Il valore legale
del titolo di studio fa sì che ogni laurea conferita da una qualsiasi
delle ottanta università italiane abbia lo stesso peso nel mercato
degli impieghi pubblici. Così gli atenei hanno scarsi incentivi a
scegliere docenti preparati; i laureati bravi sono intercettati dal
settore privato; le risorse delle famiglie premiano i servizi formativi
scadenti. Problemi che si potrebbero superare se l'amministrazione
pubblica valutasse le lauree sulla base di un ranking delle università
di provenienza dei candidati. Come vorrebbe una proposta in discussione
nel governo.
Nel governo Monti si sta discutendo una riforma dell’università che
potrebbe avere effetti assai più rilevanti di tutte quelle succedutesi
negli ultimi venti anni. Quattro sarebbero le questioni in discussione:
- eliminazione del vincolo del tipo di studio per l’accesso ai concorsi
pubblici
- eliminazione del valore del voto di laurea nei concorsi pubblici
- valutazione differenziata della laurea a seconda della qualità della
facoltà/università di provenienza
- eliminazione o riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici
LE PROPOSTE
La
prima proposta è positiva perché ammettere ai concorsi per la dirigenza
pubblica lauree in storia, o arte o lettere, eccetera, accanto alle
tradizionali di giurisprudenza, scienze politiche o economia consente
di immettere saperi utili e diversificati che arricchirebbero il
sistema pubblico. La riforma però non potrebbe coinvolgere l’accesso a
professioni per le quali uno specifico sapere tecnico è
imprescindibile, come ad esempio quelle di ingegnere, medico o
avvocato, che richiedono lauree non fungibili con altre.
La seconda, diretta ad eliminare il valore del voto di laurea nei
concorsi pubblici, non convince interamente. Per un verso, curerebbe il
vizio di alcuni atenei o facoltà di valutare generosamente i propri
studenti, “regalando” voti alti e lodi non corrispondenti alla
effettiva preparazione. Tuttavia, l’eliminazione del valore del voto
rischia di disincentivare gli studenti a migliorare la loro
preparazione: se non c’è differenza tra 90/110 e 110/110 perché
sforzarsi di raggiungere l’eccellenza? E cancella un dato, forse non
sempre preciso, ma utile per il possibile datore di lavoro: una laurea
presa con 90/110 e una con 110/110 segnalano una differenza netta di
preparazione degli studenti interessati, in qualunque università.
La terza proposta, che consiste nel “pesare” in maniera diversa le
lauree a seconda dell’università/facoltà di provenienza, è quella che
promette i mutamenti più radicali e positivi.
IL PESO DELL'UNIVERSITÀ
Oggi, in base al valore legale del titolo di studio, ogni laurea
conferita da una qualsiasi delle circa ottanta università italiane ha
lo stesso peso nel mercato degli impieghi pubblici: un giovane laureato
in medicina in un’università che gli ha insegnato poco o nulla “vale”,
per un possibile datore di lavoro pubblico, esattamente quanto un
giovane medico laureato in un’università severa che lo ha ben preparato
alla professione. Una Asl che volesse giudicare i due giovani dottori
ai fini dell’assunzione non potrebbe privilegiare la laurea formativa a
discapito di quella scadente. Dovrebbe trattare i due come se avessero
lo stessa identica formazione e lo stesso sapere.
Questa ingessatura del mercato ha almeno tre effetti gravemente
negativi.
1) Le università hanno scarsi incentivi a scegliere docenti bravi e
ricercatori impegnati. Sia che la lezione la tenga il figlio/a o
l’amico/a del barone locale, sia che la tenga un futuro premio Nobel,
la laurea vale sempre lo stesso. Perché dunque cercare di reclutare il
futuro premio Nobel?
2) Mentre il settore pubblico non può distinguere tra lauree,
quello privato lo può fare, almeno in parte, basandosi sui diversi
ranking oggi disponibili. Ciò implica che, ad esempio, la clinica
privata, diversamente dalla Asl, può scegliere di assumere un dottore
che viene da un’ottima facoltà di medicina, scartando liberamente
quello che viene da una facoltà non selettiva, anche se ha un voto di
laurea più alto. In tal modo, si innesta un meccanismo perverso per cui
i laureati bravi sono intercettati dal settore privato, mentre quelli
scadenti sono lasciati al pubblico.
3) Dato che ogni laurea, ovunque ottenuta, vale lo stesso sul
mercato (almeno su quello pubblico), molte famiglie non selezionano le
università in base alla loro qualità, anzi sono tentate di iscrivere i
loro ragazzi dove i corsi sono più facili e voti dati con più
generosità. Questo significa che le risorse private ‘premiano’ i
servizi formativi scadenti invece che quelli di valore.
