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Sostegno: L'insegnante di sostegno ...Professione Key Worker

Istituzioni Scolastiche

                                       PUBBLICATO: HR- HANDICAP RISPOSTE                                                Mensile di attualità, cultura e informazione  

 

Professione Key  Worker

 La figura dell’insegnante di sostegno  da un lato ha guadagnato  posizioni rispetto ai punti di partenza che lo vedevano quasi un corpo estraneo inserito in un tessuto omogeneo; dall’altro la sua stessa specializzazione rischia di emarginarlo proprio ora che viene accettato. Chi è troppo specializzato rischia di essere tagliato fuori dal cambiamento. Approfondendo la propria specificità l’insegnante di sostegno scava un solco sempre più profondo che lo separa da quelli curriculari. La cultura dell’integrazione, dopo aver toccato i docenti di sostegno, non ha vie di uscita se non coinvolge anche i colleghi curriculari. Tutti,  in qualche misura, dovranno essere specializzati.  E l’insegnante di sostegno? Diventerà  un operatore di rete.

 

 

Letizia Colonna - colonnaletizia@infinito.

 Il futuro della professione dell’insegnante specializzato si delinea in modo diverso e nuovo; egli, infatti, dovrà essere in grado di collegare l’istituzione scuola con la comunità in modo da attivare tra questi elementi portanti una relazione continua e significativa. Si tratta di aprire il ruolo a un lavoro più esteso all’interno della scuola, all’esterno e nel territorio. La mentalità di rete porta l’insegnante di sostegno a pensare ai problemi dell’utenza debole non più in termini essenzialistici, cioè come disfunzione della natura o dell’essenza costitutiva di una persona (l’handicap),  quanto piuttosto in termini relazionali, come insufficienza della rete di relazioni dentro le quali si muovono in qualche modo tutte le persone coinvolte nel problema: utente, A.S.L., terapeuti della riabilitazione, Enti locali, ecc. Tale docente dovrà pensare non solo in riferimento alla propria prestazione, ma allargare il proprio punto di vista per entrare in sintonia con altre persone. Il people processing (la trasformazione delle persone) non dipende solo dalla qualità delle prestazioni: anche quando l’intervento di un insegnante di sostegno fosse ottimale il risultato potrebbe essere scadente, perché questo non si misura da quanto un insegnante fa, ma da come risponde il soggetto a cui ci riferiamo. Esiste un contorno, e delle variabili esterne che entrano in gioco: la rete. Possiamo subirla o dominarla. L’intervento di rete, secondo  Forgheraiter (1995), collega il miglioramento della qualità di vita non già ad un evento improbabile come la guarigione, ma piuttosto ad un miglioramento diffuso delle condizioni ecologiche (ambientali, in senso umano oltre che fisico) in cui la persona malata si trova. Questo miglioramento ecologico si può facilitare anche con modalità semplici che sono in linea di massima anche alla portata di tutti. Ciò  non vuol dire che il lavoro di rete tenda alla dequalificazione, è semplicemente collocato in un altro registro epistemologico. Tale lavoro, si inserisce  in  una prospettiva di “community care”(Forgherairer,1991),vale a dire in un contesto di località e territorialità in cui la scuola rappresenta solo uno ancorché importante degli elementi. Piazza, definisce la rete come un soggetto politico che si muove in direzione del benessere sociale. Il soggetto è unico, anche se non uniforme. La rete è articolata, a mille propaggini, ma una sola testa. Forgheraiter (1994) definisce tale lavoro come uno sforzo diretto a raccordare, a facilitare i sincronismi e le sinergie tra i molteplici poli formali e informali coinvolti direttamente o indirettamente nell’aiuto. Si tratta innanzitutto di un lavoro di supporto e di coordinamento diretto alle reti già esistenti (si pensi al rapporto scuola-sanità). Per l’insegnante di sostegno si tratterà di reperire altre persone, docenti soprattutto, ma anche genitori di alunni e operatori esterni in grado di costituire un reticolo di educazione, assistenza e cura per chi ne avesse bisogno in una logica di continuità. La continuità si fonda sulla possibilità per la persona (nel nostro caso il portatore di handicap) di proiettarsi verso il futuro, operando in modo che tutto il suo potenziale possa essere espresso pienamente, in ogni spazio e ogni età. Un solo tipo di sostegno (l’insegnante specializzato) non è sufficiente per i bisogni degli insegnanti e per quelli degli alunni: occorre un approccio interdisciplinare che veda un continuum non solo in verticale, ma anche in orizzontale, mediante organismi e strutture di sutura tra servizi del territorio. Quando si definisce il lavoro di rete non ci si può limitare a una generica collaborazione: gli operatori dell’ A.S.L., i terapisti della riabilitazione, il volontariato, gli operatori