Di Luigi Russo
(Delia, Caltanissetta, 29 novembre 1892-Marina di Pietrasanta, Lucca,14
agosto 1961) si sono perdute le tracce nelle attuali condizioni della
cultura letteraria italiana tutta spostata verso ineffabili lidi di
oscuro strutturalismo,in virtù del quale la nostra grande tradizione
storicistica rischia di essere totalmente ignorata e pericolosamente
calpestata. Capisco la fatica intellettuale che comporta un recupero
sistematico del lavoro critico svolto dai nostri Francesco De Sanctis,
Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Alessandro D'Ancona, Francesco
Flora, Attilio Momigliano, Walter Binni, ecc., e dallo stesso Russo,
autore di un notevole numero di opere (tra le quali si possono
ricordare: Metastasio; Giovanni
Verga; I narratori; Problemi di metodo critico; F. De Sanctis e la
cultura napoletana; S. Di Giacomo; Elogio della polemica; Ritratti e
disegni storici; La critica letteraria contemporanea; Carducci senza
retorica; Il tramonto del letterato; Storia della letteratura
italiana; De vera religione), ma anche vivace conduttore di
riviste, acuto commentatore di classici e soprattutto intelligente
interprete dell'estetica desanctisiana, validissimo interlocutore di
Croce e Gentile e impaziente costruttore di un meridionalismo
letterario aspro, pugnace e aperto, e non già decadente, piagnone e
corporativo.
Il suo è un meridionalismo nazionale-popolare che attira subito
l'attenzione di Antonio Gramsci e che lo induce a sottolineare
l'importanza della sua attività critica: "La preoccupazione
nazionale-popolare nell'impostazione del problema critico-estetico e
morale-culturale appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere
il volumetto su I narratori)
come risultato di un ritorno alle esperienze del De Sanctis dopo il
punto di arrivo del crocianesimo [...] Per l'indirizzo nazionale-popolare
dato dal De Sanctis alla sua attività critica, è da vedere l'opera di
Luigi Russo "Francesco
De Sanctis e la cultura napoletana 1860-1885" (A.Gramsci,
"Quaderni del carcere", a cura di Valentino Gerratana, volume terzo,
Einaudi, pp.2197-98). Sono annotazioni interessanti che rivelano la
grande attenzione che Gramsci rivolge al lavoro storico-critico di
Russo, per il quale egli nutre uno straordinario rispetto che
scaturisce dalla scoperta russiana di un meridionalismo
nazionale-popolare generato dalla lettura del Verga e dalle viscere del
genuino verismo siculo-napoletano rappresentato al più alto grado dal
Verga e dal De Sanctis. E ciò viene confermato più volte dal Russo e
riappare in una nota sostanziosa del "Dialogo dei popoli"(Parenti
Editore 1955) in cui riagganciandosi a Gramsci egli riprende
l'idea che il verismo verghiano-desanctisiano è la fonte
viva e antiaccademica di una nuova letterarietà, di una sincera
spiritualità democratica, di una lotta al privilegio e a qualsiasi
forma di assolutismo e di una concezione dell'impegno intellettuale
rigorosamente rispondente ai bisogni profondi della vita morale e
politica.
Permane in Luigi Russo, in effetti,una speciale vibrazione
culturale-sentimentale per il Sud, dopo la sua partenza per il
Settentrione, prima per frequentare la Scuola Normale Superiore di Pisa
e poi per partecipare in trincea alla prima guerra mondiale, e
successivamente, dopo una intensa parentesi napoletana di cinque anni,
per andare ad insegnare letteratura italiana al Magistero di
Firenze e quindi all'Università di Pisa. Così il "barbaro
zolfataio"vissuto per diciassette anni "in un piccolo paese della
provincia di Caltanissetta", ulteriormente imbarbarito da tre anni di
trincea sul Carso, si trapianta fuori dell'Isola e sposa Teresa
Saracinelli di un'illustre famiglia perugina,una giovane che era
stata sua compagna all'università di Pisa,"una fanciulla senza dote,ma
di una famiglia nobilissima,una contessa di una vecchia famiglia
decaduta", una donna, insomma, destinata ad ammorbidire la sua
barbarie: "Tu sei un barbaro e lei ti sbarbarirà"(L. Russo, "Nascita di uomini
democratici", in "Dialogo dei popoli",
cit., p. 281). E il suo amore per il Sud cresce con il crescere della
distanza geografica tra sé e il suo paese e con l'intensificarsi del
desiderio nell'impossibilità di frequentare fisicamente le regioni
meridionali.
