L’appuntamento
era fissato per le ore 20.00, in un piccolo ristorante della periferia
di Roma, dove il poeta, di solito, andava a cenare. Era un luogo
appartato, in una zona della città che più amava, frequentato dai suoi
amici, i “ragazzi di vita”, come lui li chiamava. Ed era stato proprio
uno di quei ragazzi che m’avevo fissato l’appuntamento con Pierpaolo
Pasolini, per quel sabato sera. E ricordo che quel ragazzo, che
conosceva bene le abitudini e gli impegni del poeta, mi raccomandò, per
evitare disguidi e imprevisti, di arrivare puntale all’incontro. Forse
il giovane aveva intuito che ci tenevo particolarmente ad incontrare e
parlare con Pasolini. Così quella sera, sabato 1 novembre 1975, alle 20
in punto arrivai nel locale, mi sedetti, presi qualcosa per ingannare
il tempo, ed aspettai un bel po’, poi verso le dieci, dopo aver sentito
all’esterno il rumore d’una macchina, entrò nella piccola sala della
trattoria Pier Paolo Pasolini. Aveva un sorriso pallido, con un’aria di
chi cercava qualcosa o qualcuno, sembrava avere fretta. Dal suo saluto
capii che già conosceva tutti gli avventori e che era un assiduo
frequentatore di quel luogo, soprattutto, in quelle ore notturne. Mi
sembrò di capire che quella sera non aveva tanta voglia di mangiare,
ricordo che prese solamente un piatto di spaghetti aglio e olio e un
po’ di vino rosso, sembrava quasi che avesse fretta d’andar via, che
cercasse, che volesse incontrare qualcuno.
Ricordo che mi salutò affettuosamente, s’accomodò nel mio tavolo e
ordinammo, volle offrire lui. Poi iniziammo a parlare. Io ero
visibilmente emozionato, tanto che lui, ad un certo punto, mi disse, “A
ragazzì, qua non ci so’ “lei”, io so’ Pierpaolo per tutti, e anche per
te!”. Quella sera conversai a lungo con Pier Paolo Pasolini, poeta,
scrittore, saggista, giornalista, critico, regista, tra i più
importanti intellettuali e artisti italiani del Novecento, sicuramente
il più acuto e radicale, e anche il più discusso e controverso del
Dopoguerra.
Maestro, raccontami un po’ della tua
giovinezza…
«Della mia giovinezza ricordo soprattutto il Friuli e poi le città e i
tanti paesini del nord dove ho vissuto per i continui spostamenti della
mia famiglia a causa del lavoro di papà. E ricordo soprattutto le
estati bellissime trascorse nella mia dolce Casarsa, il paese di mia
madre, un vecchio borgo grigio e immerso nella “più sorda penombra
della vita, popolato a stento da antiquate figure di contadini e
intronato dal suono senza tempo della campana”. Ricordo ancora i
pomeriggi passati a giocare a calcio con i miei amici,… che serenità! E
poi Bologna, dove ho passato sette anni, tra i più belli della mia
vita. Lì mi sono iscritto alla facoltà di Lettere, e mi sono laureato
con una tesi su Giovanni Pascoli, lì ho scoperto le mie passioni per la
letteratura, la storia dell’arte, la filologia romanza, l’estetica
delle arti, e poi lo sport, il calcio, la bicicletta e soprattutto il
cinema. All’epoca leggevo tutto quello che mi capitava tra le mani,
tutto ciò che riuscivo a comprare nelle bancarelle dei libri usati:
Dostoevskij, Tolstoj, Shakespeare, Manzoni, Ungaretti, Montale,
Quasimodo…».
Cosa pensi del dialetto?