di altri Enti, tutti coloro che collaborano nel sociale che apparentemente lavorano in modo coordinato. Un produttivo lavoro di rete suppone un piano deliberato e partecipato da più componenti. Tale attività si ha quando ciascun operatore organizza il proprio lavoro tenendo conto di quello degli altri, quindi, un’attività in sinergia; secondo  Forgheraiter è un lavoro concettuale e pratico di tipo sovraordinato. Si ha quando un operatore si stacca dalla sua prestazione o dalla sua mansione e svolge piuttosto un lavoro super partes, di tipo vagamente manageriale, di assistenza alla rete nel suo complesso. Non si tratta solo di stare al proprio posto, senza ostacolare e invadere quello degli altri, quanto invece di introdurre elementi di organizzazione perché la pluralità di fattori interessati a un caso si armonizzi coordinandosi come un tutto. Nel lavoro di rete non esistono capi del personale, esistono operatori che di volta in volta diventano coordinatori a seconda dell’attività da realizzare e a seconda della specificità degli obiettivi. Se l’intervento riguarda l’inserimento e le attività a scuola, è chiaro che chi ha maggiormente le mani in pasta sia anche il coordinatore di quella determinata attività. In un lavoro di rete il ruolo sarà temporaneo e intercambiabile, sarà dinamico e non statico: la circolarità dovrà sostituire un modo di lavorare lineare. La scuola non è l’unico servizio offerto dal territorio, ne esistono altri con compiti diversi ma convergenti: è solo all’interno delle problematiche scolastiche che l’insegnante di sostegno si potrà porre come un key worker (un operatore chiave), mentre tale ruolo in contemporanea logica o in sequenza cronologica sarà assunto per altre specificità da altri operatori. Per questo l’insegnante di sostegno, lungi dal costituirsi una “centralità”, dovrà in primo luogo mettersi in posizione di ascolto identificandosi con l’alunno, essendo quest’ultimo il vero interlocutore anche se fisicamente assente: in fondo il vero soggetto della rete è proprio lui. Il ruolo di key worker non è una posizione di supremazia, ma di servizio, di guida, di promozione e coordinamento: quanto più questo lavoro sarà meno direttivo e necessario, tanto più si sarà attivato un lavoro veramente di rete: la rete una volta operativa, sarà in grado di funzionare da sola e allora avrà bisogno di una semplice “manutenzione”. L’obiettivo è quello di una rete autoregolantesi. Gli accordi di programma della legge 104/92 secondo le modalità dell’art. 27, possono e debbono costituire il modo istituzionale per la costituzione di una rete integrativa. L’accordo di programma infatti: è uno strumento per coordinare le risorse del territorio (in senso politico) e dell’informale (gli stimoli e l’ambiente spontaneo esistente); deve evitare le frammentazioni e giustapposizioni di interventi frutto della distribuzione di competenze tra i vari Enti preposti all’integrazione;deve promuovere raccordi istituzionali fra Enti per erogare prestazioni di servizio in ambiti territoriali adeguati. Qui c’è tutta la rete sul piano formale. Sul piano informale ci si dovrà collegare con tutto ciò che il territorio offre, come ribadisce il D.P.R. 416/74 “se la scuola è una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica”, ne deriva che sia la microcomunità-scuola che la macrocomunità del territorio debbano trovare momenti di incontro e di progettazione comune, ma soprattutto debbono farsi comunità di sostegno e di aiuto alle persone in difficoltà. In una comunità di sostegno gli individui sono interdipendenti, ciascuno ha una funzione e un ruolo: questo tiene legate le persone tra loro. Nella creazione di un tale tipo di comunità, un ruolo importante spetta all’insegnante di sostegno: a livello interno ed esterno.   ASPETTI PSICOLOGICI E RELAZIONALI L’integrazione scolastica è legata innanzitutto alla disponibilità degli insegnanti, dei compagni di classe e dei loro genitori, i quali non di rado, sono contrari all’innovazione, perché temono che i propri figli possano subire una riduzione del livello di apprendimento. A costoro basterebbe ricordare le ultime frasi che Lorenzo Milani scrisse ad una professoressa della scuola di Barbiana: “l’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno, ma  se si perde loro la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventeranno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora chiamateli, insistete, ricominciate tutto daccapo all’infinito, a costo di passare per pazzi. Meglio passar da pazzi che essere strumento di razzismo”. In un convegno sul tema “L’handicappato, uno di noi”, tenutosi a Recoaro Terme nel settembre 1980, è emerso che il 78% dei genitori sono favorevoli all’inserimento, ma solo il 5% consente ai propri figli di frequentare, fuori dall’orario scolastico, i bambini svantaggiati. Numerosi sono infatti i pregiudizi radicati nella