"Io penso che la vita è una molto triste
buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché
né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la
spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa
per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.
Chi ha capito il giuoco, non riesce
più a ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più
prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. La mia arte è piena di
compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa
compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del
destino, che condanna l'uomo all'inganno. Questa, in succinto, la
ragione dell'amarezza della mia arte, e anche della mia vita". (
Lettera autobiografica, stesa da P. nel 1912 per fornire alcune
notizie sulla propria vita).
Pirandello sentì sempre dentro di sé, quasi come
consustanziale al proprio essere, la disarmonia; la poetica
dell'umorismo, "la cui
particolarità è veramente tutta nel tono, nelle variazioni
capricciose del motivo sentimentale, nella riflessione che contrasta al
sentimento, o meglio, in cui il sentimento si smorza", è già
presente, prima ancora che Pirandello la teorizzi ,nelle sue
poesie.
Certo, la fama di Pirandello è legata alla sua opera di
novelliere, romanziere e drammaturgo più che ai versi di Mal
giocondo, di Zampogna, e Fuori di chiave, tanto per citare solo le
raccolte più significative.
Ma credo che al Nostro non dispiaccia ricordarlo in primis come poeta,
se è vero che alla poesia egli volle affidare i suoi esordi
letterari, i suoi sogni e le illusioni giovanili, le sue ire, le
sue ansie, i suoi bizzarri umori, le sue malinconie e le sue battaglie
contro gli uomini e le "lor picciole cose" - come direbbe
Carducci -, la sua amara allegria, il suo umorismo acre e
dissacratorio. E se con la poesia l'amorosa corrispondenza non poté
durare più a lungo, la colpa non fu certo di Pirandello, ma del
suo tempo "scientifico" e "positivo", così poco incline alla ideale
armonia del canto; la colpa fu delle dure necessità della vita che, ben
presto, spogliata di ogni illusorio velo, prosaica e nuda si mostrò a
Pirandello, e dissonante tanto, da non potere più essere assorbita
totalmente per sola magia di sillabe e di suoni. Del resto, una cosa è
accertata: che la poesia non solo fu il suo primo amore, e mai
del tutto dimenticato, ma addirittura il figlio Stefano
testimonia che ancora negli ultimi anni di vita suo padre, Luigi,
pensava ad una riedizione antologica delle proprie liriche migliori; e
avrebbe voluto "ritornare là
donde era partito giovinetto, e concludere come aveva cominciato: da
poeta".
In realtà, l'universo poetico di Pirandello si offre come
un vasto semenzaio, un serbatoio di temi e di spunti formali, da
cui sempre, poi, lo scrittore attingerà per fare un'operazione
cosciente e volontaria di riattivazione di complesse catene di segni,
reinserendole in testi di volta in volta diversi,
ricontestualizzandole. E' questo - come è stato giustamente
sottolineato - il cosiddetto "fenomeno d'eco" della autocitazione
che attraversa tutta l'opera pirandelliana, stringendo relazioni
intertestuali non solo fra scritti d'epoca notevolmente diversa, ma
anche fra testi appartenenti a generi assolutamente distinti e
fortemente divaricati.
Mal giocondo, finanche nel
titolo, nella figura retorica dell'ossimoro, riflette il disagio e il
disorientamento e la dissonanza del tempo che fu di Pirandello.
Scrive il Nostro in una lettera del 1924: "Il mio primo libro fu una raccolta di
versi, Mal giocondo....Lo noto, perché han voluto dire che il mio
umorismo è provenuto dal mio soggiorno in Germania (1889; e non è vero:
in quella prima raccolta di versi più della metà sono del più schietto
umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l'umorismo..."
In Zampogna (1901) e,
soprattutto, poi, in Fuori di chiave(1912), l'io
problematico, e disarmonico, fa la sua comparsa per attuare un progetto
radicalmente nuovo di poesia, pienamente novecentesco, se è vero quello
che scrive S. Ramat "essere la poesia
novecentesca un'ipotesi di poesia come mondo prioritario, aurorale, che
dovrà conquistarsi una vitalità attraverso la coscienza della propria
crisi perpetua, dunque attraverso la stessa coscienza critica che
intanto impone si riparta da zero".
In queste due raccolte di versi, si può dire, parafrasando Montale, che Pirandello abbia "torto il collo alla eloquenza della nostra
vecchia lingua aulica, magari a rischio di una contro eloquenza".
In Zampogna c'è già un tentativo di "sliricamento" che si muove
nella prospettiva di un senso novecentesco della poesia, di un senso
cioè consapevolmente critico, umoristico, disarmonico di guardare le
cose, che non consente più facili e pacifiche comunioni con la Natura.
La minuta osservazione della realtà, preludiano in Zampogna ai toni
propri della poesia crepuscolare, dove è forte il compiacimento
della rinuncia al lusso (verbale) dannunziano, nonché la distanza
dalla vibratilità" del sentire "fanciullo" del Pascoli.
Pirandello si
muove in direzione della "dissolennizzazione" della poesia, verso
la colloquialità ironica e scherzosa alla Palazzeschi!
Per non dire che la sua 'inquietudine esistenziale" ci richiama a
quella di Svevo, per esempio!
In Preludio: orchestrale,
poesia d'apertura della raccolta Fuori
di chiave, al suono del
"violin trillante" faceva già da contro canto "il
rauco ammonimento" del contrabbasso. Il "frigido fiato dell'orchestra"
sembra definitivamente orma ribadire l'estraneità del poeta alla
disposizione lirica.
In Comiato, lirica
conclusiva della medesima raccolta, l'autoironia sul proprio passato di
poeta, che ha" svenduto le sue nuvole", diviene definitivo
proposito di silenzio, programma di cantare in persona d'altri, dopo la
estrema consunzione dell'io lirico:
...
Io che mi sono senza cuor ridotto,
d'ora innanzi, ti giuro, starò muto;
questo, ti giuro, è l'ultimo saluto..
E' quel "silenzio di cosa" di
Serafino Gubbio operatore, quel silenzio che prelude ormai al
passaggio quasi obbligato al teatro; obbligato nella misura in cui la "densa sostanza di pensiero e sentimento",
che sono alla base della concezione tragico-umoristica di Pirandello,
non poteva più essere espressa attraverso il vincolo della
versificazione.
Nuccio Palumbo
antonino11palumbo@gmail.com