«Io ho amato il dialetto di mia madre, il friulano. Proprio a Casarsa
ho iniziato a scrivere in lingua friulana, e tra ‘41 e i primi del ‘42
ho pubblicato, a mie spese, le prime poesie in un libretto intitolato,
“Poesie a Casarsa”. Il dialetto, tutti i dialetti, sono “luoghi
dell’anima” d’ogni uomo, sono legami inscindibili e misteriosi con la
propria terra, sono “radici” d’emozioni e di ricordi, sono metafora di
diversità e d’integrazione. Il dialetto è la lingua dell’infanzia che
abbiamo ascoltato da nostra madre, nell’alba della vita. Bada bene, non
parlo di dialetto-regione, dialetto-autonomia, ma di dialetto-identità,
dialetto-narrazione che diventa ricchezza per tutti, che arricchisce le
differenze e le unicità di ognuno, che si fa carico di dare risposte
nuove e allo stesso tempo antiche, valide e riconoscibili per tutti».
Anch’io amo il mio dialetto, la lingua
siciliana!
«Lo so benissimo! Che meraviglia il siciliano! E’ poesia allo stato
puro! Dobbiamo difendere la nostra lingua dall’aggressione di una
cultura barbara, massificante e globalizzante. Dobbiamo combattere la
standardizzazione e l’omologazione culturale della nostra epoca. Aveva
ragione il grande poeta siciliano Ignazio Buttitta quando scriveva, “se
ad un popolo gli togliete la lingua “addutata” dai padri, perde
l’identità, perde la libertà”. Il vero pericolo è che i dialetti, come
anche le lingue nazionali, prima o poi saranno “sopraffatti” dalla
“lingua dominante” e sarà un “genocidio culturale”, l’annientamento dei
valori, che produrrà un danno incalcolabile».
Una nuova forma di fascismo?
«Bravo! Questo è il nuovo fascismo! Una nuova forma di fascismo, ma più
subdolo e invasivo, più aggressivo e pericoloso di quello in camicia
nera, oramai morto e sepolto a piazzale Loreto. Vedi, il fascismo del
Ventennio non è riuscito a incidere, a scalfire neanche minimamente la
società italiana, invece nel nostro “sistema democratico”, il potere
della società dei consumi riesce ad ottenere perfettamente quella
aculturazione, quella omologazione, distruggendo le varie realtà
particolari, e questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che proprio
non ce ne siamo resi conto, tutto è avvenuto negli ultimi cinque, sei,
sette, dieci anni, e adesso ci accorgiamo che non c’è più niente da
fare. E’ in atto una vera omologazione, un appiattimento culturale
senza precedenti, prodotto da un potere che non ammette sconti e
obiezione, che si difende in tutti i modi. D’altronde, adesso il potere
dominante ha strumenti di comunicazione e di indottrinamento così
formidabili e pervasivi, mai visti prima, soprattutto la televisione,
“medium di massa”, la “cattiva maestra”, dagli effetti devastanti. E
poi il cinema,… e le bombe. Ma… di questo, ne parleremo un’altra volta».
Tante volte parli male della
televisione. Perché?
«L’ho detto e lo ripeto, la televisione è la “cattiva maestra” della
società d’oggi, la maggiore responsabile dell’alienazione dell’uomo
moderno. Attraverso la televisione il “Centro” ha assimilato a sé
l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di
culture originali. E ha imposto i suoi modelli voluti della “nuova
industrializzazione” che non si accontenta più di un “uomo che consuma”
ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del
consumo. Questo è il vero dramma! La televisione è profondamente
antidemocratica e autoritaria: infatti tra il video e lo spettatore non
c’è la possibilità di dialogo. Il video è una cattedra; il video
consacra, dà autorità, ufficialità. Il video dà potere e rappresenta il
potere, che tiene in soggezione l’ascoltatore, perché impone la sua
visione, il suo linguaggio, distruggendo tutto il resto. Il video è un
“medium di mass” che ha verso l’ascoltatore un rapporto da superiore a
inferiore. La televisione rappresenta modelli ed esempi negativi,
eticamente devastanti, fuorvianti per i giovani. E se i modelli son
quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa
non sia criminaloide o criminale!? Che non sia sbandata e maleducata!?