mentalità comune circa la presenza dei portatori di handicap in classe normale. Diffuso è soprattutto il timore relativo ad una riduzione dello svolgimento dell’attività didattica: si teme, infatti, che la presenza del soggetto disabile possa rallentare il ritmo di apprendimento dei contenuti cognitivi da parte dell’intera classe. Anche la diversa organizzazione della struttura scolastica in gruppi di lavoro, flessibili, orientati spesso verso attività non curriculari, costituisce motivo di sospetto da parte di genitori che conservano una visione della scuola ancorata ai modelli tradizionali di classe chiusa, insegnante unico, apprendimento formale delle discipline. Quindi, se fino a qualche tempo fa, l’elemento centrale del sistema di integrazione su cui agire era considerato l’alunno disabile, ora appare chiaro come la prospettiva di approccio vada rovesciata, come l’integrazione possa attuarsi solo intervenendo sul sistema scuola nel suo complesso. Il punto vero non sta nell’inserire una particolare categoria di bambini nelle classi normali, ma nel far crescere delle comunità scolastiche che rispondono ai bisogni educativi e sociali di ciascun alunno. Da qui la conseguenza che i compiti della scuola, ed in particolare dell’insegnante di sostegno non possono situarsi solo all’interno della relazione docente-alunno, ma devono allargarsi al di fuori di questo rapporto per coinvolgere il contesto, l’ambiente e l’ecosistema in cui vive l’alunno. Il difficile non è avere idee nuove, ma liberarsi dalle idee vecchie: l’integrazione non è solo un “atto dovuto”, come insegna il linguaggio delle circolari, ma una necessità scientifica e umana. Essa non è un privilegio ma un fattore di miglioramento, della qualità della scuola e delle società, secondo  Savater (1991): a)   tutti gli allievi godono di benefici nell’accogliere persone diverse e con problemi. Ogni bambino ha l’opportunità di fare esperienze con i diversi, di imparare da loro, di occuparsene: così acquisisce nuovi apprendimenti e scopre inclinazioni, abilità e valori di solidarietà. Il che significa che quanto vengono forniti dei programmi scolastici adeguati e forme di sostegno in ambiti integrati, gli alunni tendono a imparare più di quanto riesca loro in ambiti segregati; b)   gli effetti perversi dell’isolamento si riducono: la mancanza di autostima, di motivazioni e di aspettative di successo sono prodotti tipici degli ambienti scolastici segregati con conseguente riduzione della spinta intrinseca dell’apprendimento; c)    l’etica non può aspettare la politica né la scienza. Secondo W. e S. Stainback (1993)è discriminante che alcuni alunni, come quelli classificati disabili, debbano conquistarsi il diritto di essere integrati nella vita scolastica ordinaria o aspettare che la ricerca pedagogica dimostri scientificamente che possono trarre profitto dall’integrazione, mentre gli altri  non hanno restrizioni di sorta perché non sono stati etichettati in nessun modo. Per nessuno dovrebbe esistere l’obbligo di superare un test o di dimostrare particolari abilità al fine di essere inserito nella vita scolastica e comunitaria. E’ un diritto fondamentale della persona in quanto tale, non qualcosa da conquistare. Si tratta di un investimento anche economico:anche se non dovessero  fare presa gli argomenti di ordine etico, basterà far notare la convenienza dell’inserimento. Se s’investe nella formazione del disabile, questi avrà sempre minor bisogno di assistenza: “un handicappato assistito è sempre un handicappato, un handicappato che lavora e un lavoratore. Il costo sociale è sicuramente più alto se non si fa integrazione. L’insegnate di sostegno perciò deve assumere una filosofia scolastica integrativa come propria concezione di vita. E’ lui per primo che deve essere convinto della necessità democratica, etica ed economica di questo processo. Solo così potrà adoperarsi perché nei vari organismi istituzionali si ponga come diffusore e sponsor dell’integrazione. Il che significa vivere il proprio ruolo ben oltre il rapporto educativo in senso stretto” (Piazza,1998).Esiste uno strumento istituzionale il G.L.I.P. nella singola scuola: si tratta di far funzionare un’unità operativa, in cui tutte le componenti della programmazione, degli interventi siano coinvolte. Questo organismo (previsto dalla legge 104/92), all’art. 15 della suddetta legge definisce il  G.L.I.P.: “Presso ogni circolo didattico ed istituto di scuola secondaria sono costituiti i gruppi di studio e di lavoro composti da insegnanti, operatori dei servizi, familiari e studenti con compito di collaborazione alle iniziative educative e di integrazione predisposte dal piano educativo”. A questo punto appare evidente come all’insegnante di sostegno si richiedono competenze che lo proiettino al di là del semplice rapporto docente-alunno per farne elemento di sutura tra elementi diversi. 