Il punto di vista meridionalista nella storiografia letteraria di Russo
diviene una conquista durevole successivamente alla stesura
della sua tesi di laurea sul Metastasio discussa a Pisa con Francesco
Flamini nel 1914 e si esprime efficacemente con l'elaborazione del
saggio su "Giovanni
Verga" edito inizialmente da Ricciardi nel 1919:
"Questo volume apparve la prima volta,nell'ottobre 1919, edito dal
Ricciardi di Napoli, e diede lo spunto per larghe discussioni e
acclamazioni all'arte del Verga [...]E invero è stata larga in
quest'ultimo dodicennio la messe degli studi particolari e degli
articoli, anche se spesse volte generici, ma tali in ogni modo da
attestare che il Verga ormai è entrato nella coscienza e nel gusto
dell'universale" (L. Russo, Avvertenza del
1933 alla seconda edizione del saggio su "Giovanni Verga",
Laterza, Bari 1959, p.IX). Nel momento in cui del Verga si conosce solo
la "Storia di una
capinera", il critico siciliano lancia la lettura completa delle
opere verghiane, mette in discussione la nettezza della distinzione tra
poesia e non poesia,afferma l'unità di arte, cultura e eticità e
introduce in letteratura uno storicismo critico che fa vibrare cuore,
passione e intelligenza e che risulta costituito da una molteplicità di
fattori unificati da un potente sguardo coordinatore, da una larga
competenza cognitiva e da una profonda comprensione filosofica. E
questa operazione è frutto anche della sintesi ben ponderata e mediata
di componenti crociane e gentiliane,di cui non si può non tener
conto.
Nell'elaborazione del saggio sul Verga, che rimane decisivo nella
biografia intellettuale di Russo, questi dimostra quanto l'autore dei
"Malavoglia" gli sia organico e congeniale e quanto con lui egli possa
riacquistare la tremenda libertà della sua anima,della propria
personalità e del proprio patrimonio lessicale e sintattico, e tutta la
capacità critica legata alla propria "sicilitudine" ancora allo
stato puro, come quella dei personaggi crudi e schietti dei suoi
romanzi e delle Novelle.In
questa Sicilia verghiana Russo ritrova se stesso e il suo mondo, le sue
radici di uomo e di intellettuale,la sua anima libertaria che sembrava
quasi perduta nel composto e ben educato filologismo nordista. Il
viaggio che egli adesso compie è non più da sud a nord, ma da nord a
sud in compagnia dei suoi Autori, del loro stile e dei loro personaggi
più rappresentativi. Ed è un viaggio, bisogna dirlo, finalizzato alla
riconquista non solo della Sicilia, come farà Elio Vittorini con le sue
"Conversazioni",
ma dell'intero sud,dove vivono,si muovono e si alimentano Croce ed i
crociani, Gentile ed i gentiliani, Gramsci ed i marxisti-hegeliani di
Napoli, i massimi filosofi del secondo Ottocento e del primo Novecento,
il Vico, il Cuoco ed i fratelli Spaventa, gli uomini del Risorgimento
nazionale e soprattutto quel grande costruttore,teorico e critico che
si chiama Francesco De Sanctis.
L'operazione critica che Russo compie con il saggio sul Verga consiste,
dunque, nella rivendicazione della presenza attiva
del Meridione nella vicenda culturale e politica dell'Italia,con un
inizio collocato prima del 1861, cioè prima del momento
dell'unificazione nazionale, e con la più larga socializzazione dei
fatti letterari, artistici e filosofici nella nuova Italia. Qui avviene
la fusione della vita e della cultura, e la loro trasformazione
in arte, come egli afferma con decisione già nel "Verga" del 1919,
nel capitolo non rimosso in altre edizioni su "La fama del Verga",
in cui l'arte ha la sua fonte in una pluralità di sollecitazioni
interiori organizzate da una sintesi apriori estetica, e la critica ne
è la continuazione, e la poetica ne rappresenta la concreta
esplicitazione.
