Caro
direttore,
la pubblicazione dei dati OCSE sull’educazione, avvenuta qualche giorno
fa, ha provocato il solito assalto al Governo e in particolare al
ministro Gelmini.
Ma quei dati fotografano e commentano la scuola italiana così come si
presentava nel 2008, epoca del ministro Fioroni e del governo Prodi.
Incuranti di tutto ciò, le solite cassandre hanno riempito le agenzie e
i giornali di accuse strumentali ai ministri Gelmini e Tremonti.
Abbiamo assistito ancora una volta a considerazioni dettate molto più
dalla volontà politica di criticare il Governo che non di affrontare i
veri problemi della scuola. Per di più, trattandosi di confronti
internazionali, è apparsa la dimensione provinciale, quasi
anti-italiana della polemica. Proviamo a riprendere alcune affermazioni
apparse sulla stampa e a commento del Rapporto OCSE per confutarle e
dimostrare che una diversa lettura dei dati è non solo possibile, ma
opportuna, in un’ottica di equilibri tra riforme già avviate e riforme
da
promuovere.
Prima affermazione: La crisi colpisce chi non ha alle spalle un
percorso lungo fatto a scuola. Non condividiamo. Non è sempre vero che
la crisi colpisce duramente chi non ha una maturità tout court. La
realtà è più selettiva, perché dalle disaggregazioni OCSE si rileva
che, anzi, i possessori di qualifiche con percorsi in media di soli 3
anni dopo la secondaria inferiore, godono di tassi di occupazione più
alti rispetto a chi ha frequentato i licei e gli istituti tecnici e
professionali quinquennali.
Questo avviene in Italia ma anche in paesi come Australia, Francia,
Germania, Israele, Corea e Norvegia, dove la percentuale di occupati è
più elevata con meno anni di istruzione, compensati, però, da una buona
formazione professionalizzante. A ciò si aggiunge l’altissima
percentuale di inattivi (con il 37,3% siamo secondi in Europa solo alla
Germania) tra i 25-34enni che hanno studiato nella secondaria
generalista (licei), quando la media europea è del 22,2%.
Seconda affermazione: Per finanziare la scuola l'Italia riserva una
percentuale del Pil inferiore alla media Ocse. Obiettiamo che per
migliorare la scuola il focus non è la spesa rispetto al Pil. C’è forse
un leggero vantaggio (più illusorio che reale) se vengono impiegati più
fondi pro capite per l’istruzione, ma almeno in questo siamo in linea
con gli altri paesi europei. Conta, invece, la qualità della scuola -
come giustamente ha indicato Bottani nel suo articolo su
ilSussidiario.net -, la qualità degli insegnanti e la libertà di
sceglierli. Contano l’organizzazione e il clima scolastico, una
valutazione efficace e un altrettanto efficace accompagnamento per
superare le criticità. Una spesa maggiore piace a tutti ma spendere di
più non serve se il sistema è già logoro.
Di questo ne sono evidentemente consapevoli gli investitori privati
nell'istruzione che, contrariamente a quanto accade altrove, da noi
sono piuttosto rari. Bisogna aggiungere che, tra i paesi OCSE, la
percentuale della spesa privata per l’istruzione è cresciuta tra il
2000 e il 2008. Le difficoltà del nostro sistema sono, invece,
evidenziate dalla comparazione tra la spesa cumulativa per la
scolarizzazione tra i 6 e i 15 anni e le performance nella lettura dei
15enni. In questa classifica siamo sotto la media Ocse dietro al
Portogallo. È interessante segnalare che i primi quattro paesi europei
hanno tutti un concetto di sistema educativo pubblico allargato, in
base al quale anche le scuole non statali sono ampiamente sovvenzionate
dallo Stato.
Terza affermazione: Gli stipendi dei professori degli altri paesi
aumentano, quelli dei nostri docenti diminuiscono. È reale il gap tra
gli stipendi dei docenti italiani e quelli di molti paesi competitors.
La spesa per gli stipendi degli insegnanti è compressa dall’elevato
costo per studente dell’istruzione pre-universitaria: troppe ore di
lezione per i ragazzi e minor numero di ore di insegnamento dei
docenti, con classi, in alcune zone del Paese, con un numero di alunni
ancora troppo basso.
Rispetto a questi indicatori, sicuramente un elemento di miglioramento
sarà apportato dalla Riforma della scuola secondaria che, entrata in
vigore lo scorso anno, ha ridotto il monte ore annuale di lezione, per
tutti gli indirizzi, con una riduzione complessiva di alcune decine di
migliaia di cattedre, i cui effetti pieni si potranno cogliere a
partire dal 2015.
Bisogna aggiungere che, mentre in altri paesi i docenti sono sottoposti
ad una corposa formazione iniziale e, soprattutto, continua e sono
valutati con una progressione di carriera, in Italia vanno avanti
indistintamente per anzianità ottenendo il massimo dello stipendio dopo
35 anni di insegnamento. Non è più procrastinabile l’introduzione della
valutazione e della carriera per i docenti, come avviene nel resto dei
Paesi Ue e dell’OCSE.
Ultima affermazione: “l’Italia dispone di meno dispositivi di verifica
dell’accountability nella regolamentazione”. Rispetto a questo punto di
debolezza, il nostro sistema educativo ha fatto molti passi in avanti
proprio in questa Legislatura.
La scuola italiana ha oggi molti strumenti di valutazione nazionale e
il governo si appresta a ridisegnare e a rafforzare l’impalcatura
generale del Servizio Nazionale di Valutazione attraverso il
potenziamento di tre soggetti: un corpo di ispettori ministeriali
dedicato alla valutazione degli insegnanti e di sistema e due enti di
ricerca, l’Indire e l’Invalsi, che saranno chiamati a garantire e a
misurare la qualità degli insegnamenti e degli apprendimenti nelle
nostre scuole.
Come abbiamo dimostrato il confronto internazionale può servire a
progettare nuovi scenari dell’educazione sulla base delle best
practices del mondo. Al contrario non serve la polemica spicciola
contro il Governo. Non c’è dubbio, tuttavia, che d’ora in avanti
coniugare rigore e qualità, spesa pubblica ed efficacia educativa,
costituiranno la vera sfida delle nuove condizioni di agibilità
amministrativa e didattica per una educazione sempre più
personalizzata, di eccellenza per tutti e per ciascuno, e policentrica.
(da Il Sussidiario)
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