 

 ALL'INTERNO DELLA SCUOLA, LAVORARE IN TEAM Il team è un gruppo di lavoro nel quale si realizzano una dinamica capacità di intesa e un accordo dialettico su linee di condotta unitaria. Docenti diversi, che pur operano nella medesima classe, tengono di solito modalità diverse di rapportarsi con gli alunni, differenti modi e tempi di procedere nell’insegnamento, nell’uso degli strumenti, sussidi e nell’organizzazione didattica degli scolari stessi. Il gruppo docente non si improvvisa, non è un punto di partenza ma un punto di arrivo. Per passare da “gruppo di docenti” a “gruppo docente” è necessaria una  motivazione tale da  superare la resistenza al cambiamento. Poi occorre gradualità in un processo che porti al coordinamento attraverso momenti di negoziato. Secondo Piazza sono individuabili almeno tre modalità o gradi di convergenza e di coesione: il primo è rappresentato dalla conoscenza e messa in comune degli obiettivi educativi di ciascun docente; il secondo grado consiste nel programmare in comune un percorso educativo; il terzo  consiste nel raggiungere delle intese di principio su cui fissare criteri comuni di lavoro e giungere a un progetto formativo unitario che veda come costante l’obiettivo degli apprendimenti e lo sviluppo unitario e globale dello studente. Bisognerà rivedere e ripensare i comportamenti degli operatori scolastici in tutti i settori; occorrerà promuovere il passaggio dall’insegnante ex-cathedra all’insegnante operatore sociale: da operatore singolo a operatore del collettivo. Per lavorare bene insieme, secondo Piazza, non ci sono ricette, ma solo suggerimenti: operare una pulizia del proprio mondo interiore(non chiedersi perché si è così, ma come ci si comporta e quali sono i nostri comportamenti in termini di costi-benefici da analizzare); non formulare giudizi sul valore morale di altre persone (la  capacità di non giudicare segna il confine tra una comprensione autentica e una comprensione egocentrica.  Imparare a godere del processo e non avere in mente solo il prodotto. Avere a cuore lo stare bene insieme. Eliminare i sensi di colpa immotivati); sviluppare la capacità di utilizzare il linguaggio dell’altro.  Il linguaggio è il canale ordinario dell’empatia; Jung parla di fusione tra parlante e ascoltatore. Ma l’importante è intendersi, riducendo al minimo la patologia dell’ascolto. Sviluppare quello che Adler chiama il coraggio dell’imperfezione, ovvero la capacità di sbagliare.Ogni lavoro di gruppo e in gruppo presuppone un aiuto; un aiuto agli altri che ritorna a se stessi e permette la produttività del gruppo stesso. Rogers  ha spostato il focus del colloquio d’aiuto dal ruolo dell’operatore al ruolo della persona. L’aiuto, la terapia, l’istruzione sono stati visti come processi che si elaboravano dall’interno della persona che li andava a offrire. Rogers rifiuta questo schematismo: il problema non è un caso clinico, ma è attaccato a una persona concreta. L’aiuto non consiste nel proporre soluzioni, quanto invece nell’eliminazione/riduzione di ostacoli, rendendo così possibile il dispiegarsi di energie che la persona possiede. La relazione tra persone che conseguono un fine etico e sociale è uno strumento di libertà. Il gruppo è tale perché si distingue nel contesto in cui opera, i rapporti tra i membri del team teaching a scuola sono quelli che caratterizzano i gruppi primari (Cooley,1956), che presentano un certo grado di intimità tra le persone che ne fanno parte. Un insieme di persone forma un gruppo solo se i legami sono faccia a faccia, se esiste una certa affettività, se vi è condivisione di obiettivi comuni e se si passa dall’io al noi. Il valore e la vitalità di un gruppo si misurano dal numero di scambi, dalla quantità e qualità delle interazioni. Questi scambi interattivi sono vitali e costituiscono la base dei processi sociali. Se qualità e quantità di scambi lasciano a desiderare, se alle azioni non corrispondono reazioni adeguate allora