Il mio Wojtyla
segreto. Intervista
a Joaquin Navarro-Valls
di Vittorio Zucconi - “la
Repubblica” del 24 aprile 2011
«Sono seduto accanto
a Gianni
Agnelli, nella sede della Stampa estera. La segretaria mi porta un
bigliettino scritto a mano: il
Papa la vorrebbe vedere a pranzo. È uno scherzo. E quando sarebbe?
Subito, tra un'ora». Fu un'ora
che sarebbe durata ventidue anni per Joaquin Navarro-Valls, il
giornalista e medico
psichiatra spagnolo che sarebbe stato fino alla sera dell'addio alla
vita di
Giovanni Paolo II, il Beato
Wojtyla dal primo maggio prossimo, il decoder quotidiano fra l'eterno e
il quotidiano, fra la santità
e il giornalismo. Nessun altro, salvo monsignor Dziwisz, oggi cardinale,
e le suore di pietra che vidi
pregare accanto alla salma esposta nella Sala Clementina, avrebbe
trascorso tanto tempo, diviso
tanti silenzi, tanti segreti e tante parole con Karol Josef Wojtyla,
quanto Navarro-Valls. Una vita
con il Papa, in perenne equilibrio tra la comunicazione pubblica e le
stanze segrete, tra il sublime
del messaggio e il purgatorio dei mass media. Era il 1984.
«Davanti a me c'è il capo
della Chiesa Cattolica, il successore di Pietro, di cui avevo letto
alcuni testi ma che conoscevo
soltanto da lontano, come giornalista. Mi chiede se avessi qualche idea
per
migliorare la comunicazione
della Santa Sede». In che lingua parlavate? «In
italiano. La vostra, anzi,
la nostra lingua come aveva detto la sera della elezione, parlando dalla
Loggia». Lei che idee gli propose?
«Gli dissi che non sapevo che
cosa dire, così, su due piedi. E lui, ridendo: e lei me lo dica lo
stesso. Lui taceva, mi studiava con il
capo un po' piegato, quei suoi occhi taglienti, ironici, allegri, lo
sguardo che mantenne anche
quando gli occhi furono imprigionati nella maschera della sofferenza».
Per due decenni, fino a quando
l'infermiera suor Tobiana Sobodka riferì di avere sentito il Papa
mormorarle all'orecchio in
polacco «...pozwólcie mi odejsc do domu Ojca…», «lasciatemi tornare
alla casa del Padre», nella
sera del 2 aprile 2005, Navarro-Valls avrebbe guardato ogni giorno in
quegli occhi, cercando di
capire quello che lui stesso non poteva capire, il mistero di un
Pontefice destinato al cielo delle
beatitudini cristiane. «Me lo domandavo, agli inizi,
anche io chi fosse, che cosa fosse il mistero di Wojtyla. Ha cambiato
la storia della politica e
della diplomazia, senza essere né un politico né un diplomatico. Ha
rivoltato le premesse della filosofia
dominante senza esercitare più la professione del filosofo, ha
affascinato il mondo dei media prendendo
posizioni impopolari. Voleva appassionatamente attirare l'attenzione
sul messaggio, ma il mondo
sembrava ossessionato dal messaggero. Credevano di amare il cantante,
e non si rendevano conto, o
non volevano ammetterlo, che in realtà erano attratti dalla musica».
Una musica che all'orecchio
del tempo sembrava stonata.
«Perché suonava alla rovescia
rispetto agli spartiti dominanti dell'epoca: il pessimismo e la cupezza
della nostra esistenza e della
nostra condizione umana dietro il benessere materiale del nostro
piccolo spicchio di mondo,
Europa e Americhe. Il messaggio di Giovanni Paolo II è radicale, rivolta
quegli spartiti. Diceva: voi
uomini siete molto meglio di quanto la cultura moderna vi faccia
credere, siete molto meglio di
quanto voi stessi crediate di essere. Dunque non abbiate paura di
essere ciò che siete, creature
divine». Invadeva i teleschermi, li
"bucava", occupava la televisione ormai divenuta satellitare,
dunque globale. Lei non
temeva, come curatore della sua immagine, di rischiare l'overdose?
«No, perché sapeva che il
segreto per dominare la televisione e non lasciarsene dominare è
semplicemente ignorarla, come
scrisse il critico televisivo del New York Times quando andammo in
America nel
1987. C'era il suo messaggio, c'erano le sue parole, e c'era la fusione
tra la
forza del
suo messaggio e il vissuto
esistenziale che si manifestava quando lo comunicava alla gente. Chi lo
ascoltava sapeva che quanto
diceva era vero. Il suo linguaggio e i suoi gesti esprimevano la
verità».
Si preparava a questi eventi?
