi, era proibito collaborare in qualsiasi modo alla
realizzazione di quelli che essi ritenevano i “piani di Satana”.
Per essi la salvezza consisteva in una rigida “costrizione morale” che
permetteva di liberarsi dalla materia e ritornare con una serie di
reincarnazioni successive alla propria “origine spirituale”. Tale
“ritorno” era determinato con il battesimo o “consolamentum”, un rito
di accoglienza che, conferito dai continentes, con l’imposizione delle
mani, determinava la remissione di tutti i peccati. Questo era uno dei
pochi sacramenti della loro dottrina, insieme ad una sorta di
confessione collettiva periodica, che vincolava i “perfetti”,
distinguendoli dai semplici credenti, “elevandoli” ad una vita di
povertà, penitenza e castità, che impressionava molto le popolazioni,
in un’epoca in cui i sacerdoti non praticavano affatto queste virtù.
Ogni caduta era irreparabile e doveva essere “impedita”, perfino col
suicidio, la cosiddetta “endura”, ottenuto lasciandosi morire di fame o
tagliandosi le vene per lasciarne uscire il sangue.
Prendendo spunto da alcuni passi del Vangelo, in particolare quelli in
cui Gesù sottolinea l’irriducibile opposizione tra il Suo regno celeste
e il regno di questo mondo, i catari rifiutavano del tutto i beni
materiali. Pur convinti della divinità di Cristo, gli albigesi
sostenevano che egli fosse apparso sulla Terra come un “angelo con un
corpo in apparenza umano” (docetismo), (di natura angelica era
considerata anche Maria). Credendo nella deviazione della Chiesa romana
dalla vera fede, perché corrotta e attaccata ai beni materiali, e
accusandola di essere al “servizio di Satana”, i catari crearono una
propria istituzione ecclesiastica, parallela a quella ufficiale
presente sul territorio. La convinzione che tutto il mondo materiale
fosse opera del male determinava come conseguenza il rifiuto del
battesimo d’acqua, dell’eucarestia e del matrimonio, suggellato dal
rapporto carnale.
La massima vittoria del Bene contro il Male era la morte, che liberava
lo spirito dalla materia, e la perfezione per i catari era raggiunta
quando si lasciavano morire di fame (endura). A seconda del contenuto
della fede professata si distinguevano tra catari moderati e radicali.
Per i moderati il Diavolo non è creatore del mondo ma solo architetto,
con il permesso di Dio. I Catari radicali, invece, sostenevano
l’esistenza di due principi opposti, l’uno buono e l’altro cattivo, che
hanno dato luogo a mondi distinti. Le comunità catare avevano una
struttura gerarchica ben definita: i “perfecti” (uomini o donne), che
praticavano la rinuncia ad ogni proprietà e vivevano unicamente di
elemosina, gli unici che potevano rivolgersi a Dio con la preghiera e
che erano sicuri della salvezza; e i “credentes” (simpatizzanti), non
tenuti ad applicare tutte le norme della disciplina, che si definivano
“Buoni Uomini”, “Buone Donne”, “Buoni Cristiani”, e che potevano
sperare di divenire perfetti dopo un lungo cammino di iniziazione,
seguito dalla comunicazione e il consolamentum. Tra i perfecti esisteva
una gerarchia facente capo ai vescovi di ogni provincia (assistiti da
coloro che venivano detti il “Figlio Maggiore” e il “Figlio Minore”) e
ai diaconi delle varie comunità catare.
I catari riuscirono a “sedurre” e a fare molti proseliti tra le
popolazioni dell’epoca perché praticavano con assoluta coerenza i
principi della loro dottrina e li vivevano in maniera radicale, al
punto di “costringere” anche la chiesa cattolica, dopo un lungo e
travagliato percorso, ad una profonda revisione del modo di vivere la
fede, di approcciarsi con il mondo, e di riscoprire e praticare gli
autentici valori evangelici (apostolato dei laici, cura pastorale delle
parrocchie, la vita degli ordini mendicanti).
Mentre inizialmente la gerarchia cattolica tollerò il catarismo,
cercando di contrastarlo con la cura pastorale, la predicazione e
l’educazione catechistica dei fedeli, successivamente, esercitò metodi
repressivi, inizialmente esercitati dal potere politico (monarchi e
feudatari) che tentarono di bloccare con ogni mezzo la diffusione
dell’eresia che scardinava i principi della convivenza civile (famiglia
e società), devastando chiese e monasteri e creando gravi disordini
sociali.
In seguito, dopo ripetuti e infruttuosi tentativi messi in atto da
alcuni legati papali, Domenico di Guzmán adottò nuovi metodi e una più
incisiva azione pastorale, utilizzando i loro stessi principi,
“predicare e praticare”, in maniera concreta e coerente, i principi
evangelici di povertà, umiltà e carità. Questo nuovo modo di
“evangelizzazione”, oltre a contenere la loro espansione, determinò,
dieci anni più tardi, la fondazione dell’ordine dei domenicani. Ma il
papa Innocenzo III già pensava alla loro completa e definitiva
“eliminazione”, promuovendo una vera crociata, la prima della storia
contro popolazioni cristiane. E fu la loro fine.
Angelo Battiato