Lo scorso anno scolastico è stata la volta delle Elementari e delle
Medie. Il governo delle “tre i” ha tagliato decine di migliaia di
cattedre e posti di ausiliari ed amministrativi, facendo quasi sparire
il bilinguismo e l’informatica dalla Secondaria di primo grado. Con la
medesima operazione il ministro unico Giulio Tremonti e la sua squadra
d’appoggio hanno mandato in tilt quella che l’Ocse considerava (per
qualità) la sesta scuola del pianeta, la Primaria italiana, ridotta a
non avere più copresenze (per il recupero dello svantaggio) fra i
docenti, «spalmati» anche su dieci classi (alla faccia del «maestro
prevalente») e con un tempo pieno residuale snaturato nella sua
tradizionale unitarietà didattica e in quantità non confacente alle
crescenti richieste delle famiglie. E dai tempi di Letizia Moratti il
programma di storia in quinta elementare si ferma alla fine dell’impero
romano, per rimanere due-tre anni sull’età delle caverne… Vagli poi a
parlare della giornata della memoria! Il tutto grazie anche a un
centro-sinistra che ha colpevolmente lasciato intonse le modifiche
retrive della prime cervellotiche avances berlusconiane
sull’organizzazione nazionale dell’educazione. Ma era solo l’inizio.
Da settembre la scuola vivrà gli effetti della «riforma» Gelmini anche
nell’istruzione secondaria superiore. L’impianto è costruito
sull’ennesimo, spaventoso minimalismo culturale: il monte ore verrà
ridotto ovunque, il liceo Scientifico prevalente sarà privo del latino,
gli istituti Tecnici subiranno la drastica riduzione del lavoro di
laboratorio, i Professionali s’avviano a diventare copie
(regionalizzate) dei centri di formazione sottoposti ai non certo
disinteressati diktat dell’impresa; l’ultimo anno d’obbligo potrà
essere svolto nell’apprendistato; per «riciclare» gli insegnanti in
esubero, le classi di concorso sono state riviste e molte materie
importanti verranno coperte da personale privo di titolo specifico.
Ma non saranno soltanto docenti, programmi e alunni a farne le spese: è
il momento del sacrificio dei 60 mila precari che hanno occupato sinora
quelle cattedre vacanti sulle quali non s’era proceduto a collocare
(come di dovere) personale stabile. Siamo arrivati alla soluzione
finale. Gli insegnanti «a tempo determinato» non solo dovranno dire
addio a ogni speranza d’assunzione: quest’anno solo pochissimi di loro
godranno persino del «canonico» incarico annuale. Infatti, come se non
bastasse, gli Uffici scolastici provinciali offriranno per lo più
cattedre a 24 ore, sia al personale di ruolo sia agli incaricati
annuali, infischiandosene del limite del contratto nazionale di lavoro
fissato a 18.
Per questi motivi il PUMA (Precari Unicobas Movimento Autogestito), a
partire dalle convocazioni di fine agosto, intraprende una campagna
nazionale di rifiuto delle cattedre superiori a 18 ore, coinvolgendo
sia i docenti di ruolo sia gli insegnanti precari.
In particolare, i precari costruiranno un fronte comune (che l’Unicobas
auspica s’allarghi a tutti i coordinamenti e le sigle sindacali che non
accettano la manovra). Accetteranno le cattedre più consone e, nel caso
in cui superino le 18 ore, rivendicheranno il diritto, sancito
dall’articolo 28 del contratto nazionale, a non svolgere un orario
maggiorato di insegnamento (retribuito peraltro con una mancia!).
Nessuno può obbligare i lavoratori della scuola, che siano precari o di
ruolo, a forme di straordinario obbligatorio, e l’opzione zero sulle
ore aggiuntive verrà garantita dall’opera di patrocinio degli uffici
legali del sindacato.
In questo modo gli Uffici scolastici provinciali saranno costretti a
chiedere al ministero dell’Istruzione un’integrazione di organico, si
libereranno altri posti per i colleghi rimasti senza lavoro e,
riaprendo dall’inizio dell’anno scolastico il fronte del dissenso, si
avranno maggiori garanzie per il futuro della scuola pubblica.
Stefano d’Errico (segretario nazionale dell’Unicobas Scuola)