Con il linguaggio comunichiamo, pensiamo, ci esprimiamo, ci orientiamo, ci facciamo riconoscere e riconosciamo l’altro, e gli altri. La lingua ci fa “essere”, ci dà identità, ci rende liberi. La lingua dà sostanza alla vita. E il dialetto siciliano è l’identità di un popolo, crea l’unità spirituale e culturale della comunità, produce cultura e sapere, determina condivisione del pensiero, della memoria, della tradizione, degli usi, dei costumi, delle credenze, della religione.
Perché la lingua, e il dialetto in particolare, manifesta in maniera evidente e semplice l’identità di una comunità, ne definisce i confini, le estensioni, le profondità, le attitudini e le abitudini; ne esprime i pensieri, i sentimenti, i ricordi, il modo di vivere; la lingua, più di ogni altro “elemento”, rappresenta il pathos d’un popolo; connota pienamente la comunità nazionale; segna in maniera netta, precisa, la cultura della società; ne circoscrive la sua origine, l’etnia, la storia, l’evoluzione sociale. La lingua costituisce la “bandiera” ideale e culturale di un popolo, il suo segno distintivo e di riconoscimento, marca i caratteri e ne misura la caratura, la sua propulsione a guardare al passato e al futuro, per contenere e comprendere l’evoluzione.
Come dice il linguista Tullio De Mauro, la lingua “apre le vie al con-sentire con gli altri e le altre che la parlano ed è dunque la trama della nostra vita sociale e di relazione, la trama, invisibile e forte, dell’identità di gruppo”. Può a ragione essere definita il primo, e più forte, elemento della sovranità di un popolo, perché attraverso esso vengono espressi gli istinti, i sentimenti, le impressioni, le figurazioni, i turbamenti e i ragionamenti di tutto il popolo.
I siciliani sono molto attaccati alla loro lingua, rappresentata soprattutto dalla varietà, ricchezza e bellezza delle sue parole, del suo lessico, dell’idioma tipico, del suo slang, delle inconfondibili inflessioni, e poi dalla tradizione millenarie dei suoi canti popolari, poesie, poemi, ballate, mottetti, modi di dire, miniminagghi. Il siciliano è poesia e canto, musica e melodia, armonia e musicalità. Il canto della terra siciliana è l’arte degli umili, dei “poveri di cuore”, perché impastato di fatica e virtù, di sudore e innocenza, ed esprime tutt’intero l’anima del suo popolo. Perché la poesia è da sempre anima e compagna indivisibile della cultura siciliana, ne ha cantato la vita, gli uomini e le donne, i mari e i miti, le vicende e le leggende, e gli amori aspri, passionali, sconfinati come la terra selvaggia e frastagliata di Sicilia.
Nel periodo greco-romana, la popolazione isolana parlava il greco, il latino e il punico e fino all’inizio dell’età imperiale le monete siciliane avevano iscrizioni in greco. I successivi periodi storici e le molteplici dominazioni di diverse civiltà straniere (bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, francesi, spagnoli, inglesi), attraverso i secoli, hanno influenzato e trasformato l’isola dal punto di vista politico, sociale, culturale, economico, modificando il patrimonio linguistico originario e apportando tutta una serie di stratificazioni linguistiche che hanno determinato la nascita dell’attuale dialetto siciliano, dandogli la dignità di lingua. Ma è con la cultura e la tradizione scritta della poesia della “Scuola siciliana” di Jacopo da Lentini, Cielo D’Alcamo, Rinaldo D’Aquino, Pier delle Vigne e di altri poeti, del XIV secolo, che la lingua siciliana acquisisce un linguaggio “autonomo”, compiuto, codificato, poetico, che ne ha determinato un forte legame identitario e culturale. Possiamo dire che il siciliano, prima ancora del toscano e di altri idiomi italici, ha espresso il primo tentativo compiuto di lingua nazionale italiana.
E il siciliano può essere considerata una vera e propria lingua poetica, elegante, raffinata, di grande impatto artistico e di grande musicalità, che può “narrare” anche con singoli termini interi ragionamenti e pensieri di grande profondità. Il siciliano è poesia, perché anche con un solo vocabolo può esprimere sentimenti e passioni, può far parlare il cuore e l’anima, la ragione e gli affetti. Inoltre la stessa parola utilizzata in diversi contesti linguistici o in relazione a differenti frase, alla circostanza, o addirittura con differente pronuncia, inflessione, intonazione, può assumere significati contrastanti, a secondo del caso, con valenza positiva o negativa, sia dal punto di vista personale, psicologico, morale, caratteriale, che pubblico, sociale (esempio: matelica, tintu, o lo stesso termine mafiusu). Perfino parole colorite, “intercalari” (famosi in tutto il mondo) o vocaboli sconci d’uso corrente nella parlata siciliana, in base all’intonazione possono prendere significati completamente differenti, e non sempre negativi o offensivi, legati agli stati d’animi, alla morale, all’ambiente.