Studiava le pose, gli angoli di ripresa, le luci, la scenografia e la
sceneggiatura? «Mai, neppure una volta. Per
lui le telecamere, il trucco, le luci non esistevano. Questi
atteggiamenti da personaggetti
che si fanno spiegare come e dove devono guardare, se fissare
l'obbiettivo o guardare fuori,
se sorridere o sembrare seri, non lo sfioravano mai. I primi tempi mi
preoccupavo, sapendo quanto la
telecamera possa essere crudele. Ma per lui comunicare era far
apparire la verità, non
costruire un'apparenza». La Curia diffidava? «La
Curia, come ogni
organizzazione istituzionalizzata, può tendere alle volte a guardare
verso il proprio interno. Lui la faceva
guardare verso l'esterno». Recalcitravano, le porpore?
«La Curia era non soltanto
utile ma necessaria. E lui, come Papa, marcava la strada».
Una lunghissima strada.
Duecento viaggi dentro l'Italia, poi in centosessanta nazioni fuori
dall'Italia. «Una volta mi disse una cosa
che sembrava elementare: "Sa, nel passato era la gente ad andare in
parrocchia. Oggi è il parroco
che deve andare dalla gente". Questa, così apparentemente semplice,
era una un'illuminazione
straordinaria che lui portava con sé da una lunga esperienza nel proprio
Paese». Lei che è un credente, un uomo
dell'Opus Dei, si rendeva conto di vivere accanto a un santo?
«Lo andavo comprendendo
standogli accanto giorno dopo giorno, non avevo dubbi. La fede non
l'ho avuta da lui ma accanto a
lui il contenuto della fede si "vedeva", e lo metta tra virgolette
perché questo andrebbe spiegato.
Quello che cercavo di imparare era come la santità si sarebbe fatta
carne in lui, in noi cristiani.
Questo lo avrei scoperto soltanto nella convivenza quotidiana».
Per esempio? «La preghiera. Per un
credente, la preghiera spesso è un obbligo. Oppure il risultato di una
convinzione fondata. Per lui
era una necessità, un bisogno, come per noi respirare».
Aveva un preghiera preferita? «Nutriva la sua preghiera con
i bisogni degli altri. Gli arrivavano migliaia di messaggi di tutto il
mondo, in tutte le lingue: una
malattia, un problema famigliare, l'angoscia di un futuro senza
futuro… L'ho visto in
ginocchio per ore nella sua cappella con questi messaggi in mano: tutte
le sofferenze umane come tema
della sua conversazione con Dio. Penso che per se stesso non
rimanesse alcuno spazio nella
sua preghiera. Penso che lui non avesse delle "cose sue". Solo cose
degli altri». E c'era una costante nel
parlare con Dio? «Lui, che pure aveva riportato
l'ottimismo nel mondo incupito e pessimista, custodiva un suo
segreto. Era convinto che
quello di cui veramente l'essere umano avesse più bisogno era la
misericordia di Dio. Per
questo la cerimonia di beatificazione avverrà il primo maggio, il giorno
della Misericordia.
Sembrerebbe un paradosso. Tanto fiducioso, tanto ottimista, lui che
apriva orizzonti sterminati alla
persona umana, eppure con il senso della limitatezza della creatura
umana. L'ultima messa, celebrata
nella stanza in cui morì, era già la messa della domenica, la messa
della Divina Misericordia». Come psichiatra, lei,
dottor
Navarro, è mai caduto nella tentazione di guardare Karol Wojtyla
come a un paziente? «Non c'era materia per
considerarlo un paziente. E non c'era tentazione, semmai deformazione
professionale, come il sarto
che vede un abito o il calzolaio che guarda le scarpe e le valuta, per
abitudine. Mi impressionava il
magnifico equilibrio interiore tra tutte le sue virtù. Virtù che, quando
coabitano in una sola persona,
possono anche impazzire. In lui, questa pazzia delle virtù non c'era.
Convivevano senza difficoltà.
Per esempio: non sapeva perdere un minuto eppure non aveva mai
fretta». Neppure alla vigilia degli
incontri più delicati? «Nemmeno in queste occasioni.
