Le riforme, a lungo
andare, stancano quanto le non riforme, specie se sono improvvisate o
frutto di mediazioni estenuate o, ancora, a tutela di interessi
parziali. E quelle dei sistemi d'istruzione, che si sono rincorse nel
tempo, rischiano di essere ricordate, al più, come occasioni perdute
proprio nel loro farsi ostinato.
Uno dei punti rilevanti dell'insuccesso è la perdurante asimmetria tra
il prodotto formativo, ridotto a oggetto di interventi "istruttivi" e
destinatario di una serie di conoscenze più o meno standardizzate, e la
crescente deformazione attiva del mercato delle professioni di sbocco,
con l'emergere di profili di bisogni articolati, in mutazione continua.
Ciò che emerge è una sistematica sottovalutazione del problema centrale
nella preparazione dello studente al suo futuro lavorativo: che tipo di
"testa" gli servirà, nel tempo, per misurarsi con questa mobilità di
prospettive occupazionali che lo sfiderà senza
tregua.
La "flessibilità", tanto evocata come petizione salvifica
per esorcizzare la precarietà, è, in realtà, un problema culturale, di
modelli di lettura e interpretazione dei fenomeni da affrontare, prima
che una pratica comportamentale di resa all'inevitabile. Una "testa ben
fatta", dunque: esige dei maestri che "quella testa" sappiano aiutare a
costruirla, rimettendo in discussione uno schema didattico fondato su
rigidità disciplinari quasi incomprensibili e su processi di
"assemblaggio" di conoscenze spesso astratte.
Su questi temi le riforme dicono poco. La sensazione fastidiosa è che,
ancora una volta, tutto finisca per risolversi in un regolamento
interno dei conti in sospeso, facendo leva su indirizzi ministeriali un
po' confusi, limitando l'innovazione a un cambio di etichette e di
nomenclature. Manca, in molti casi, una tensione progettuale per fare
delle condizioni oggettive di cambiamento nel mondo dell'economia,
negli assetti mondiali dei mercati, nella competizione su saperi e
pratiche, l'occasione per ridiscutere un modello che stenta a tenere il
passo del nuovo.
Andrebbe rivista la sensatezza di certe impostazioni accademiche e di
governance, al di là delle timide aperture – per altro contestate –
all'esterno; la validità di certi saperi curricolari; la stessa
plausibilità di una costruzione dei corsi di laurea in cui i titolari
stessi delle conoscenze da trasmettere, del mercato reale in cui gli
studenti dovranno necessariamente finire, poco o nulla sanno
personalmente. La "separatezza" perdurante, è molto più di una
occasione mancata; a lungo andare abilita alla delegittimazione del
valore di un certo sistema di istruzione e dei suoi interpreti. Se
guardiamo alle critiche ricorrenti dello schema universitario del 3+2,
sarà difficile uscire dall'empasse che si è creato, con l'impressione
ragionevole di duplicità e perdita di tempo. I due anni finali del
percorso di studio prima della laurea hanno senso solo se virati
direttamente a ciò che serve allo studente per orientarsi e scegliere
la sua collocazione lavorativa.
E questo comporta una diversa competenza anche dell'accademia. Non è
sufficiente trasmettere conoscenze e strumenti concettuali; bisogna
creare condizioni per sperimentare la loro applicazione, e avere, per
esempio, consapevolezza dei contesti in cui si andranno ad applicare,
sapendo che i climi, i valori, le criticità operative, i sistemi
relazionali, la lettura dei segnali deboli, avranno spesso lo stesso
peso, e forse anche maggiore, della stessa preparazione teorica. Per
arrivare a questo, l'intreccio tra interno e esterno dell'università va
forzato inevitabilmente, rendendo il più possibile porosi i loro
confini, oggi ancora così ferocemente presidiati in nome di una
autonomia e di una sacralità della professione accademica che oggi non
ha più ragione di porsi nelle forme tradizionali.
E qui viene bene presentare una proposta che potrà apparire bizzarra:
lo stage. Non è affatto detto che debba solo essere strumento di
ambientamento al lavoro per gli studenti. Anche per i professori
dovrebbe essere previsto ogni tanti anni – cinque? – un periodo di sei
mesi di permanenza in contesti lavorativi esterni che non abbia
semplicemente una valenza di studio o di ricerca. Un sabbatico di nuovo
tipo, che li metta nelle condizioni migliori per capire direttamente
come sta cambiando il mondo del lavoro, rendendosi conto di cosa serve
di diverso, di più appropriato, o semplicemente di contorno e di
supporto, per rendere il loro insegnamento all'altezza delle sfide che
attendono i loro allievi.
Tenuto conto delle ore di impegno didattico dei professori, e anche
considerando un auspicabile più robusto impegno nella ricerca, sei mesi
in azienda o in istituzioni simili, non scardinerebbe certo la vita
universitaria. Un semestre così non dovrebbe essere negato a nessuno.
Gli studenti se ne avvantaggerebbero certamente. Ma, a pensarci bene,
anche le aziende ne trarrebbero giovamento. (di Pier Luigi
Celli da IlSole24Ore)
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