Le innumerevoli influenze linguistiche e culturale derivate dalle diversi dominazioni, evidenti anche ai giorni nostri, hanno originato ben cinque stratificazioni linguistiche, le più importanti delle quali possono essere classificate: la greco-classica, la greco-bizantina, l’araba, la franco-latina del periodo normanno, e la catalano-castigliana del periodo aragonese-spagnolo; inoltre, talune stratificazioni minori, come il francese moderno e l’anglosassone, fino ad arrivare agli americanismi, importati in Sicilia dalle truppe di occupazione nel periodo 1943-1945. Inoltre, i dialetti siciliani si possono dividere in tre macrozone: siciliano occidentale (diviso tra area palermitana, trapanese e agrigentina); siciliano centrale (diviso tra le aree nisseno-ennese, agrigentina orientale e delle Madonie); e siciliano orientale (diviso in tre macroaree: catanese, siracusano, messinese).
Alcune influenze del greco-classico sono ancora evidente nel linguaggio attuale, per esempio nell’uso che i siciliani fanno del passato remoto invece che del passato prossimo, per indicare un fatto recentemente accaduto (glielo dissi, invece di gliel’ho detto), o per alcuni vocaboli come naca (naka, culla), cannata (anfora), taddarita (pipistrello). Inoltre, nel corso della sua millenaria storia la Sicilia è stata anche oggetto di immigrazione di alcune popolazioni per disparati motivi: economici, lavorativi, politici, così, in determinate aree della Trinacria si giustificano le isole linguistiche, come Aidone, Nicosia, Piazza Armerina che conservano il loro tipico dialetto gallo-italico, o quelle che conservano forti tracce di linguaggio settentrionale, come Bronte e Randazzo, dovuto alle immigrazioni di notevoli masse di persone che dall’Italia settentrionale si spostarono in Sicilia nei secoli XI-XIII, sia come soldati con le loro famiglie, sia come coloni, che desideravano abbandonare le terre del Nord, travagliate dalle lotte comunali, per lavorare in tutta tranquillità nei campi fertili della Sicilia. Altre piccole isole linguistiche si formarono in Sicilia nel Quindicesimo secolo, quando gli albanesi abbandonarono la patria per non sottostare alla dominazione dei turchi, come a Biancavilla (CT) o a Piana degli Albanesi (PA).
L’influenza greco-bizantina è soprattutto notevole nei toponimi, come nel caso di Adrano che per secoli è stato Adernò. L’influsso arabo è chiarissimo anche in un numero notevole di toponimi, come: sciarra, modificato in alcune aree in scerra (rissa) da “sciarrah”; favara (sorgente) da “favarah”; giarra (giara) da “giarrah”; mischìnu (miskin) e tanti altri. Numerosi sono gli influssi castigliano-catalani del periodo aragonese e spagnolo. Per influsso catalano si hanno i termini abbuccari (versare), attrassari (attardarsi), accanzari (conseguire), e tanti altri. L’influenza del castigliano porta le espressioni truppicari (inciampare), scupetta (fucile), taccia (bulletta). Quanto agli influssi più recenti, i mercenari tedeschi delle truppe spagnole e borboniche che imperversarono in Sicilia dal XVI al XIX secolo hanno lasciato la loro tipica negazione nixi (da “nichts”). Il francese moderno ha dato al linguaggio siciliano molte parole d’uso comune, tra le quali, lammuarru (armadio), buffetta (tavolino), tabbaré (vassoio), sciaffurru (chauffeur - autista), tirabusciò (cavatappi), tutti termini legati al confort della società abbiente, dal Settecento in poi. Gli inglesi hanno lasciato un ricordo della loro permanenza in Sicilia nel periodo napoleonico, influenzando anche la formazione del superlativo degli aggettivi (in sicilia bellissimo si dice veru bellu); fino ad arrivare ai recentissimi influssi americani, come giobba (posto di lavoro), importati dai siciliani emigrati e poi tornati in patria.