Semplicemente, metteva tutto se stesso nella preparazione di questi
viaggi. Sapeva mortificarsi
senza spettacolarità: rispetto al cibo, per esempio. Il rapporto con il
cibo e con le bevande era di
indifferenza, ne era quasi infastidito. Andavamo in paesi tropicali,
caldissimi, umidi, come
l'Indonesia. Era ovvia la disidratazione per il caldo. Il suo medico, io
stesso, eravamo preoccupati
per la perdita di liquidi. Lui, con straordinaria e discreta eleganza,
ritardava di bere». Dormiva bene, quando non
soffriva? «Voleva sempre che si
viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino
sul
posto e avere così davanti a sé
tutta una giornata di lavoro. Nel suo ultimo viaggio in Messico, e aveva
ottant'anni, l'Alitalia gli
aveva preparato un lettino dietro una tenda. Noi del seguito - laici,
cardinali, monsignori -
cercavamo di dormire almeno un po', raggomitolandoci nei sedili. Quando
atterriamo, l'incaricato della
compagnia mi avvicina e mi dice: noi avevamo preparato il lettino per
il Papa, ma abbiamo visto che
è intatto. Era troppo stretto, era scomodo? Non si preoccupi, lo
rassicurai, è stato sveglio
tutto il viaggio per prepararsi. Tredici ore di viaggio leggendo,
studiando, pregando». Mangiava anche poco?
«Non gli importava molto di
ciò che aveva davanti. In certi periodi dell'anno faceva soltanto un
pasto completo al giorno. E
fino all'ultimo, il giorno prima di ordinare nuovi vescovi o sacerdoti,
digiunava». Potrebbe essere una
definizione laica della santità il riuscire a vivere nell'equilibrio
delle proprie virtù. Era questa
serenità la radice, la causa del suo essere un uomo allegro, ironico?
«Era un uomo allegro, è
verissimo. L'ironia era il suo tratto caratteriale più evidente. Ma la
sua gioiosità non era quella
banale delle persone che non sanno fare a meno della risata da
barzelletta. Le fondamenta del suo
carattere, che io definisco allegro, stanno tutte in due righe».
Di diari? Di confessioni? «No, della Genesi. Dove si
dice che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza. È chiaro che
se ci credi, ma se ci credi
davvero davvero, allora, qualunque cosa accada, anche la tragedia più
spaventosa, anche Fukushima,
non cambia il fatto che il mio fine ultimo di creatura è il lieto fine,
l'happy end. Non ce ne possono
essere altri. Dio non può tradire le creature fatte a propria immagine
e somiglianza. Se hai questa
certezza, anche la sofferenza ha un senso». Lo sentiva
scherzare? «Molto. Amava scherzare,
stuzzicare e prendere affettuosamente in giro anche i suoi
collaboratori, i parroci e i preti diocesani
delle parrocchie romane che andava a visitare. Incontrandoli la sera
prima, voleva sapere quanti
vecchi, quanti bambini, quante donne incinte, quanti malati gravi
fossero sotto le loro cure,
per poi trovarsi preparato a tutto. Ma come, Santità, gli disse un
cardinale quando già stava poco bene,
vuole andare a visitare un'altra parrocchia romana? Guardi eminenza
che forse lei dimentica che io
sono il vescovo di Roma». Cercava sempre il contatto con
la gente? «C'era una grande fisicità in
lui, baciava le donne in fronte e coccolava i loro bambini, prendeva
sottobraccio i vecchi,
afferrava le mani di chi gliele tendeva. "Ma sei proprio tu quello che
ho
visto in televisione?", gli
domandò un bambino colombiano sfuggito alla sorveglianza e corso sul
palco del Papa. Prima che lo
riacciuffassero, lui lo abbracciò e tolse al bambino quel dubbio - che
a quella età doveva essere importante». Un Papa
prete, come sarebbe
stato anche Luciani, da cui prese il nome, Giovanni Paolo. Aveva
anche lui dubbi sulla morte
improvvisa del suo predecessore, nel sonno, appena trenta giorni
dopo l'elezione? «No. Per lui, i sospetti erano
letteratura, fiction, non lo interessavano. Mi raccontò invece di come
ebbe la notizia della morte di
Papa Luciani. Lo seppe dal suo autista, mentre quella mattina andava
in visita pastorale a una
parrocchia di Cracovia. Lui che era stato nel Conclave pochi giorni
prima dovette sapere dall'autista
che era morto il Pontefice che aveva eletto». Come reagì?
«Sentì un'immensa tristezza
invaderlo, poi lo assalì un'inquietudine enorme che lo scuoteva e che
non riusciva a spiegarsi». Forse un presentimento.
«Forse. Ma lui non ripartì per
Roma, per il secondo Conclave in poche settimane, pensando di
doverci restare come Papa. Non
parlava mai di quei due Conclavi. Non disse mai se avesse ricevuto
qualche voto anche nel
Conclave che elesse Luciani». Anche i santi si arrabbiano?
«Raramente, ma sì, se la
ragione è giusta. Le uniche volte in cui l'ho visto arrabbiato, se
arrabbiato è la parola corretta, erano
sempre situazioni di violenza fisica o morale rivolta contro la gente,
come la guerra nel Libano, o nei
Balcani. Si tormentava, e tormentava noi chiedendoci che altro può fare
il Papa per impedire una
guerra. O come sarebbe poi stata l'invasione dell'Iraq, alla quale era
molto contrario». Lo disse pubblicamente.