E’ con la televisione, come “mezzo”, che s’è concluso l’era della
pietà, ed è iniziato l’era dell’edoné, dove i giovani, insieme
presuntuosi e frustrati, a causa della stupidità e
dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla
televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla
delinquenza, o passivi fino alla infelicità, che non è una colpa
minore».
La nostra società è intrisa
d’inquietudini e di contraddizioni, e sconta colpe di un passato, mai
passato. Avranno i giovani la forza e la volontà di cambiare?
«I giovani!? Quali giovani? Credo di essere stato chiaro durante i
giorni della “rivolta di Valle Giulia”. Siete in ritardo, figli! Avete
facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio
cattivo. siete paurosi, incerti, disperati. E quando quei giovani,
figli della borghesia, hanno fatto a botte con i poliziotti, io
simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri,
vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Ma andate
piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! Andate ad invadere cellule!
Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate ad
accamparvi in via delle Botteghe Oscure! E voglio essere ancora più
chiaro. Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno i due fratelli
Kennedy, se non per un’istituzione? E per cos’altro, se non per le
istituzioni moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong? Poiché le
istituzioni sono commoventi: e gli uomini in altro che in essi non
sanno riconoscersi. Sono essi che li rendono ugualmente fratelli. C’è
qualcosa di misterioso nelle istituzioni, e chiedo ai giovani la forza
e il coraggio di difenderli. Le istituzioni sono commoventi e
misteriosi, sono il “reticolato” della libertà individuale, sono il
baluardo della vita democratica della comunità».
“Io so”, hai scritto proprio
l’altr’anno sul “Corriere della Sera”. Ed hai usato parole pesanti…
«Si, ho scritto, “io so i nomi dei responsabili di quello che viene
chiamato “golpe” e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a
sistema di protezione del potere. Io so i nomi dei responsabili di
tutte le stragi, ma non ho le prove, non ho nemmeno indizi. Io so,
perché sono un intellettuale”. Ma io so! E per adesso non farò nessun
nome. Ma mi dà una specie di panico per ciò che sta succedendo in
Italia. Ho paura per il futuro, per il mio futuro personale, per il mio
lavoro. Ma, caro amico, dobbiamo avere il coraggio della volontà. Anche
se sono profondamente pessimista».
Secondo te, l’Italia avrà un futuro?
«Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia.
L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio
dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che
potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.
Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia
per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se
l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si
accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di
veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese
è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi
vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo
stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica
allergia alla coerenza, a una tensione morale. E quindi, se non abbiamo
il coraggio di cambiare, dubito che “l’Italia possa avere un futuro”».
Maestro, quanto ami Roma e quanto ami
i “ragazzi di vita”?
«Roma è una città meravigliosa e incredibile! Nel 1950 con mia madre ci
siamo trasferiti in questa città e qui, nelle borgate, nei sobborghi,
nelle periferie, sin da subito, ho ritrovato intatto quel piccolo mondo
contadino che mi affascina da sempre, che amo intimamente. Roma,
stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita
ignota… Amo le sue borgate e i suoi abitanti. Perché dai margini si
vede di più e meglio quello che succede al centro, dai confini vedo le
profondità delle cose, capisco il senso della vita. Solo attraverso la
semplicità si riesce a comprendere la realtà, solo attraverso la
purezza si riesce a percepire la verità. I ragazzi di vita, come io
affettuosamente li chiamo, sono gli emarginati, i più ultimi della
società, e solo loro hanno una purezza, una genuinità, quasi una
timidezza che va protetta, tutelata, conservata. Amo i ragazzi che
hanno la quinta elementare, “l’età del pane”, perché sono veramente
liberi, sono “puri di cuore”, hanno una grazia che purtroppo si perde
con la cultura, con il consumismo e con una società corrotta, dove
trionfa l’edonismo piccolo borghese. Questi ragazzi sono spontanei,
semplici, anche se violenti, hanno un istinto naturale di vita, di
esperienza, di libertà; hanno un desiderio “feroce” di mordere
l’esistenza, di godere delle piccole cose di ogni giorno. Hanno voglia
di meraviglia e di meravigliarsi. Per questo li amo. Sono i miei
“ragazzi di vita”!».
