Nelle
librerie sono ormai sempre più numerosi i volumi sui 150 anni
dell'Unità
d'Italia. A breve, altri due illustreranno il
contributo dato da don Giovanni Bosco, dai salesiani e dalle Figlie di
Maria
Ausiliatrice a "fare gli Italiani," dopo che l'Italia era stata fatta
in un modo certamente non condiviso dal santo di
Torino. Sul
suo apporto personale all'identità italiana non esiste, tuttavia,
dubbio
alcuno. Gli si riconosce di aver portato alla ribalta nazionale la
"questione giovanile" e lo si colloca nella collana "L'identità
italiana" volta a presentare "la nostra storia: gli uomini, le donne,
i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo".
Che
la nostra identità abbia radici nel passato e che, prima ancora del
carattere
politico assunto con il Regno d'Italia nel 1861, da secoli
abbia un suo carattere nazionale linguistico, religioso,
letterario, artistico è indubitabile.
Può
essere allora interessante e anche inedito vedere l'apporto
di don Bosco a tale italianità già nel quindicennio precedente
l'Italia unita. Del resto nel 1846 indicava alla massima autorità di
Torino che
egli intendeva insegnare ai suoi ragazzi quattro "valori": l'amore al
lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto a ogni
superiorità e la
fuga dai cattivi compagni. Li avrebbe successivamente
sintetizzati nella celebre espressione "onesto cittadino e buon
cristiano".
Nel
1845
pubblica dunque un volume di 400 paginette: la Storia
ecclesiastica ad uso delle scuole,
utile ad
ogni
ceto di persone.
In
evidenza sono subito due dimensioni: quella religiosa e quella di
taglio
giovanile e popolare. Gli
ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte,
gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro
disposizione
grossi volumi; non così sempre i ragazzi delle scuole inferiori, dei
collegi,
dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che
frequentavano le
scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione
semianalfabeta dell'epoca.
Quella
di don Bosco non ha nulla a che vedere con le storie dotte e con quelle
pure
similari di Antoine-Henri de Bérault-Bercastel, di Réné F. Rohrbacher,
di
Johann J. I. von Döllinger. L'obiettivo
che si propone è
educativo, apologetico, catechistico: formare religiosamente i lettori,
soprattutto i giovani studenti, con una bella storia, dando spazio ai
"fatti
più luminosi che direttamente alla Chiesa riguardano",
soprattutto ai papi e ai santi, tralasciando o appena accennando i
"fatti
del tutto profani e civili aridi o meno interessanti, oppure posti in
questione".
L'Educatore.
Giornale di educazione e di istruzione
primaria lo
recensiva positivamente, sottolineandone
il principio
educativo sotteso ("illuminare la mente per rendere buono il cuore")
e apprezzandone il periodare "schietto e facile",
"la lingua abbastanza pura"e "la sparsa unzione, che dolcemente
ti commuove e alletta al bene", Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe
fino
al 1913.
Non
passano due anni che don Bosco dà alle stampe un'opera analoga, ossia La storia
sacra per uso delle scuole, utile
ad ogni
stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come
sempre, onde
"giovare alla gioventù", l'autore si prone la "facilità della
dicitura e popolarità dello stile", anche se con ciò non può garantire
"un lavoro elegante".
I
modelli ancora una volta sono libriccini esistenti sul mercato. Il
volume è ben
accolto dalla critica. Sul citato periodico di pedagogia torinese un
maestro
scrive che apprezza tanto l'opera al punto da adottarla e da
consigliarla ai
suoi colleghi: "I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la
leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di
parlarne,
chiaro segno che la capiscono". Tale
comprensione è dovuta, a
giudizio del maestro, alla "forma di dialogo" e alla dicitura
"popolare, ma pura ed italiana".
Potrebbe
essere stato questo apprezzamento uno dei motivi per cui don Bosco, sul
finire
del 1849, avanza
richiesta alle autorità scolastiche
del regno di adottare come testo scolastico un suo Corso di
Storia Sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento che intende
"pubblicare, adorno anche di stampe, in modo acconcio per
l'ammaestramento
delle scuole elementari".
La
domanda in un primo momento parve poter venire accolta favorevolmente,
stante
"l'assoluta mancanza di un libro migliore". Nel
corso della seduta del consiglio superiore della Pubblica istruzione
del 16 dicembre 1849 si esprimono sì delle riserve "dal lato dello
stile e
della esposizione", ma esse vengono compensate dalle
"opportunissime considerazioni morali" e dalla "necessaria
chiarezza" che fa "emergere assai bene dai fatti i dogmi fondamentali
della religione".
