L’Italia ha un primato negativo: diciotto forme diverse per definire il lavoro flessibile (a volte freelance, quasi sempre precario).
Precario, indipendente, fragile, free lance, in transito, flessibile, atipico. Le parole per dirlo sono tante. E non sono innocenti. L’aura del “precariato” è indubbiamente negativa, si porta dietro il desiderio irrealizzato di diventare stabile, un desiderio tanto antico da diventare realtà burocratica e costruire il paradosso del “precario storico” – come dire, il flessibile rigido o l’ambulante statico. “Free lance” invece è una bella parola, evoca una libertà che va dritta e acuminata al bersaglio, non ci si presenta così con gli occhi bassi e spalle abbassate. “Carriere fragili” e “transizione” sono le categorie più nuove, che colgono la condizione più tipica di quei 3-4 milioni di persone impigliate nel nuovo mercato del lavoro, in perenne transito da un’occupazione all’altra. “Flessibile” era la parola d’ordine dalla metà degli anni ’90 in poi, quando con la legge Treu – e poi con la legge 30 – il catalogo del mondo nuovo del lavoro è stato squadernato e declinato fino a giungere alle sue attuali diciotto forme, usate e abusate senza mantenere mai le promesse miracolose di quella auspicata “flessibilità”. E’ utile elencarle tutte, riprendendole pari pari dalle tabelle dell’Isfol:
1. lavoro a tempo determinato,
2. apprendistato,
3. contratto di inserimento,
4. formazione lavoro,
5. lavoro interinale,
6. lavoro intermittente,
7. lavoro a progetto,
8. job sharing,
9. collaborazione coordinata e continuativa,
10. collaborazione occasionale,
11. partita Iva,
12. imprenditore,
13. associato in partecipazione,
14. socio di cooperativa o società,
15. coadiuvante familiare,
16. stage,
17. pratica professionale e tirocinio,
18. altro.
E’ un primato italiano, nessun altro paese europeo ha tante parole per offrire, o comprare, lavoro “non standard”: ossia fuori dal quel grande mondo antico del lavoro standard, alle dipendenze per tutta la vita oppure autonomo per libera scelta e attitudine. A seconda della definizione, l’area del mondo nuovo del lavoro si allarga e si restringe a fisarmonica. Ci sta dentro di sicuro il lavoro a termine. Ma dovrebbero starci dentro anche i “parasubordinati”: collaboratori, soci o partite Iva, che non hanno reale autonomia né libertà di orari e mansioni. (…)
Hanno pagato fin’ora i più deboli, i più fragili tra i lavoratori più fragili, del tutto privi di quei cuscinetti di protezione detti “ammortizzatori sociali”, ma chiamati a fare essi stessi da cuscinetto all’intera economia di fronte al crash mondiale. Un cuscinetto nel quale sono sovra rappresentate alcune fasce sociali: giovani (36 su 100 sono impegnati in lavori non standard), donne (19 per cento), lauareati (29,9 per cento). (…) Il nostro non è un Paese per giovani.
Roberta Carlino
“Precari, vita da afunambuli”(E-Emergency, già Peacereporter, luglio 2011)
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