L'operazione condotta a termine con il "Verga" è assunta
da Russo a paradigma di letterarietà meridionalista e nazionale,
giacché la "meridionalità" coincide in Russo con la nazionalità. E
soprattutto con l'universalità. Questo è anche il punto più alto della
metodologia russiana, che risiede nell'intensità del bisogno di un
riferimento costante alla universalità e totalità delle
espressioni e dei fattori che contribuiscono a produrre l'arte. Che non
è cosa facile a farsi,se manca la pluralità delle componenti
costitutive e se non si realizza il ventaglio di possibilità creative e
ricettive, e se non si mette in campo la forte capacità emozionale di
unificazione dei vari prodotti e delle varie funzioni dello
spirito. E ciò lo allontana necessariamente dalla metodologia crociana,
che vorrebbe introdurre una netta distinzione tra le
manifestazioni dell'attività umana. Non è questa, però, la sede per
ridiscutere la genesi e la rottura dei rapporti intellettuali e umani
tra Russo e Benedetto Croce. (vedi S. Ragonesi, "Carlo Antoni e Luigi
Russo. La revisione del crocianesimo nell'estetica e nella filosofia
politica", in "Nuova Secondaria", n.10 del 15 giugno1997). Né è
questo il luogo per ridiscutere l'avvicinamento momentaneo di Russo a
Giovanni Gentile nei cui confronti egli è debitore per la concezione
unitaria dell'arte. Da qui il suo storicismo tutto fortemente unificato
dalla circolarità degli elementi interni, e la capacità di
produrre il lavoro storiografico su "Francesco De Sanctis e la cultura
napoletana", libro giudicato "bellissimo" da Walter Binni e che si
configura come una geniale ricostruzione della cultura prodotta dal
Meridione dopo il 1861.
La frequentazione di casa Croce subito dopo la Grande Guerra, quando
Russo accetta per qualche tempo l'insegnamento di italiano e latino nel
Collegio militare della Nunziatella di Napoli, gli apre tutto un mondo
di relazioni intellettuali e di amicizie importanti e di vere
sollecitazioni culturali, a cominciare da quelle che provengono, oltre
che dallo stesso Croce, da Adolfo Omodeo, Giustino Fortunato, Guido De
Ruggiero, Salvatore Di Giacomo, Francesco Flora, Federico Chabod,
Fausto Nicolini, ecc., e dalla presenza di una rivista come "La
Critica", che affronta con sistematicità e molta competenza sia le
questioni storiografiche, filosofiche e letterarie più in vista che
quelle meno frequentate dalla cultura ufficiale. Entro il nuovo spazio
intellettuale Russo può concepire un'opera fondamentale(e purtroppo
oggi poco nota) come "Francesco De Sanctis e
la cultura napoletana" pubblicata nel 1928, che rivela un
interesse vivissimo per la storia e un sentimento di autentica simpatia
per l'intero quadro di vita culturale del Meridione subito dopo
l'unificazione nazionale. E De Sanctis viene posto al centro di questa
vita, con le sue proposte, le sue azioni riformatrici e le sue ragioni
estetiche,politico-culturali e filosofiche. Emergono così i patrioti
meridionali dello spirito e dell'idea per il forte valore del loro
pensiero, ma soprattutto emerge la Napoli del secondo Ottocento, di cui
il Russo fa una commossa ed efficace rievocazione.
Il De Sanctis epura radicalmente l'università borbonica caduta in
estrema miseria intellettuale, e non per rappresaglia politica, poiché
mantiene in servizio i docenti borbonici più preparati, quanto per fare
opera di autentica riforma morale e intellettuale con gli uomini
migliori e rimettere in piedi la cultura meridionale e nazionale con
gli intellettuali detestati e perseguitati dal vecchio regime: il
Settembrini, il De Meis, Paolo Emilio e Vittorio Imbriani, Bertrando e
Silvio Spaventa, il Tari, il Tommasi, il Fiorentino e molti altri
ancora. In particolare, Bertrando Spaventa spazza via dalla filosofia i
vaniloqui dei giobertiani sul primato italico e incita al vero lavoro
storiografico, mentre il De Sanctis reagisce con forza alla
decadente letteratura del tardo romanticismo, e tutti gli altri
intellettuali napoletani portano nell'insegnamento della loro
disciplina concretezza e vigore. Insomma, il Russo esalta la
vitalità ed il rigore che si sprigionano da quella che chiama
"età desanctisiana" ed esprime un solenne e ben riposto elogio a
Napoli, che è la vera patria della nuova cultura italiana,contrapposta
a Firenze, che ha solo l'eredità formale di una vecchia cultura
filologica ormai al tramonto. Povera cosa di fronte alla grandezza
dello storicismo napoletano.
Questa prospettiva densamente storicizzata,e assunta come modello,è la
conquista più fertile e originale di Russo, che trae da Croce e da
Gentile quanto gli serve nel campo della storiografia e dell'estetica,
correggendone magari le deformazioni o le incongruenze nella critica
letteraria con l'ausilio del suo vero ed unico maestro, il De Sanctis,
che gli fa ritrovare la vasta ispirazione di critica storica, la forte
tensione morale e sociale e la larga incursione filosofica e culturale.
