Chi svolgerà la valutazione degli istituti?
L’ultimo “dilemma” della Gelmini
Luisa Ribolzi, il Sussidiario 4.11.2009
Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i richiami all’importanza della valutazione: esiste un apposito ente preposto alla valutazione, l’Invalsi, il cui decollo stenta ad avviarsi, esistono molte proposte, ma in pratica siamo sempre al palo. Tra i motivi addotti per la resistenza, ho trovato spesso il riferimento alla inadeguatezza dei valutatori. Che questa sia una carenza grave del nostro sistema educativo è evidente, tanto che siamo praticamente assenti sia nella ricerca sia nell’accademia, anche se nel nostro sistema esistono da centocinquant’anni gli ispettori scolastici, istituiti dalla legge Casati del 1859. La loro figura, oggi marginale, si è variamente evoluta fino al riconoscimento, con i decreti delegati del 1974, di un ruolo fondamentale per la formazione e l’aggiornamento, la ricerca, la sperimentazione, e infine gli “accertamenti tecnico-didattici”: di fatto, quest’ultima funzione è diventata dominante, ma in modo riduttivo, come un momento punitivo cui ricorrere quando tutte le altre misure erano fallite (e, di solito, i genitori erano in assetto di battaglia).
A poco a poco, il numero degli ispettori è calato fino a circa un terzo dell’organico previsto, e si è diffusa una percezione di inutilità, con la conseguenza paradossale che l’Italia è diventata l’unico paese europeo privo di un corpo ispettivo in grado di utilizzare la valutazione per incrementare il miglioramento e non solo per reprimere le distorsioni: e questo in un momento in cui l’introduzione dell’autonomia richiedeva in modo massiccio una funzione di monitoraggio intelligente. Come esempio della centralità della loro funzione cito l’Inghilterra, dove sono stati istituiti nel 1840 come HMI, Her Majesty Inspectors (e hanno conservato il nome anche se ora lavorano in un’agenzia indipendente, l’OFSTED) e dove è sempre stata chiara, come recita il sito, «la relazione fra funzione ispettiva e miglioramento dell’istruzione».
Dopo anni di incertezza, è stato bandito nel marzo del 2008 un concorso per il reclutamento di 145 “dirigenti tecnici” presso il Ministero della Funzione Pubblica, per raggiungere un organico fissato in 379 unità: essi sono definiti come «dirigenti investiti dell’esercizio della funzione tecnica ispettiva», il che, tenuto conto che le scuole erano nel 2008/2009 10749, e ammettendo che nessuno fosse assegnato a compiti speciali, assegnerebbe ad ogni ispettore il monitoraggio su 28 scuole, a ciascuna delle quali potrebbe dedicare otto giorni, ma senza fare assolutamente niente altro, anche se l’articolo primo del bando recita che essi sono assegnati «all’amministrazione centrale e periferica del Ministero al fine di concorrere alle finalità di istruzione e di formazione, affidate alle istituzioni scolastiche ed educative, oltre all’attività di studio di ricerca e di consulenza tecnica per il Ministero e i Direttori Generali».
Sulla carta, tutto bene. Nel fatti, assai meno. Tanto per cominciare, il concorso ha avuto non poche traversie: la data della preselezione è stata spostata tre volte, per eccesso di domande, ed è stata effettuata nel settembre scorso. Da questa prova (una serie di quesiti a risposta multipla) verranno selezionati 1.450 candidati, cioè dieci per ogni posto messo a concorso (45 per la scuola dell’infanzia e primaria, 100 per la scuola secondaria divisi nei vari settori).
Ma il problema vero nasce quando andiamo a vedere quali competenze sono richieste ai nostri aspiranti ispettori: le tre prove scritte vertono su temi organizzativi, di ordinamento degli studi e relativi agli insegnamenti impartiti nello specifico grado di scuola o nei settori cui il concorso di riferisce. Fra i temi del colloquio, di cui vi faccio grazia, non c’è un solo riferimento a un qualche argomento riguardante metodologie e processi educativi, non parliamo poi metodologie e processi di valutazione. Il legislatore ha in mente un profilo professionale del tutto obsoleto, in cui prevale il diritto, in quanto nella scuola per autonomia contava solo la conformità alle norme, e non la capacità di rispondere alla domanda di formazione della società civile in ogni sua articolazione.Come colmare le eventuali, ma prevedibilissime lacune? Semplice, lo dichiara l’art. 8: «i vincitori sono tenuti a frequentare attività formative secondo le disposizioni vigenti».
Se le cose stanno così, e pur con la massima fiducia in una sorte benevola che porti alla vittoria persone estremamente capaci, chi controllerà i processi educativi che hanno in corso riforme di grande respiro quali quella degli istituti tecnici o della formazione dei docenti? Chi valuterà, ammesso mai che ci si arrivi, dirigenti e docenti? Chi svilupperà una riflessione sistematica sull’autonomia? Le domande retoriche sono mediamente poco costruttive, per cui mi fermo qui: ma l’ipotesi di ricorrere ad enti terzi che utilizzano professionisti qualificati, magari con la supervisione dei dirigenti tecnici, mi sembrerebbe più realistica. Altrimenti, sarà gioco facile dire che la valutazione non si può fare, e restare ancora una volta la ruota di scorta dei sistemi scolastici europei.