«E anche privatamente. Quando
incontrò George W. Bush, gli disse chiaramente: mister President,
lei sa quale opinione ho della
guerra in Iraq. Discutiamo di altro. Ogni violenza, contro uno o un
milione, era una bestemmia
diretta all'immagine e alla somiglianza di Dio. Non accettava che
l'essere umano cercasse di
risolvere le differenze con gli altri attraverso la violenza, come gli
animali».
Molti grandi santi, antichi e
moderni, hanno confessato di avere vacillato, di essere stati
aggrediti da dubbi. Lo so che
sembra una bestemmia, detta per un Papa e oggi un beato, ma
Karol Wojtyla credeva davvero
davvero, come dice lei, in Dio? «Penso che possa rispondere
qualsiasi persona che lo abbia visto e seguito. La sua fede la si
vedeva. Alla fine ormai della sua
vita, nel 2005, quando dovettero praticargli una tracheotomia
all'ospedale Gemelli per permettergli di
respirare e quindi non poteva parlare, in sala post-operatoria fece un
gesto. Sembrava voler dire
qualcosa che non poteva dire. La suora capì. Gli portò un cartoncino con
un pennarello. Lui ci scrisse
sopra con decisione, a grandi lettere irregolari: TOTUS TUUS. Era
mettere per iscritto la sua
accettazione di quello che Dio voleva per lui anche in quel momento».
Era rassegnato. «No, era convinto della
propria totale appartenenza a Dio, attraverso l'intercessione di Maria.
Ho detto convinto, perché questa
era stata la motivazione profonda di tutta la sua vita di Papa. Non
voleva vincere, voleva
convincere, come lui stesso era stato convinto dallo Spirito quando era
un giovanotto che giocava a
calcio come portiere e remava sul suo adorato kayak in Polonia».
Ma il duello contro l'Urss, i
regimi, le burocrazie comuniste lo aveva pur vinto. «Vincere
non era una parola
che appartenesse alla sua filosofia, al suo orizzonte interiore».
Eppure fu costretto a una
sfida che al mondo apparve un duello senza quartiere attorno alle
sorti della sua Polonia, nel
1980. Il tempo di Solidarnosc e di Lech Walesa... «In quei
anni di tensione
Ronald Reagan gli scriveva molto, gli mandava a Roma l'ambasciatore
Vernon Walters, ex generale,
uno dei pochi ambasciatori americani che parlassero le lingue, poi il
consigliere per la sicurezza
nazionale Bob McFarlane. Reagan parlava allora della Russia come
"l'impero del male":
un'espressione che il Papa non avrebbe mai usato sapendo che il
cristianesimo esisteva in Russia da mille
anni prima. Era inevitabile vedere in loro due strade diverse. Il fine
che muoveva Giovanni Paolo II non
era l'America o l'anticomunismo, e neanche in fondo una qualsiasi
forma di società neo
capitalistica e libertaria idealizzata, bensì la dignità assoluta e
trascendente della persona umana che è
capace di scegliere il proprio destino. La sua originalità era la
potenza dei valori antropologici universali
e la fede incrollabile nella persona umana in quanto tale».
Forse perché il Papa non ha
divisioni corazzate, come diceva Stalin. «Aveva una forza
diversa e il
Cremlino se ne accorse presto. Non è molto noto ma, in quel 1980, i
satelliti spia e gli Awacs
fotografavano i movimenti delle truppe della Germania comunista che si
dispiegavano sul confine
occidentale della Polonia, da dove sarebbe partita l'invasione che tutti
temevamo. Io ero a Varsavia in
quei giorni e andavo a dormire convinto che mi sarei svegliato con i
carri sovietici in strada. Era
dicembre e Giovanni Paolo II scrisse una lettera personale e privata a
Leonid Breznev».
Come Leone Magno con Attila?
Per ordinargli in nome di Dio di non toccare la Polonia?
«No, sarebbe forse stato un errore,
avrebbe fatto infuriare il Cremlino e offeso l'orgoglio dei
sovietici. Gli scrisse, con
grande chiarezza e con la conoscenza diretta che aveva di quei regimi e
della loro mentalità, solo per
ricordargli che appena cinque anni prima, nel 1975, lui stesso,
Breznev, aveva firmato a
Helsinki un trattato solenne in cui l'Urss si impegnava a non
interferire negli affari interni di ogni
altra nazione europea. Dunque, se avesse invaso la Polonia avrebbe
violato la sua stessa parola,
la parola dell'Unione Sovietica». E Breznev rispose?