Così si fanno più frequenti le punzecchiature a Croce a proposito di
Dante o del Manzoni o del Leopardi, quando Russo afferma con decisione
e sprezzante ironia che la struttura poetica della "Divina Commedia"fa
parte della poesia, che l'oratoria manzoniana rientra organicamente
nella organizzazione della poesia dei "Promessi Sposi",
che la filosofia intreccia intimamente, senza potersene separare, la
lirica leopardiana. Che è un ritorno alla grandezza di visione del De
Sanctis e un allungamento dello sguardo critico ad una profonda
esperienza e competenza storica, filosofica e letteraria Ma il Russo
riconosce infine che pure il Croce, su varie sollecitazioni e in
particolare a seguito degli scontri terrificanti con Gentile, teorizza
il carattere di totalità
dell'espressione artistica, e ciò non può essere ignorato, giacché il
filosofo napoletano scopre ciò che è comune all'attività logica ed a
quella fantastica, e accenna a regolarne il rapporto in modo sempre più
chiaro e ravvicinato nel volumetto "La Poesia" del
1936, ove si verifica la definitiva conquista della cultura che si fa
arte e letteratura. La definizione di una storia della letteratura come
storia dello spirito umano considerato nella sua interezza appartiene, però, al De
Sanctis e non poteva essere diversamente, dice il Russo, perché "la sua
[di De Sanctis] storia letteraria fu al tempo stesso la storia morale
del popolo italiano. E in verità quell'opera si colloca nella serie dei
capolavori, poiché fu intelligenza dell'arte nella sua pienezza, nella
sua totalità,poiché ogni opera d'arte è un mondo, e come tale essa
esprime l'unità della vita [...] e non si può eseguire la storia del suo
valore puramente estetico senza cadere nell'astrattezza" (L. Russo, "La critica letteraria
contemporanea", I Sansoni, Firenze 1977, p.206).
Non può essere ignorato inoltre il fatto che, nonostante i continui
contrasti con Croce, il Russo a lui ritorna perché da lui attinge,
dopoVerga e De Sanctis, gli stimoli più importanti per il suo lavoro
critico. E lui rimane uno dei pilastri della cultura
filosofica e storiografica del Sud, assieme ad Antonio Gramsci, Antonio
Labriola, Bertrando Spaventa, Francesco Fiorentino, Luigi Pirandello e
altri intellettuali di straordinaria forza e vitalità come Camillo De
Meis, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Salvatore Di Giacomo,
Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Gaetano Salvemini, Guido De
Ruggiero, Francesco Jovine, Francesco Flora, Adolfo Omodeo, Giuseppe De
Robertis, ecc. E non è davvero il caso di liquidare la forza
speculativa di Giovanni Gentile fino al suo esaurimento, né
l'importanza delle elaborazioni gramsciane come viene testimoniata nel "De vera religione"
del 1949, che è inizialmente un discorso letto alla Scuola Normale di
Pisa e che è dedicato ad "Antonio Gramsci e l'educazione democratica in
Italia".
Dall'amicizia con Giustino Fortunato e dalla frequentazione del salotto
crociano negli anni napoletani nasce in Russo, e si fa sempre più
forte,il bisogno di tornare mentalmente al Mezzogiorno "barbarico", di
recuperare Giambattista Vico e la libertà creativa dei primitivi, di
approfondire le ragioni della grandezza e della bellezza di un canto
segreto e di un sentimento nostalgico che nulla ha di decadente e che
conserva la vibrazione religiosa e la forza etica di una profonda
devozione: "Io ero diventato molto amico di Giustino Fortunato, per un
pungente motto con cui egli aveva ferito la mia ingenuità; capitato in
quel salotto dopo quasi tre anni di trincea con un reggimento di
toscani, e dopo che avevo compiuto un noviziato di quattro anni
universitari a Pisa, io amavo toscaneggiare". Ma una domenica un
vecchietto gli si avvicina e dice:"Chi è questo toscano?". "Sentirmi
dare del toscano in quel salotto napoletanissimo ferì la mia
sensibilità e non posi tempo in mezzo a rimpastare da quel giorno in
poi il mio linguaggio quotidiano nelle tradizioni delle parlate del
Mezzogiorno" (L. Russo,"Giustino Fortunato",
in "Il dialogo dei
popoli", cit., p.262). Ma non si tratta solo di linguaggio,
perché da quel momento,come si è detto, è tutto un mondo che viene
recuperato e Verga avanza con prepotenza, assieme a tutta la cultura
del Meridione. Russo si aggrappa fortemente allo scoglio
verghiano-desanctisiano, e questo scoglio è il suo punto di
riferimento, il suo orizzonte ed il suo lume.