Molti ti amano, ma molti ti odiano.
Perché?
«Io, caro amico, nel corso della mia vita ho subito ben 33 procedimenti
giudiziari, e centinaia di denunce penali, per atti osceni in luogo
pubblico, per vilipendio alla religione, per blasfemia, per oltraggio
al pudore, una addirittura per rapina a mano armata. Un’assurdità da
cui sono uscito a testa alta, come, del resto, per tutti gli altri
processi, dove sono stato accusato ingiustamente. Praticamente in
Italia mi hanno accusato di tutto! Persino il partito dove ho militato
per molti anni, il Partito Comunista, mi ha espulso. M’hanno creato
terra bruciata intorno, tutti! I giornali, la magistratura, i partiti
politici, le Istituzioni, la Chiesa cattolica. E sai perché!? Perché ho
detto sempre parole di verità, nei romanzi, nelle poesie, nei film,
negli articoli. Ho cercato sempre, con tenacia e pazienza, con
caparbietà e serenità, di dire la verità, senza guardare in faccia a
nessuno. Verità e bellezza. Questa è la mia poesia!».
Quali sono i tuoi progetti futuri?
«Ho ancora mille cose da dire e da fare! Amo molto il cinema, perché ti
permette di parlare con il linguaggio della realtà, in maniera chiara,
comprensibile, diretta. Adesso ho iniziato un libro che mi impegnerà
per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però.
Devi sapere che è una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di
tutte le mie memorie. Il titolo sarà “Petrolio”. Ne sentirai parlare».
Capii che l’incontro era terminato. Pasolini doveva andare via. Ma
mentre s’alzava dal tavolino, ebbi ancora il tempo di chiedergli, Maestro, ma poi,… cosa sono le nuvole!?
«Ah, le nuvole, quanto so’ belle, quanto so’ belle! Le nuvole sono
metafora dell’Infinito, sono come un bacio dell’immensità alla terra,
un “apostrofo rosa” sul mondo, sull’inesauribilità della natura, sulla
“straziante meravigliosa bellezza del creato”, sulla carnalità
dell’uomo! Potessi vedere anch’io le nuvole, nel mio ultimo sguardo…!».
Terminò così il nostro breve ma inteso dialogo, in un piccolo
ristorante di periferia, davanti a una frugale cena e a due bicchieri
di vino. Il poeta aveva fretta, mi disse che doveva andare dalle parti
della Stazione Termini. Volevo trattenerlo ancora un po’, ma alla fine
si alzò, e prima d’uscire dal locale si voltò e col suo limpido sorriso
da fanciullo mi salutò dicendomi, “Ho ancora tante cose da dirti. Ci
rivedremo presto”. Non lo vidi mai più. L’indomani, domenica 2
novembre, verso sera, guardando per caso la televisione appresi che una
donna di borgata, alle 6.30 di quel mattino, aveva trovato in uno
spiazzo dell’Idroscalo di Ostia il corpo senza vita di Pierpaolo
Pasolini. Senza nessun tiglio a fargli ombra, come aveva sperato il
poeta della “Nuova Gioventù”. E senza le sue adorate nuvole. Ma con la
camicia strappata e intrisa del suo sangue. Era stato massacrato.
“Poeti come lui ne nascono uno ogni cento anni!”. Confesso che piansi,
in silenzio, amaramente…
“Pasolini doveva sparire. La sua voce, le sue idee, la sua arte erano
troppo vere e troppo vicine al popolo italiano, non bastava ucciderlo,
si dovevano eliminare le sue idee con lui. La sua morte è stata l’atto
finale di un disegno preciso. La Macchinazione ricostruisce il suo
assassinio, mostrando la trama di interessi e le incongruenze che per
45 anni hanno impedito di trovare la verità”.
“La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più
essere compresi”. PPP
Angelo Battiato