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Spesa pubblica: Maria Chiara Carrozza “Mezzo miliardo per i migliori progetti di ricerca”

Rassegna stampa
L’annuncio del ministro dell’Istruzione: “Scegliere e poi investire su ciò che si è scelto”  - ROMA
Maria Chiara Carrozza, lei è stata professore e rettore, chissà quante volte avrà detto «se fossi io il ministro ...». Ecco, adesso le tocca. 
«Lei dice che mi faranno pentire? Non credo. Quando sono entrata qui mi sono data un principio ispiratore che ho sentito dalla commissaria europea all’innovazione e alla ricerca, Máire Geoghegan-Quinn: «Select, invest, transform». Selezionare e quindi scegliere, investire su ciò che si è scelto, e poi trasformare a vantaggio del Paese e della comunità».  
Alcuni suoi predecessori si sarebbero già arenati sul «select», perché scegliere significa farsi nemici. 
«E io mi farò molto nemici, pazienza! già da subito, peraltro, dato che è appena stato presentato il rapporto di valutazione sulla ricerca che ci consentirà di rilevare le migliori prestazioni. In base a questa valutazione il ministero disporrà nel 2013 di un fondo di 540 milioni da distribuire secondo criteri premiali».  
Auguri. Le faranno rimpiangere di aver lasciato Pisa. 
«Non credo. I cittadini ci chiedono di spendere bene e investire su ciò che merita. E noi non abbiamo paura di farlo. E anche il mondo delle università e della ricerca ha mostrato di capirlo, visto il grande sforzo di trasparenza fatto in questa occasione, un esempio unico nella pubblica amministrazione».  
Se le università sono così differenti come risulta dalla valutazione, che senso ha mantenere ancora il valore legale del titolo di studio? 
«La prassi ha superato questa disputa: il titolo di studio viene richiesto ormai solo dalla pubblica amministrazione, mentre per il mercato vale l’iter formativo individuale. Il carattere legale del titolo, semmai, serve come certificazione di qualità da parte dello Stato che garantisce che determinati percorsi di studio sono avvenuti secondo criteri certi e verificabili».  
Parliamo di università e lavoro. Dall’inizio della crisi le immatricolazioni sono diminuite di quasi un quinto: la laurea ha perso di attrattiva? 
«Sta per partire qui al ministero un gruppo di studio su questo fenomeno: voglio capirne bene la dinamica. Sicuramente c’è una questione demografica, poi la crisi sociale che si fa sentire così come l’aumento delle tasse universitarie: tutte questioni che hanno avuto certamente un peso».  
Basterà rimuovere queste strettoie? 
«Quando mi avranno consegnato i risultati dell’indagine lo saprò. Tuttavia stiamo lavorando anche su possibili alternative all’università, come gli Its (Istituti tecnici superiori - ndr) che hanno riguardato finora una platea limitata ma che sono stati molto apprezzati nel mondo imprenditoriale».  
Sta di fatto che all’università si va di meno e che ci sono 2 milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano. 
«Al netto di tutti i problemi connessi con la recessione, mi sento di dire che per i giovani esiste un forte problema di disorientamento: i ragazzi di questa generazione, per la prima volta da tempo, hanno paura di tornare indietro rispetto alla condizione di progresso che i loro genitori hanno conosciuto e questo genera una forte apprensione che si riverbera anche sulle scelte di studio. L’attività di orientamento in questo deve assumere un ruolo centrale».  
Ma disorientamento non è anche il fatto che a fronte di una disoccupazione crescente gli universitari optano ancora per discipline umanistico-sociali che non danno alcuno sbocco lavorativo? 
«È ancora molto rilevante - anche se in calo - la propensione per gli studi umanistici, ma l’orientamento che le università devono fare non è una sorta di pressione affinché ci si iscriva di più ai corsi di laurea scientifici, ma serve una informazione chiara, imparziale e rispettosa degli interessi dei ragazzi, che dica chiaramente quali sono le possibilità offerte dai singoli indirizzi di studio. Dopo di che ciascuno scelga pure liberamente ma consapevolmente».  
Parliamo di start up, cioè di quelle idee che nascono in ambito universitario e che poi generano imprese: l’università da cui lei proviene ne ha sviluppate molte, al contrario di altri atenei. 
«Le start up sono fondamentali per l’innovazione e per la competitività economica. Le università hanno agito molto su questo fronte e continuano a farlo. Però abbiamo anche assistito a start up attecchite qui da noi ma sviluppate a Palo Alto o altrove. Non basta formare ragazzi preparati e metterli a lavorare intorno a un’idea, ci vuole un “ecosistema” favorevole: libertà, investimenti, meno burocrazia. Le idee non possono essere seppellite dalle carte».  
Si fa prima a cambiare paese. 
«Per nulla: si devono cambiare le condizioni. Non è materia mia, ma credo, per esempio, che la leva fiscale per favorire le start up potrebbe essere un fattore su cui ragionare».

Raffaello Masci
Lastampa.it








Postato il Giovedì, 18 luglio 2013 ore 08:00:00 CEST di Antonia Vetro
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