«Sì, ma non con una lettera,
né per via diplomatica. La sua vera risposta fu la rinuncia all'azione
di forza. Eppure Breznev sapeva,
come sapevamo tutti, che lasciare la Polonia al proprio destino
sarebbe stata la fine per la
stessa Unione Sovietica e che il sogno del Papa, che era un'Europa
dall'Atlantico agli Urali, ma
senza il dominio di una potenza, si sarebbe inesorabilmente
avvicinato». La lettera segreta di Giovanni
Paolo II fece quello che le potenze militari e la Guerra fredda
non avevano saputo fare. «Quando andammo a Praga nel
1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, il presidente
Vaclav Havel ricevette il Papa
all'aeroporto e, da buon letterato, gli disse: "Io non so se so che cosa
è un miracolo. Ma oggi mi sembra
di vedere un miracolo"». Un miracolo politico,
diplomatico, strategico. Il profeta disarmato che distrugge la massima
potenza militare del mondo. «Questo era chiaro, ma non si
deve pensare a lui come a un leader politico in abito religioso, deciso
a cambiare regimi e confini.
Non salì sulla cattedra di Pietro per liberare l'Europa dell'Est dal
comunismo, ma per diffondere
il messaggio dell'assoluta centralità della persona umana, della
creatura, che esiste come tale
perché ha un creatore, e in quella verità deve ritrovarsi. Questa era
l'essenza postmoderna,
post-ideologica, post-esistenzialista, dunque implicitamente
post-marxista e
leninista, l'essenza cristiana
della sua predicazione». Ci fu però un'altra risposta,
un anno dopo la resa sovietica di fronte alla Polonia. In Piazza
San Pietro. Il giorno 13
maggio del 1981. Ali Agca. «La sofferenza era già entrata
nella sua vita da anni ma probabilmente quello fu il suo primo
incontro, brutale,
inaspettato, con il dolore fisico: uomo robusto e sano, non lo aveva
davvero
mai affrontato. La prima di una
serie tremenda di prove». La corsa all'ospedale Gemelli,
destinato a diventare il "Vaticano 2". Il complicato lavoro dei
chirurghi sull'intestino,
perforato da due dei quattro proiettili sparati dall'aggressore, con
colostomia temporanea. «Era ancora cosciente,
sull'ambulanza. Perse i sensi arrivando in ospedale, per la perdita di
sangue e il crollo della pressione
sanguigna. Ma riuscì in un momento di lucidità a dire ai medici di
lasciargli al collo lo scapolare, il
rettangolo di stoffa dei carmelitani dedicato alla Vergine. Fu operato
con lo scapolare addosso, quella
volta e in tutti gli interventi successivi che dovette subire». Ebbe la
certezza dell'intervento
provvidenziale, «materno» come lo definì, della Madonna per deviare
le pallottole e non colpire
organi vitali. Ci fu chi lo accusò di un peccato di superbia, per
averlo
pensato. «È esattamente il contrario.
Per una persona che ha il senso della totale dedizione alla Madonna, è
semmai un riconoscere di aver
ricevuto un dono e di avere un debito». Ma qualche dubbio
doveva
averlo. «Non sull'attentato ma sul
possibile collegamento dell'attentato con il terzo segreto di Fatima.
Per questo prima di far pubblicare
quel testo anni dopo, mandò il cardinale Tarcisio Bertone, allora
segretario della Dottrina
della fede sotto il cardinale Ratzinger, in missione da suor Lucia,
l'ultima superstite dei tre bambini che
videro la Madonna. Voleva essere certo, sapere se l'ultimo segreto
fosse davvero la profezia
dell'attentato al Papa. Bertone chiese a suor Lucia se questa interpretazione fosse coerente con quello che
la Madonna le aveva rivelato. Suor Lucia rispose di sì; che
era coerente con quanto
lei aveva scritto con l'ingenuità di una bambina di allora dieci anni
che lo aveva visto attraverso
questa immagine. Fece inviare a Fatima il bossolo di un proiettile
sparato da Agca che ora è incastonato
all'interno della corona della Vergine nel santuario».
Credette dunque alla «mano
materna che aveva deviato un'altra mano». Ma chi aveva mosso
invece la mano assassina di
Agca? I servizi segreti bulgari appaltati da Mosca utilizzando una
marionetta turca? Il Papa lo
pensava? «Rispondo con quello che disse
lui stesso andando per la prima volta in visita in Bulgaria dopo la
fine del regime: non considero
il carissimo popolo bulgaro responsabile collettivamente».
