La
prodigiosità del quotidiano in un policromo ventaglio visivo.
Acquerellare l’odierno con primitivi pennelli, arditezze distillate
dall’occhio illibato di un veterano fanciullo. “Ciò che siamo è
invulnerabile”. Narrarsi narrando, denudandosi, affrancandosi
dall’artica prigionia dell’incomprensione. A principiare dal titolo,
“L’apprendimento elementare” (Edizioni Mondadori), distintamente,
emergono due spunti inerenti le liriche di Fabrizio Bernini. Uno
tematico, l’apprendimento imprescindibile, l’altro stilistico, l’ironia
capillare. Imparare, nel senso primigenio di apprendere
coll’intelletto, è tutt’altro che elementare. Il poeta anela l’apertura
di un valico, “solitudine immaginaria”, percorre a ritroso il proprio
personalissimo tratto temporale delineando, tra amarognole contentezze
e malinconiche panacee, particolari, “ho messo le dita nella poca neve
che ormai non cade da anni e mi è sembrato di bucare un corpo inutile,
come il nostro”, e luoghi dell’anima, “il tetto di casa mia è il tetto
della scuola. Visto da quassù sembra un cappello dove il sole sbatte,
scivola sugli spioventi, sgocciola nell’ombra”, distintivi di un
itinerario che diviene universale. Lo sconquasso del tempo sul filo
reciso della prevedibilità, “così diversa è la vita se il caso ti
sceglie”, ciondola, avanti indietro, sull’onda corta di fiati
orchestrati dalla dubbia clemenza del vento, “qui tutto ormai è
prospettiva”. La solitudine si specchia “sui sassi lucidi” e il dolore,
segreto come lo è “ogni posto”, fermenta “con le lacrime morse nei
denti”. Invero, “comprendere è impensabile”, ciascuno “è freccia e
bersaglio”. Giovinezza, “ti penso da questi luoghi con la schiena sul
ciliegio e l’acacia”, e senescenza, “parla ai suoi anni, messi in
ordine nelle pelle scalpellata”, l’una al cospetto dell’altra,
identiche, se non nell’esperienza, nel rovesciamento, il vecchio
“credeva alle piante e ai fiori”, il ragazzo “li avrebbe pestati quei
fiori”. In un mondo asfissiato dall’asfalto, dalla “plastica in bocca e
tra i denti”, l’autore osserva l’evidenza dell’eguaglianza di fronte al
bisogno, “come bestie, torniamo a casa di sera”, e, con essa,
l’impellenza del riparo, “tutto andrebbe conservato, così come la
memoria tiene ogni cosa senza farcelo sapere”. Pagine trasudanti,
“visione d’immenso”. L’inquietudine esistenziale, “grama battaglia
contro il feltro del cuore”. L’alienazione della reiterazione,
scordando “quello che andrò a rifare”. L’emancipazione dal dubbio, “il
mistero non c’è mai stato, non cercatelo più. Tutto sta in questa
parabola breve, ognuno sente per l’ognuno che è”. Accenti (acuti) sulla
facoltà di fantasticare. Salvifico incanto vitale, a ciascuno il
proprio “bivio di pensieri”. Immaginare “corpi dietro le pareti, fiati
a tempo dentro al sonno, le coperte tiepide, tutti i particolari di un
sogno, le vere frenesie di ogni coscienza”.
Grazia
Calanna - www.lasicilia.it