il gruppo non è gruppo ma una somma di individui. Caratteristica di un gruppo professionale è la condivisione dei problemi. In un primo tempo, l’insegnante di sostegno dovrà farsi animatore del gruppo, provocando la più ampia partecipazione e accettando anche le critiche e i punti di vista dei colleghi. Egli dovrà  in primo luogo possedere qualità umane e poi quelle tecniche, perché secondo  Folgheraiter (1996) , quando la persona giusta usa mezzi sbagliati, questi ultimi agiscono in modo giusto; quando la persona sbagliata usa mezzi giusti, questi ultimi agiscono in modo sbagliato. Le qualità di fondo di un insegnante che voglia farsi animatore sono ovvie: simpatia, capacità di sentirsi a proprio agio in mezzo agli altri, capacità di empatia; tutto ciò che possiamo definire “attrattiva personale”. May (1991) definisce tale attrattiva come l’altra faccia dell’interesse e del piacere che l’individuo trae dagli altri. Il docente specializzato rimane, pur con i suoi limiti, una delle migliori risorse per l’integrazione. In qualche misura ha una leadership istituzionale in virtù della sua specializzazione: si tratta di coniugare il potere istituzionale con il potere esperito, o esperto. Certo nel caso dell’insegnante di sostegno si tratta di una leadership del tutto particolare a cui si può ambire solo in virtù  di doti personali che possono essere anche acquisite, di competenze e del lavoro in trincea con gli altri colleghi e non fuori o al di sopra di essi. La leadership può essere definita come la risposta umana ai bisogni di un gruppo sociale, risposta che aiuta il gruppo a funzionare e a svilupparsi. Tali educatori che vogliono iniziare a modificare dall’interno la propria scuola per avvicinarla ad un modello integrato debbono metabolizzare una filosofia scolastica che si basa sulle seguenti premesse: tutti gli alunni possono imparare; tutti gli alunni hanno il diritto di essere educati insieme ai loro coetanei in classi eterogenee nella scuola del territorio; è compito del sistema scolastico soddisfare i bisogni educativi e psicologici di tutti gli alunni; è compito della scuola  creare il successo scolastico, per tutti e per ciascuno. Tuttavia non basta che il docente specializzato presenti chiaramente la sua proposta di scuola integrante: questa è condizione necessaria, ma non sufficiente. Egli dovrà trovare il modo di ottenere sulla sua proposta il consenso dei colleghi e delle famiglie. Strategicamente può partire dagli uni o dalle altre. Ci vorranno molti incontri, specie con i colleghi curriculari. In questi incontri l’insegnante di sostegno dovrà fare in modo che gli sia riconosciuto un ruolo del tutto simile a quello dello psicopedagogista, con la differenza che questa figura è impegnata non solo nella consulenza, ma anche nel lavoro sul campo. Il suo ruolo consisterà principalmente nel coordinare le risorse e nel farsi promotore di una comunità scolastica integrante, per questo dovrà conquistarsi un ruolo a partire dal team in cui lavora.Gli insegnanti interagiscono con gli alunni soprattutto sulla base delle proprie convinzioni e dei propri schemi mentali. Coloro che sono impegnati nell’inserimento hanno bisogno di acquisire una base concettuale comune. Nelle scuole in cui si realizza l’integrazione c’è un notevole spirito di corpo, il che significa entusiasmo, rispetto e orgoglio per il gruppo e per gli obiettivi che questo persegue. Già la legge 104/92 ne definisce nuovi ruoli e nuove funzioni: è contitolare del modulo non più una persona a parte; l’insegnante di sostegno, oltre a operare in team, dovrebbe sostenere e stimolare l’attività di altre persone il cui operato deve contribuire all’integrazione. Egli dovrebbe provvedere a organizzare e a promuovere tale unità operativa che punta a una scuola veramente integrata. La costruzione di una unità operativa farà si che sia il personale scolastico sia gli operatori esterni si facciano collegialmente carico della gestione