Era un uomo solo, come si dice
tanto spesso dei potenti e dei veri grandi? «No, non lo era
né di fatto né
per carattere. Raramente era da solo o con il suo segretario, durante i
pasti. Riceveva vecchi amici,
collaboratori, intellettuali… Erano occasioni stupende per
conversazioni informali. C'era
nella sua vita sempre ampio spazio per l'interazione. Giovanni Paolo
II non era mai solo, perché
non voleva esserlo. Però questa facilità nei contatti umani non lo
privava della solitudine riflessiva,
il pensare da solo». Nessun amico, nessun
cardinale, neppure l'amatissimo cardinale Ratzinger, nessun addetto
stampa possono però mai essere
tua madre, tuo fratello. «Ricordo che quando una volta
gli domandai chi lo avesse accompagnato il giorno in cui fu
ordinato sacerdote, lui mi
rispose: "A quell'età avevo già perso tutte le persone che avrei potuto
amare". Sul tavolino
accanto al suo letto di morte c'era la piccola foto del padre e della
madre che gli era stata regalata in uno
dei viaggi all'estero». L'incontro con la sofferenza
morale era avvenuto molto presto, da ragazzo. La salita sul
monte della sofferenza fisica
sarebbe cominciata quel giorno in piazza San Pietro e non si
sarebbe più fermata fino al
morbo di Parkinson, l'umiliazione finale del suo messaggio, il male
che colpisce la gestualità,
l'espressività. Perché attendeste tanti anni, dodici, per ammettere
che ne era stato colpito? «Perché non ce n'era bisogno.
Il Parkinson, con quel tremore incontrollabile alle mani e la rigidità
dei muscoli facciali, è una
malattia che qualunque studente di medicina del primo anno, qualunque
persona che ne sia stata
colpita o che abbia un parente che ne sia stato colpito, può
diagnosticare guardando un minuto la persona
che ne soffre. Lei pensa che è necessario presentare una persona
incinta di sei mesi dicendo
che è incinta? Lo si vede; è evidente. Anche nella patologia, Wojtyla
non poteva
e non voleva nascondere nulla».
Vedeste insieme, e a volte lei
da solo, i cosiddetti grandi del mondo. Lei andò in missione a Mosca,
poi a
Pechino per coronare il sogno di un viaggio in Russia e in Cina...
«Che non si fecero....». ...e a Cuba dove invece
riusciste. «Parlai a lungo, dalle otto di
sera alle due del mattino, con Fidel Castro, e così si sistemarono
alcune precondizioni al viaggio del
Papa. Nei colloqui privati non gli parlai mai della sua educazione
presso i Gesuiti, fu lui a
ricordarla a me». Si rendeva conto, il Papa, che
avrebbe celebrato messe in chiese in cui si mescolavano
tranquillamente il
cristianesimo con la santeria, le Madonne con i Serpenti di Mare?
«Lo sapeva benissimo. E questa
conoscenza era una ragione in più per quel viaggio. La gente aveva
bisogno delle sue parole, del
suo insegnamento che non trovavano da nessuna parte per la scarsità
del clero, l'isolamento cubano
e le difficoltà di formarsi». Le diceva tutto, sui suoi
colloqui privati con capi di stato o di governo? «Raccontava
i termini dei
colloqui e lasciava decidere che cosa era necessario dire all'opinione
pubblica. Naturalmente faceva
con tutti loro riflessioni profonde di carattere etico. Un giorno
ricevette un capo di stato
autocrate e violento. Uscendo, dopo il colloquio, commentò quasi tra sé:
"Sembra quasi un agnellino"». Come vedeva gli Stati Uniti, i
suoi presidenti? «Ammirava moltissime cose
dell'America, l'apertura, la mobilità sociale, il senso religioso che
pervade la vita e non solo la
Costituzione. Ha conosciuto e incontrato cinque presidenti americani.
Si comportava allo stesso modo
con tutti, con Carter, con Reagan, con Bush padre, con Clinton, con
Bush figlio. Di Bush giovane
apprezzava, per esempio, la legge che ritirava i finanziamenti pubblici
alla ricerca sulle staminali
embrionali, non le guerre». Dunque non poteva apprezzare
molto Clinton, che era dichiaratamente pro aborto. «Il
presidente Clinton aveva
una certa simpatia naturale. E Clinton, che ammirava Wojtyla, ha
scritto: "Non vorrei mai
fare una campagna elettorale contro di lui"».
E con Reagan? «Si sono incontrati diverse
volte. Parlavano in profondità ma avevano due missioni diverse anche se
alla fine storicamente hanno
coinciso. Erano come due linee parallele: la diplomazia della forza e la
forza delle virtù». Come guardava all'Italia, alla
vita politica italiana? «Con enorme tenerezza. In
Italia facemmo più di duecento viaggi, visite, pellegrinaggi, e quella
sua scelta celebre di rivolgersi
alla folla in Piazza San Pietro usando l'italiano...». ...
se sbaglio mi coriggerete? «...Appunto. Fu la
testimonianza di quell'affetto, del riconoscimento all'Italia che aveva
donato mezzo millennio di papi.