Come si potrebbero pesare in modo diverso le lauree? Stabilita una
graduatoria di atenei riconosciuta, ad esempio quella dell’Anvur,
l’amministrazione che cerca un laureato deve valutare in maniera
diversa le lauree a seconda del ranking dell’università di provenienza
dei candidati. L’Asl che bandisce un concorso attribuirà allora un
certo punteggio (ad esempio, 100) alla laurea dell’università/facoltà
X, prima nel ranking di riferimento, e un punteggio inferiore (ad
esempio, 90) alla laurea dell’università/facoltà Y, seconda nello
stesso ranking, e così via a scalare. La regola dovrebbe essere la più
semplice e meno burocratica possibile. Ogni amministrazione dovrebbe
poter attribuire a ciascuna università/facoltà il punteggio che vuole;
si chiede semplicemente di rispettare la posizione del ranking e dunque
chi precede deve necessariamente avere un punteggio superiore di chi
segue.
Il “peso” dell’università diverrebbe così uno tra gli elementi da
prendere in considerazione nella valutazione dei candidati, insieme al
voto di laurea conseguito (e alla prova di ammissione/idoneità).
Nell’ottica della riduzione al minimo delle regole burocratiche,
l’amministrazione che bandisce il posto dovrebbe avere sempre la
libertà di scegliere in quale misura tener conto del fattore costituito
dal ranking dell’università di provenienza, di quello del voto di
laurea, o di quello all’esame di ammissione (o altro). Ma, quale che
sia il peso che l’amministrazione vorrà attribuirgli, il ranking
dell’università inciderebbe comunque in senso positivo sulla
correttezza e precisione della valutazione complessiva dei candidati.
Peraltro, questa soluzione non implica la perdita di valore della
fissazione dei requisiti ministeriali necessari alle Università per
l’attribuzione di una laurea. Infatti, tutte le Università del ranking
Anvur continuerebbero ad essere legittimate ad emettere un titolo di
studio valido per l’accesso alle professioni e ai concorsi.
Semplicemente questo titolo di studio avrebbe un peso differenziato a
seconda dalle qualità (della ricerca e della didattica)
dell’Università.
Questa soluzione permetterebbe, se non di eliminare, di ridurre
fortemente tutti gli effetti negativi indicati sopra:
a) segnalerebbe alle famiglie, in maniera immediata e facilmente
comprensibile, che l’iscrizione presso una università/facoltà seria e
selettiva è un investimento pagante in termini di futura occupazione
dei figli, mentre (iscriversi a una università scadente penalizzerebbe
il figlio in maniera sistematica in tutti i concorsi pubblici e nelle
assunzioni private);
b) fornirebbe informazioni precise ai datori di lavoro, sia pubblici
che privati, sull’effettiva preparazione dei giovani che intendono
assumere, in base all’università di provenienza;
c) indurrebbe le università a cercare di migliorare i loro
servizi formativi e la ricerca, in modo da ottenere una posizione
migliore nel ranking (e dunque maggiori risorse dalle famiglie);
d) indirizzerebbe il flusso delle risorse privato (famiglie) verso le
università di qualità invece che verso quelle scadenti, ottimizzando
l’allocazione delle stesse.
Anche la quarta proposta, vale a dire l’eliminazione o la riduzione del
peso della laurea nei concorsi pubblici, è diretta a ridurre i suddetti
effetti negativi. Se la laurea non ha valore nella valutazione dei
candidati nei concorsi pubblici, tutto quello che conta è la loro
preparazione per la prova di accesso. Ciò dovrebbe indurre gli studenti
a iscriversi nelle Università/facoltà migliori e spingere le
Università/facoltà a migliorare la qualità dei loro servizi per
attrarre iscrizioni. Tuttavia, rispetto alla differenziazione del peso
del titolo, questa proposta soffre di due debolezze. Per un verso, gli
incentivi positivi sono meno certi e trasparenti: agli occhi degli
studenti e delle loro famiglie, una cosa è promettere una migliore
preparazione, altra è assicurare un punteggio superiore in tutti i
concorsi pubblici. Per l’altro, la soluzione confina tutto il peso
della valutazione dei candidati sulla prova di accesso, con il rischio
di ottenere risultati molto casuali; diversamente, mantenere un certo
spazio alla ponderazione degli esiti del percorso accademico consente
di tenere in considerazione le prove condotte su un arco di tempo lungo
e da docenti diversi, e produce pertanto risultati più precisi.
(di Pietro Manzin La Voce.info)
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