dei programmi e dell’attività. Secondo l’esperienza di W. Stainback e S. Stainback, una volta che  genitori e operatori scolastici siano stati coinvolti direttamente e responsabilizzati, essi faranno del loro meglio per raggiungere gli obiettivi di una scuola veramente formativa. Nel caso di alunni con difficoltà di apprendimento o problematici, tale unitarietà dovrà in primo luogo essere intesa come univocità di segnali e di comunicazione e tradursi in coerenza educativa e metodologica. La mancanza di coerenza educativa è sicuramente uno dei fattori che causano disturbi emozionali, se non addirittura comportamenti devianti dei bambini. Seppur in misura diversa dal genitore, il ruolo dell’educatore rimane e deve rimanere tecnico, mantenendo la specificità della scuola come ambiente educativo di apprendimento. Se il gruppo degli insegnanti non è coeso si rischia di mandare dei messaggi sempre più incoerenti, con le conseguenze di cui si è detto. L’antidoto non può  essere una programmazione reale e non rituale, l’abitudine a stare e fare insieme, la capacità di porsi dal punto di vista dell’altro. In definitiva, tanto più gli alunni sono difficili tanto più la programmazione deve essere puntuale, precisa, ragionata, controllata, verificata. L’insegnante di sostegno può operare in compresenza: egli può intervenire in settori curriculari in cui abbia particolare esperienza (per esempio lavoro cognitivo sulle strategie di apprendimento e/o insegnamento di abilità funzionali di vita) o semplicemente assistere l’insegnante di classe nei settori in cui questo sia esperto. Tale approccio cooperativo permette, se correttamente utilizzato, un uso efficace delle singole abilità di cui dispone ogni singolo operatore scolastico. Tale docente può anche cercare e organizzare il lavoro di volontari disponibili ad aiutare e sostenere insegnanti e alunni. Egli può, ad esempio mettersi in contatto con gruppi giovanili locali e associazioni di volontariato o che operano in favore dei disabili per trovare persone in grado di aiutare gli educatori nello  svolgimento di compiti di ordinaria amministrazione o di tipo organizzativo. Aiutati in questi incarichi, gli insegnanti, compreso quelli specializzati, possono dedicare più tempo alla programmazione e agli aggiustamenti del curricolo di classe, allo studio delle strategie didattiche più adeguate e alla valutazione del processo educativo. Per concludere, non va dimenticato il sostegno che può essere offerto dalle tante persone che sono parte integrante dell’ambiente scolastico: alunni di altre classi, assistenti responsabili di attività extra scolastiche, bidelli ecc., sono potenziali risorse nel processo di integrazione. L’impiego del potenziale umano disponibile all’interno della scuola è molto importante anche considerando il fatto che il ricorso eccessivo a personale di sostegno esterno può interferire con i naturali processi relazionali che si instaurano tra alunni e docenti in un ambiente scolastico normale. 

Approfondimenti

§  Cooley C.H., Social Organization Free press, Glencoe, 1956.

 §  Forgheraiter F. e Donati P., Community care. Teoria e pratica del lavoro sociale di rete, Erickson, Trento, 1991.

 §  Forgheraiter F., Operatori sociali e lavoro di rete, Erickson, Trento, 1994.

§  Forgheraiter F., Interventi di rete nel servizio sociale territoriale, assessorato ai servizi sociali, Brescia, 1995.

 §  Folgheraiter F., La relazione di aiuto nel couseling e nel lavoro sociale, Erickson, Trento, 1996.

§  May R., L'arte del Couseling, Astrolabio, Roma, 1991.

 §  Piazza V. , L'insegnante di sostegno, Erickson, Trento 1996.

 §  Savater S., Etica per un figlio, Laterza, Bari, 1991.

 §  Stainback W., Stainback S., La gestione avanzata dell’integrazione scolastica, Erickson, Trento 1993.        

 

 

 

 

 

 

 

 









Postato il Venerdì, 13 novembre 2009 ore 19:57:24 CET di Letizia Colonna
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