Il termine mobbing è ormai entrato in largo uso nell'ambito dei
rapporti di lavoro e sebbene non esista ancora in Italia una
regolamentazione normativa del fenomeno, è ormai entrato a far parte
della disciplina giuslavoristica.
Con questo termine, che prende spunto dal verbo inglese to mob che
viene usato in etologia per indicare l'atteggiamento aggressivo del
capo branco verso i soggetti più deboli, viene designato tutto
l'insieme di quegli atteggiamenti ostili messi in atto dal datore di
lavoro o dagli stessi colleghi in modo specifico e duraturo verso un
particolare dipendente allo scopo di liberarsene o di isolarlo.
Benchè l'ostilità assuma un ruolo prevalentemente di ordine
psicologico, gli effetti sul lavoratore mobbizzato si possono
classificare sia in ordine del danno biologico ( in violazione del
diritto soggettivo alla salute ai sensi dell'art. 32 Costituzione, come
integrità psicofisica) sia come danno morale ( il pretium doloris,come
stato di sofferenza acuta interiore del soggetto) sia, infine, come
danno esistenziale e patrimoniale; in quest'ultimo caso quando il
soggetto subisce un demansionamento o è indotto a trasferirsi in sedi
più disagiate e lontane.
Il responsabile del mobbing è sempre il datore di lavoro, anche quando
non sia lui la causa diretta ma altri, poichè uno dei doveri principali
del datore di lavoro è controllare attivamente che non avvengano danni
ingiusti nei confronti di nessuno.
La tutela del lavoratore mobbizzato può avvenire attraverso due canali
giurisprudenziali: attraverso l'art. 2087 CC o attraverso l'art. 2043
CC.
Nel primo caso, che ha un valore soprattutto di tipo contrattuale, il
lavoratore che subisce il mobbing deve solo dimostrare il fatto
illecito, soprattutto attraverso prove documentali che in questo caso
sono più attendibili di mere prove testimoniali facilmente
manipolabili.
E' il datore di lavoro, in questo caso, a dover dimostrare che la
violazione degli obblighi contrattuali non è dipesa da da causa a lui
imputabile ( art. 1218 CC) il lavoratore non deve provare la colpa o il
dolo del datore di lavoro ma è quest'ultimo a dover sostenere l'onere
liberatorio. Invece se viene invocato l'art. 2043 CC il dipendente deve
dimostrare la condotta illecita. L'onere probatorio è qui a suo carico
ed è, ovviamente, più gravoso.
Di ben altra natura è invece il mobbing rivolto verso un soggetto
sindacale, ad esempio una RSU d'istituto.
In questo caso l'atteggiamento ostile assume una connotazione anche più
grave, sanzionabile ai sensi dell'art.28 legge 300/70.
Il ruolo della RSU, infatti, non può essere sempre di passiva
accondiscendenza verso il capo, atteggiamento che forse connota per
timore o per arrivismo ben altri lavoratori.
La RSU, che ricordiamo, viene democraticamente e liberamente eletta dai
propri colleghi, assolve il suo mandato che è quello di tutelare i
diritti di tutti i lavoratori ai sensi dell'art. 39 Costituzione. Essa
si pone a livello paritario, a livello di contrattazione integrativa
d'istituto, con il datore di lavoro.
In presenza di gravi violazioni contrattuali non può far finta di nulla
, come forse qualcuno completamente ignorante delle più elementari
nozioni di diritto può ritenere, magari per non far "arrabbiare"il
capo, per il semplice motivo che ciò lo renderebbe corresponsabile,
sotto il profilo civile e penale, degli stessi illeciti che finge
d'ignorare.
In generale, un datore di lavoro onesto, che non nasconde scheletri
nell'armadio, non ricorre al mobbing o ad altri meschini mezzi
diffamatori per liberarsi o perseguitare un proprio dipendente.
Se un dipendente è in qualche modo inadempiente va sanzionato secondo
le leggi. Se non è sanzionabile significa che in nulla si è reso
colpevole di fronte allla legge e quindi i motivi dell'atto
denigratorio nei suoi confronti nascondono ben altre verità.
E' risaputo, infatti, che per chi vìola la legge, chi gli impone invece
di rispettarla è naturalmente fastidioso.
Come , del resto, agli occhi del ladro, il poliziotto è sempre un
piantagrane.