Seguiva la politica italiana ma non le scaramucce quotidiane. L'ho
detto, non era un politico. Quando
andò in Parlamento si rivolse alla nazione italiana, non a questo o quel
gruppo; parlò di valori, non
di destra o sinistra. Guardava spesso i titoli dei telegiornali alla
sera e poi basta. Ma il capitolo di
una sua amicizia italiana è tutto da ricordare». Sandro
Pertini. «Sì, il presidente Pertini.
Nel giorno dell'attentato, Pertini si fece portare all'ospedale Gemelli
e restò in attesa dell'esito
dell'intervento, come un parente prossimo, tempestando di domande medici
e infermieri, lui che non era
credente. Restò fino alle rassicurazioni dell'équipe dei chirurghi.
Soltanto dopo cinque ore tornò
al Quirinale». Wojtyla ricambiò questo gesto? «Ci
provò. Quando seppe che
l'ex presidente stava morendo, nel 1990, il Papa andò discretamente
nell'ospedale dove era
ricoverato. Chiese di vederlo, di parlargli per un'ultima volta perché
lui sapeva che Pertini lo avrebbe
voluto salutare». Forse sperava in una
conversione sul letto di morte. «Questo non lo so. Non
conosco
i pensieri del Papa né quelli di Pertini. Forse voleva soltanto
confortare un moribondo, da
uomo a uomo. Se avesse voluto anche il conforto religioso, il Papa
sarebbe stato lì, il prete
accanto al moribondo». Riuscì a vederlo, prima che
morisse? «No. Non lo lasciarono entrare
nella stanza dell'amico. Quando il Papa si sentì negare il permesso,
chiese soltanto che gli
portassero una sedia. Se la fece sistemare nel corridoio sul quale dava
la stanza del Presidente e rimase
a pregare in silenzio e in solitudine, per il vecchio amico che se ne
stava andando. Dopo parecchio
tempo si alzò e disse che tutto era già fatto. E, altrettanto
discretamente, tornò in
Vaticano. Non volle dare nessuna pubblicità alla cosa».
C'era, anche in tanti che
avrebbero voluto ascoltare la sua voce, la delusione per il suo
conservatorismo dottrinale e
inflessibile in materia di amore, di sesso, di omosessualità, di
sacerdozio femminile, di
celibato sacerdotale. Sembrava stridere così violentemente con la sua
persona pubblica, con la
fisicità di cui abbiamo parlato. Eppure era entrato in seminario a
diciannove anni, dunque aveva
visto e conosciuto la vita.
«Concordo con il giudizio di
tanti studiosi - dentro e fuori la geografia cattolica - che il più
originale contributo del pensiero di
Wojtyla è la sua concezione della persona umana. Ne parlammo molto.
Prima ancora di parlare di peccato,
di legge divina, di morale, Wojtyla vedeva la natura umana,
della quale tutti siamo
portatori. Oggi, "natura umana" è un'espressione politicamente
scorretta, si
tende di più a parlare di
"genere", di "costruzione sociale" come antagonista alla
natura. Ma anche se la cultura prende origine
nell'azione, questo non vuole dire che non sia naturale. E la natura
umana ha una sua eloquenza
evidente». Negarlo sembra la negazione
della libertà morale, dunque della salvazione? «Giovanni
Paolo II pensava che
all'essere umano - e soltanto all'essere umano - appartiene anche il
dover essere. Questo fa
dell'uomo una "persona". Anche gli animali sono, ma non devono essere
niente altro di ciò che sono;
la loro perfezione è biologica. Nell'uomo la perfezione non è di natura
biologica ma morale.
Naturalmente si può rifiutare la questione del "dover essere" ma in
questo caso l'uomo sta rifiutando se
stesso, sta rifiutando di essere ciò che è». Era quella
intransigenza che i
critici avvertivano dietro la sua personalità, la sua figura così
affascinante? «Non c'era nessuna
contraddizione, se ci pensiamo. L'intransigenza morale, sui principi
che hanno
a che vedere con la verità, che
non era intellettualmente negoziabile, si accompagnava sempre alla
sua infinita, illimitata pietas,
alla comprensione, alla tolleranza per la persona. La discussione è
sulle idee e, alla fine, sulla
verità; la persona merita di più che la discussione. E questo lo portava
esattamente a quello di cui
l'essere umano aveva per lui un bisogno assoluto: la misericordia,
soprattutto quella divina». Ma prima la devi accettare,
questa misericordia? «Certo e la puoi rifiutare, ma
allora si entra nel vuoto della solitudine assoluta, nel buio più
completo. Quando lo sentivo
parlare, si vedeva insieme la profondità della sua fede e la ricchezza
del suo pensiero. O se si
vuole, della enorme ragionevolezza della religione e della fede».