L'intervento
critico e autorevole del relatore don Giuseppe Ghiringhello fa però
mutare
opinione allo stesso consiglio per i "molti errori grammaticali e
ortografici", che rendono "meno utile quel lavoro per altro verso
assai commendevole".
Evidentemente le esigenze del teologo
Ghiringhello docente di Sacra Scrittura nella facoltà teologica della
città non
erano quelle dei maestri di scuole elementari (e di don Bosco),
quotidianamente
alle prese con fanciulli appena alfabetizzati, che normalmente si
esprimevano
in dialetto. La "fortuna" dell'opera è comunque notevole se alla
morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e
tante
altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino
al 1964.
Alla
trilogia mancava ancora una storia, quella d'Italia che peraltro era
richiesta
dall'aria che si respirava. Ed ecco
don Bosco darla alle stampe
nel 1855: La storia d'Italia
raccontata alla gioventù da' suoi
primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta
geografica
d'Italia. Questa
volta la narrazione, che attinge come sempre ai compendi e manualetti
dell'epoca, è più limpida del passato, dal momento che l'autore è ormai
allenato da un decennio a scrivere.
Sono
però sempre pagine di uno scrittore che si adegua all'intelligenza dei
suoi
lettori, di un sacerdote che vuole presentare fatti fecondi di
ammaestramenti
spirituali, di un educatore di giovani "poveri ed abbandonati" che
non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi. Non se
ne rese
conto Benedetto
Croce 60 anni dopo quando - nonostante il
rispettabile successo di ben 31 edizioni fino al 1907 - per la presenza
di
certe pagine lo definisce un "povero libro reazionario e clericale",
mentre il coevo ministro cavouriano Giovanni Lanza lo encomia.
Niccolò Tommaseo ne tesse gli elogi, pur notando che "non tutti i
giudizi
di lui sopra i fatti a me paiono indubitabili né i fatti tutti
esattamente
narrati", ma senza tacere che "non pochi de' moderni (...) nella
storia (...) propongono a se un assunto da dover dimostrare e quello
perseguono
dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli
affetti".
Alla
triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico
decimale ridotto a semplicità,
preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica, ad uso degli
artigiani e della gente di campagna, rieditato nel
dicembre 1849 alla
vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte
(1° gennaio 1850). L'intento è sempre quello di
insegnare in
prospettiva educativa e moralistico, ma ciò che più interessa è il
fatto che
esso è pure rappresentato
come commedia brillante in tre
atti. Se ne conservano i dialoghi, ma non la sceneggiatura, anche se
sappiamo
che "variava sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una
bottega,
ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna o la casa di un
fattore.
Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e
le nuove
misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo (...) Talora
il palco
aveva l'aspetto di scuola co' suoi cartelloni, il pallottoliere e la
lavagna
(...) Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da
contadino,
chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri
in altre
fogge. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero
per la
polvere e il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di
queste scene
e ancor più i giovanetti".
Fu
un successo, stante anche il clima di comprensibile ansietà di
un'opinione pubblica
scarsamente istruita che dava al lavoro una cornice di straordinaria
attualità
e attesa. Nel
lasciare la sala dello spettacolo il
celebre abate Ferrante Aporti avrebbe commentato: "Bosco non poteva
immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema
metrico
decimale; qui lo si impara ridendo". "Ragazzi di
strada", pressoché analfabeti, che diventano attori e docenti di una
materia nuova e ostica, mezzi scenografici estremamente semplici che
costituiscono il supporto per conferire all'apprendimento scolastico
solidità e
concretezza e allo spettacolo la naturale drammatizzazione: ce ne è a
sufficienza per definire il "teatrino di don Bosco" come una scuola
viva, coinvolgente, antesignana di una futura didattica partecipata e
di nuovi
mezzi espressivi.
Dunque
ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché
il
domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro
formazione
investe sulla storia d'Italia, perché la casa comune italiana ha radici
ben più
antiche dello Stato unitario; investe
sulla fede cattolica perché è
convinto che essa sia l'anima profonda del Paese; investe sull'italiano
semplice, popolare, perché non c'è cultura nazionale senza lingua che
tutti
possano capire; investe sull'arte, anche se poverissima di mezzi, messa
a
servizio dell'educazione e del gusto estetico dei giovani di cui
nessuno o
quasi si interessa.
Di Francesco
Motto (L'Osservatore Romano)