Il siciliano non parla al futuro, cioè non coniuga i verbi al futuro che sarà. Nel dialetto siciliano manca il tempo futuro dei verbi e ogni espressione riguardante un’azione futura viene costruita al passato o al presente e il verbo si fa precedere da un avverbio di tempo (esempio: dumani vegnu, appoi ni videmu). Questa peculiarità del siciliano può essere compresa e spiegata solamente con la cultura e il modo di essere, di pensare e di vivere dei siciliani. E’ la consapevolezza storica dell’esserci sempre, di esserci da sempre, di vivere e di amare l’eternità della vita, ora per ieri, per domani e per sempre, “hic et nunc”. I siciliani sono padroni del tempo, “sono dei”, come diceva il principe Salina, nel Gattopardo. “Ma essere (o ritenere di essere) padroni del tempo può voler dire dominare mentalmente la vita e la morte, avere la certezza della propria intangibilità solo nel presente, un presente che si appropria del tempo futuro per scongiurare la morte, ombra ineliminabile dell’esserci”. Essere e divenire, evoluzione e trasformazione si fondono e si confondono.
Per il siciliano ciò che conta è ora, ciò che dà senso alla vita è il presente.
Un’altra caratteristica significativa del siciliano è la ripetizione di sostantivi (esempio: casi casi, strati strati) e di verbo (esempio: cu veni veni, unni vaju vaju, comu sugnu sugnu); strati strati, indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, indefinito. L’idea di “estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. “Cui veni veni” intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea, estendendola dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente. Significativo nella lingua parlata è anche l’uso di raddoppiare o di ripetere un avverbio (esempio: ora ora, rantu rantu), o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu, picca picca, sicca sicca, ranni ranni) comporta di fatto due tipi di superlativo: “ora ora” è più forte di ora e significa nel momento, nell’istante in cui si parla, “nudu nudu” è tutto nudo, assolutamente nudo.
Altra regola è per il verbo ausiliario: Come del resto è avvenuto in altre lingue, il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le funzioni di verbo ausiliare. Per cui diciamo “aju statu, aviti statu”.
O per il superlativo: Diversamente a quanto accade nell’Italiano, la forma più frequente in Siciliano per rendere il superlativo è quella di far precedere l’aggettivo dall’avverbio “veru”. Sono altresì usati gli avverbi “assai” “troppu”: veru tintu, troppu beddu, troppu ‘ranni, ecc.
Da sottolineare, un’ulteriore peculiarità della lingua siciliana, legata al Latino, è costituita dalla perifrastica passiva (giro di parole, circonlocuzione ), cambiando il verbo Essere in Avere (esempio: in Italiano, io debbo fare, diventa “aju a fari”). E inoltre, il ripiegamento il tempo della coniugazione del verbo dal Passato Prossimo in favore del passato remoto (ad esempio, chi dicisti?, mi manciai ‘na persica), e del modo, dal condizionale al congiuntivo (ad esempio, si lu putissi fari lu facissi, ci vulissi jiri).
Tutto questo è un po’ della nostra lingua siciliana. Solo un po’.
Angelo Battiato
“Lu sai pirchì iu l’amu lu dialettu
la matri lingua d”u me paisi?
Pirchì mi la nzignaru senza spisi
e senza sforzu d”u me ntillettu;
pirchì non ci nni levu e non ci nni mettu,
ca lu so meli, cu’ fu, ci lu misi;
pirchì è onesta, tennira e curtisi
e quannu canta attenta a lu me pettu.
L’amu pirchì ci sentu dintra la vuci
di tutti li me’ nanni e li nannavi
di tutti li me’ vivi e li me’ morti;
l’amu pirchi’ mi fa gridari forti:
"Biddizzi chiù di tia non c’e’ cu’ nn’avi,
terra fistanti mia, cori me duci!"
(Vincenzo De Simone, poeta siciliano dell’Ottocento)
la matri lingua d”u me paisi?
Pirchì mi la nzignaru senza spisi
e senza sforzu d”u me ntillettu;
pirchì non ci nni levu e non ci nni mettu,
ca lu so meli, cu’ fu, ci lu misi;
pirchì è onesta, tennira e curtisi
e quannu canta attenta a lu me pettu.
L’amu pirchì ci sentu dintra la vuci
di tutti li me’ nanni e li nannavi
di tutti li me’ vivi e li me’ morti;
l’amu pirchi’ mi fa gridari forti:
"Biddizzi chiù di tia non c’e’ cu’ nn’avi,
terra fistanti mia, cori me duci!"
(Vincenzo De Simone, poeta siciliano dell’Ottocento)