Un uomo allegro che predicava
non il diritto a non soffrire, come scrive oggi la scienza, ma
quasi il dovere di soffrire? «Direi piuttosto,
l'inevitabilità della sofferenza. Con un realismo ottimista ma non
ingenuo,
pensava che imparare a vivere è anche
imparare a soffrire. La sofferenza è l'ambito dell'umano, è la
condizione del nostro essere,
è ciò di cui abbiamo paura. Non soltanto la sofferenza fisica, ma
quella spicciola, quotidiana,
il figlio che ti fa penare, il sogno che non si avvera, l'amico che ti
tradisce, il mondo che sembra
impazzire, tutto quello che ci fa soffrire ma che non ci farà mai
andare da un medico perché
nessun medico può curare o lenire queste cose». Eppure
l'insegnamento della
Chiesa sembra essere così spaventato da questo nostro corpo,
dalle sue pulsioni, dai suoi
desideri. «Non per Wojtyla. E io penso
nemmeno per la Chiesa. Non aveva nessuna paura del corpo.
Accarezzava e benediva la
pancia delle donne incinte, faceva sport - quando poteva, e cioè non con
la frequenza necessaria -
lottava tenacemente per tenere in funzione il proprio corpo anche quando
era logoro e già non
rispondeva agli impulsi. Amava il corpo perché con il corpo l'essere
umano si inserisce nella storia: nella
storia umana e in quella della salvezza. Ma a questo amore per il corpo
si aggiungeva il rispetto che
un corpo - il proprio e quello degli altri - merita proprio perché non è
un ammasso di cellule ma la
condizione storica della persona. Di tutto questo rimane un suo
magnifico libro - Uomo e donna
lo creò - che è già un classico non soltanto della letteratura
cristiana ma anche del
pensiero umano». Anche a rischio di apparire
crudeli, ingenerosi, verso chi risponde ad altri richiami, a chi
vorrebbe scegliere la propria
fine? «Anche a rischio di questo
perché la più terribile delle crudeltà sarebbe ingannare trattando gli
altri come cose anziché come
persone». Un rischio che il successore,
Papa Ratzinger, corre anche di più, non mostrando quella fisicità,
quella corporeità che Wojtyla
esprimeva. «Ma questo è soltanto
l'aspetto esteriore. Si dovrebbe riflettere su quanto profonda fosse la
sintonia fra questi due uomini pur
tanto diversi fra loro. Era stato lui a chiedere a Ratzinger, nel 1981,
di venire a Roma, e poi a
trattenerlo anche dopo l'età del pensionamento quasi, direi, contro la
sua volontà». Aveva bisogno di lui?
«Probabilmente, sì». Si può parlare di un
capolavoro del pontificato di Wojtyla? «Per me, il suo
capolavoro è
stato quello che verrà confermato nella sua beatificazione. Il
capolavoro che, con l'aiuto di
Dio, lui ha compiuto in se stesso: aver detto di sì fino all'ultimo
momento a tutto quello che Dio
gli chiedeva. La sua totale disponibilità ad essere quello che Dio gli
domandava che fosse, sia
quando era un giovane uomo vigoroso sia quando non ce la faceva più.
Quando voleva parlare alla
finestra e non ci riusciva e si agitava prima di calmarsi. Totus tuus,
non ce la faccio più, e subito
dopo Totus tuus. Questo era il presagio di santità che vedevo in lui,
come mi avevate chiesto all'inizio,
fino al momento in cui si arrese all'ultima volontà divina, che era
quella di tornare alla casa
del Padre. Non scelse di morire. Scelse - ancora una volta nella sua
vita - di accettare quello che un
Altro aveva scelto per lui». Erano le 21,37 del 2 aprile
2005, quando il tracciato cardiografico si appiattì e il dottor
Buzzonetti, medico pontificio, certificò
la fine. Alla finestra della sua stanza nel Palazzo apostolico, fu
accesa la piccola candela della
tradizione polacca per i morti. Suor Tobiana gli posò la mano sulla
testa. Attorno al letto di morte del
Papa, «senza che ci fosse stato prima un accordo» dice ora Joaquin
Navarro-Valls, suore,
infermieri, preti cominciarono a intonare il Te Deum laudamus, non una
nenia funebre,
ma l'inno cristiano più solenne e trionfale del ringraziamento.
Ringraziamento
non per una morte, ma per tutta la vita straordinaria nell'ordinario
quotidiano
che l'aveva preceduta. La piazza, là sotto, era
piena, ma silenziosa. Le voci del «Santo subito» avrebbero presto
riempito quel silenzio.