Venti minuti dopo il tribunale, riunito nel carcere di Insein a nord di Yangon, sentenzia: Aung San Suu Kyi è colpevole, condannata a tre anni di carcere e ai lavori forzati per violazione delle norme sulla sicurezza. Ne rischiava fino a cinque. Subito dopo, però, si apprende dal ministero dell'Interno birmano che, il generale Than Shwe, capo della giunta militare al potere, ha deciso di ridurre la pena, commutandola in un anno e mezzo di arresti domiciliari: una nuova pena dunque che si assomma alla reclusione che la donna subisce da ormai da quattordici anni
Insomma un chiaro segnale politico, una macchia da gettare su l'unico baluardo di speranza democratica che esiste in Myanmar, così da mettere sotto scacco l'opposizione al regime in vista delle elezioni del 2010. Se, infatti, non verrà annunciata alcuna misura di clemenza entro il prossimo anno, la leader politica non potrà partecipare alle elezioni nazionali fissate dalla giunta militare. John William Yethaw è stato invece condannato a sette anni di lavori forzati.
La determinazione impiegata nel perseguitare una donna sola e armata unicamente di prestigio personale è l’evidente dimostrazione del fatto che la giunta militare birmana ancora considera Aung San Suu Kyi un pericolo mortale per la propria sopravvivenza. E di questo infatti si tratta: Myanmar è oggi un esempio di mal governo, di un Paese che pur disponendo di buone risorse non è mai davvero decollato ( e, anzi, ha rischiato il tracollo nel 2003, quando venti banche private hanno chiuso per sempre gli sportelli) e si accontenta di sfruttare in modo parassitario l’esportazione di gas e petrolio e l’amicizia interessata della Cina, il principale partner economico.
Ma l’emarginazione e la persecuzione di figure come la sua, capaci di portare un contributo politico creativo in un’epoca di globalizzazione e di contatti sempre più fitti, è proprio ciò che costringe ancora molti Paesi a un ruolo marginale rispetto alle proprie potenzialità, spingendoli magari poi a inseguire sogni nucleari per compensare il ritardo con un’immagine di forza e aggressività. I generali di Myanmar insegnano, gli ayatollah dell’Iran semmai confermano.
«Grazie per il vostro verdetto». Così, tra l’ironia e il sarcasmo,la leader dell’opposizione birmana, il premio Nobel per la Pace 1991 Aung San Suu Kyi,ha commentato il verdetto della corte speciale nel famigerato carcere di Insein a Yangon, la vecchia capitale dell’ex Birmania già nota come Rangoon, che l’ha condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari. Fino al 2010, quando si dovrebbero tenere le lezioni politiche.
Il volto teso, eretta, minuta nel suo abito tradizionale dal colore rosa e grigio chiaro, la donna sotto forte scorta è rientrata nella sua modesta abitazione alla periferia ovest della città da dove era stata prelevata a forza dai militari lo scorso 14 maggio, per l’inizio del processo. Ora nella sua residenza sconterà l’ennesima pena.
Non sono state sufficienti le proteste internazionali, la minaccia da parte dell’Unione Europea di irrobustire le sanzioni economiche. La condanna è arrivata violenta come uno schiaffo in piena faccia all’opinione pubblica del mondo intero.
«La sua testardaggine è la sua forza», dice Silverstein. Questa donna non si piegherà e non si spezzerà». L'opposizione democratica contro il regime militare in Birmania è sempre più impersonata da una donna sola e decisa.
In attesa di avere notizie sul processo ad Aung San Suu Kyi, il dibattito sulla Birmania è destinato a continuare in molte sedi. Chi volesse conoscere meglio la realtà politica di quel Paese – meraviglioso sotto molti aspetti, ma funestato da un regime oppressivo – può avere aggiornamenti e approfondimenti (oltre che su Birmania Campaign) anche su questi blog e bollettini: Sudestasiatico.com, Burma Campaign UK e Democratic Voice of Burma.