Questo è l'effetto reale dell'incontro di Russo con il "vecchietto"
Giustino Fortunato. E certamente egli si muove ormai entro le nuove
coordinate meridionalistiche che vengono poi consolidate dalla scoperta
delle "Lettere dal
carcere" e dei "Quaderni del carcere"
di Antonio Gramsci. Egli guarda alla cultura meridionale con maggiore
attenzione e può elaborare un definitivo giudizio sul Meridione non
ispirato a boria nazionalistica, ma puntigliosamente agganciato alla
serietà ed al rigore della sua cultura e dei suoi grandi intellettuali.
L'approccio potente del meridionalismo è l'aspetto nascosto dello
storicismo russiano, che presenta una concezione unitaria e circolare
della realtà letteraria e morale sulla base di uno sguardo sentimentale
e intellettuale omogeneo. L'amore ritrovato per il Sud diventa,
allora, il criterio generale di una critica letteraria non
accademica,né meramente formalistica e scolasticistica, che alla fine
ritrova Aci Trezza, i Faraglioni, la casa del Nespolo, la piana di
Catania e il Biviere di Lentini con l'entusiasmo di un amante
appassionato e la struggente commozione rievocativa di chi sa di non
poter più farvi ritorno per il passare degli anni o per la distanza
geografica.. La commossa rievocazione che Russo fa del paesaggio
verghiano è il grido di libertà che emana dalla purezza della sua anima
e che viene ad alimentare in modo perfetto la memoria intellettuale dei
grandi personaggi del Sud che popolano, con altrettanta emozione, il
suo itinerario mentale.
La lezione del Verga è dunque compresa ed appresa pienamente dal Russo
che trasforma la religione della roba in religione della libertà e in
sincerità del giudizio estetico; mentre la lezione del De Sanctis
viene da lui trasformata in esigenza di fermezza morale e intellettuale
e di certezze filologiche per interpretare gli autori nel modo più
completo possibile e non perdere nulla del rapporto dialettico tra la
struttura delle loro opere e la loro poesia. Verga e De Sanctis
rappresentano perciò in prima istanza la letteratura e la cultura del
Sud, ma essi rappresentano pure la letteratura e la cultura universali,
popolari e antiaccademiche, quelle che tutti devono desiderare: "una
letteratura e una cultura che può essere aristocratica, ma che al tempo
stesso si è assimilata alle esigenze degli altri uomini, in cui
scompaia ogni traccia di orgoglio estetico e araldico, in cui scompaia
ogni traccia di concessiva carità [...] Una letteratura e una cultura di
tal genere non può essere opera di mestieranti e nemmeno di apostoli
che si aggiornino all'ultimo verbo politico; è la sostanza intima del
nostro pensiero che deve mutare [...] La cultura popolare è quindi la
cultura aristocratica per eccellenza" (L. Russo, "La cultura popolare",
in "Il dialogo dei popoli", cit. p.238).
Il Sud del Russo è il Sud popolare della Riforma e
dell'austerità, e non quello piagnucoloso, barocco e sprecone dei
"Viceré": "Solo in tal modo noi possiamo dire di aver attuato e di
attuare una rivoluzione. Altrimenti, la rivoluzione rimane nei gesti e
nei programmi e non è opera di questa coscienza moderna riformata
"(ibidem). Qui i termini sono quelli chiaramente gramsciani e indicano
la possibilità di un primato che non cade dal cielo e che si
riconquista giorno dopo giorno con la costanza del lavoro e della
fatica. Il personaggio che meglio incarna questo primato nella sintesi
di popolarità e aristocraticità è Giustino Fortunato: "La sua figura mi
si affaccia insistente come a ricordarmi la grande parte che egli ha
avuto nel risveglio iniziale delle terre del Mezzogiono. Villari,
Sonnino, Franchetti, Salvemini, Croce, tutti erano benemeriti di questo
risveglio del Mezzogiorno, ma mi affezionai particolarmente al
meridionalismo di Giustino Fortunato [...] Egli era un maestro anche per
noi letterati, non solo perché aveva vivissimo il gusto letterario, ed
era prosatore ricco di pathos e pur molto contenuto, ma perché ci
ribadiva l'idea che senza politica non era possibile nemmeno fare della
letteratura"(ibidem, pp.263-264).
Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com