L’ultima novità è
apparsa sul “Corriere della Sera” on-line: un dossier dall’eloquente
titolo Ha ancora senso imparare il corsivo? in cui si riferisce il
serissimo dibattito sorto negli Stati Uniti circa l’utilità
dell’insegnamento del corsivo ai bambini delle scuole elementari. In
un’epoca dominata dall’uso delle tastiere, argomentano alcuni, perché
perder tempo ad apprendere il corsivo, così noioso e difficile? Basta
imparare a scrivere in stampatello e poi via con la tastiera! La
questione poi è diventata politica, dal momento che, per i suoi
avversari, il corsivo è “di destra”. Il motivo di questa o altra
coloritura politica sfugge a chi scrive, come a chiunque non si sia
appassionato a dibattiti di portata fondamentale sul genere “Tex Willer
è di destra o di sinistra?”.
Nel dossier del “Corriere” un
pediatra sostiene a spada tratta l’abbandono del corsivo, un oggetto
antiquato, e l’uso del solo stampatello, affermando: «Se il corsivo
ormai non esiste sui libri che leggiamo, né sul computer, né su
Internet, né sugli smartphone, né sui social network, perché usarlo a
scuola?».
Viceversa gli esperti di psico-pedagogia interpellati rilevano
l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico
e cognitivo dei bambini e segnatamente «quanto sia cruciale nella
crescita, nel rapporto occhio-mano, nella sequenzialità delle parole
che si riflette in sequenzialità del pensiero, nell’originalità del
tratto e nelle competenze di analisi e sintesi in rapida sequenza. […]
Ha una valenza profonda nell’acquisizione di competenze basilari di
ordine cognitivo e psicomotorio e di abilità manuali e di pensiero».
La posizione di chi vuole abolire il corsivo perché inutile rappresenta
l’ennesima manifestazione di coloro che, magari in buona fede, pensano
vada buttato tutto ciò che non è ritenuto economicamente utile. Come
se, visto che quasi più nessuno nel mondo usa il latino e l’italiano,
si decidesse di abolirne l’insegnamento nelle nostre scuole per
adottare solo l’inglese!
In realtà essi ignorano (o fingono di ignorare) che toccare i
meccanismi di apprendimento dei bambini significa manipolare le loro
personalità e capacità di apprendimento, nonché, in prospettiva, la
loro stessa esistenza futura e, con essa, la società che verrà. Non si
tratta ovviamente di combattere inutili battaglie contro la tecnologia
ma di affrontare i progressi tecnologici con lungimiranza. Pare infatti
ripetersi anche con la straordinaria rivoluzione operata
dall’informatica ciò che si verifica puntualmente a ogni salto di
qualità nella modernizzazione: il falso mito di un “uomo nuovo”, che
finisce però per essere duramente smentito dalla cruda realtà. Come
scrisse nel lontano 1969 il grande storico Carlo Maria Cipolla,
«istruendo un selvaggio nelle tecniche più avanzate, non se ne fa una
persona civile; se ne fa solo un selvaggio più efficiente» (Istruzione
e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale,
Bologna, Il Mulino, 2002, p. 120). Cipolla scriveva quando si andavano
affermando le istituzioni scolastiche della società di massa e indicava
la via dell’allungamento dell’obbligo scolastico come un elemento
irrinunciabile per la crescita economica, culturale e civile. Egli
intendeva al contempo avvertire che un’istruzione senz’anima e senza
valori non avrebbe condotto da nessuna parte. Purtroppo i buoni libri
di rado vengono letti dai politici e opinion makers mentre le promesse
più assurde trovano facilmente il modo di abbacinare il grande pubblico.
La progressiva eliminazione dei contenuti basilari dell’istruzione,
specie quelli che richiedono una qualsivoglia forma di impegno
personale - espressione considerata alla stregua di una bestemmia dalla
vulgata burocratica e giornalistica imperanti - costituisce un tipico
risultato di un’ideologia regressiva che danneggia soprattutto quei
ceti sociali più umili e poveri che finge di voler sostenere. In Europa
l’accesso all’istruzione primaria pubblica e gratuita facente perno
sull’alfabetizzazione è stato il risultato di quasi due secoli di dure
battaglie politiche e culturali. Ciò che oggi molti disprezzano, la
Scuola per tutti, è stata una delle conquiste più significative del XX
secolo, perché ha rappresentato un eccezionale veicolo di mobilità
sociale: generazioni di figli di contadini od operai hanno potuto
studiare e migliorare la propria condizione esistenziale come mai nel
passato.
Nell’ultimo ventennio la Scuola pubblica ha però subito un processo di
degradazione sociale, economica e culturale. L’elenco delle cause delle
responsabilità è alquanto lungo e articolato: continue riforme, spesso
contraddittorie e confuse, burocratizzazione esasperata (vedi le
bocciature scolastiche annullate con ordinanze dei TAR) e applicazione
di teorie pedagogiche strampalate. Infine la costante de-qualificazione
del corpo docente, dovuta alla trasformazione dell’insegnamento in una
branca del pubblico impiego e alle periodiche immissioni in ruolo ope
legis (ossia senza alcuna selezione reale volta a verificare le
qualifiche e le conoscenze). Se oggi la Scuola in qualche modo ancora
regge, è merito della dedizione di moltissimi insegnanti e presidi
bravi e capaci.
Da parte loro i diversi Governi hanno operato continue riduzioni dei
finanziamenti, poiché l’istruzione resta, malgrado i tagli, la
principale voce di spesa del bilancio dello Stato. Quindi, non appena
si apre un buco nelle finanze statali, via con le forbici: del resto,
secondo il senso comune, se un’istituzione pubblica non è
economicamente produttiva, perché finanziarla con i soldi dei
contribuenti? Tanto - recita la consueta retorica nazionale - la Scuola
italiana è fra le migliori del mondo e quindi se la caverà ugualmente.
E qui casca l’asino. È stato recentemente pubblicato il risultato di un
test commissionato dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) su un campione di 166.000 persone fra i 16 e i 65
anni in 24 paesi avanzati. Il test mirava a verificare le competenze
della popolazione adulta per quanto concerne l’alfabetizzazione e la
matematica. Esso ha mostrato come il punteggio medio degli Italiani sia
al di sotto della media dei paesi OCSE e, più nello specifico, che
oltre il 70% non possiede le competenze alfabetiche e matematiche
ritenute indispensabili per “vivere e lavorare nel XXI secolo”.
Sono dati che dovrebbero fare riflettere la classe politica che invece
sembra oscillare fra riforme di corto respiro che celano tagli di
bilancio, meglio se lineari (tutti scontenti uguale nessuno scontento)
e le sirene della demagogia sindacal-populista (assunzioni a pioggia in
cambio di stipendi da fame e niente valutazione dei docenti). È
evidente che, se vogliamo dare un futuro alle giovani generazioni
tramite l’istruzione, occorre abbandonare le scorciatoie, come ad
esempio la riduzione degli anni di scuola, al solo scopo di ridurre
ulteriormente la spesa pubblica, e puntare sulla ri-qualificazione
dell’insegnamento e degli insegnanti, rinunciando a creare precariato e
investendo risorse nell’innovazione, nell’edilizia scolastica e
nell’idea che il sapere non è un regalo ma una conquista frutto di
impegno e fatica.
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