In Italia, fino al 1993, il lavoro dipendente era diviso in due mondi, soggetti ad una normativa del tutto diversa; il rapporto di lavoro:
- nel settore privato, era regolamentato dal Codice Civile, tramite cioè un contratto individuale stipulato tra datore di lavoro e lavoratore, contratto dove venivano stabilite le reciproche obbligazioni
- nel settore pubblico, era invece regolato da norme di legge, più in generale di diritto pubblico.
Con il D.Lgs 29/1993 i due mondi sono stati riunificati, il sistema privatistico è stato esteso anche al pubblico impiego, per cui oggi tutto il mondo del lavoro dipendente è soggetto alla disciplina civilistica, tranne le poche categorie che sono rimaste in regime di diritto pubblico.
Abbiamo appena detto che nel regime civilistico il rapporto di lavoro è regolamentato tramite un contratto individuale sottoscritto tra le due parti, il lavoratore e il datore di lavoro; potrebbe sembrare tutto semplice e chiaro, ma così non è.
Il concetto di “contratto” implica infatti la piena libertà e la parità delle parti contraenti, non per niente la Chiesa considera nullo un matrimonio se una delle due parti è in qualche modo costretta.
Ora, nella stipula del contratto individuale di lavoro, le parti non possono essere certo considerate alla pari, c’è una “parte forte”, il datore di lavoro, ed una "parte debole", il lavoratore; la cosa è del tutto evidente, a meno che il lavoratore non si chiami Lionel Messi o Brad Pitt.
Per riportare la situazione in equilibrio, sono state introdotte nell’ordinamento giuridico una serie di tutele normative a favore del lavoratore; la posizione del lavoratore, detta in altri termini, viene rafforzata da una serie di norme che gli permettano di stipulare il contratto individuale in una posizione di parità (o quasi…) rispetto al datore di lavoro.
Le norme di tutela sono contenute in tre tipi di fonti normative:
- La Costituzione, che fissa i principi generali di tutela del lavoratore
- Il Codice Civile, che stabilisce alcuni diritti fondamentali del lavoratore
- Le "Leggi speciali" di tutela del lavoro, che sono essenzialmente, la più importante delle quali è la Legge 300/70 (Statuto dei Lavoratori).
Ma non basta; oltre alle tutele di natura normativa, il lavoratore gode anche di un'ulteriore tutela, anche questa per esplicita previsione costituzionale, che è quella assicurata dai Contrattazione Collettiva; è chiaro che se da solo il lavoratore è debole, in forma collettiva diventa molto più forte e può quindi strappare condizioni a lui più favorevoli.
Ma in che cosa consiste concretamente la tutela del lavoratore? La tutela è assicurata da tre principi dell’ordinamento:
- nella stipula del contratto individuale, il datore di lavoro deve assicurare al singolo lavoratore un trattamento non inferiore a quanto stabilito dalle norme sopra citate e non gli può richiedere prestazioni più onerose
- le norme di tutela del lavoro sono inderogabili, non ammettono cioè eccezioni, nemmeno con il consenso dello stesso lavoratore
- le norme di tutela del lavoro hanno natura gerarchica, nel senso che quelle di livello inferiore possono solo aumentare il grado di tutela del lavoratore rispetto a quelle di livello superiore.
Un’ulteriore tutela è assicurata dal fatto che il processo del lavoro ha modalità molto più snelle e tempi più celeri di quelli ordinari del processo civile, sempre considerando che i tempi della giustizia italiana sono quelli che sono.
Finora abbiamo parlato di diritti, ma è chiaro che il lavoratore ha anche degli obblighi, che vengono definiti, come detto, nel contratto individuale; non dobbiamo inoltre dimenticare che stiamo parlando di lavoratori che sono alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, che devono perseguire le finalità del bene pubblico e dell’interesse generale, per cui questi lavoratori hanno obblighi che vanno oltre quelli dei lavoratori del settore privato.
L’aspetto dei doveri negli ultimi anni si era un po’ offuscato, fino a che il D.Lgs 150/2009 ha rimesso le cose a posto, magari andando anche un po’ oltre in direzione opposta; il decreto ha enfatizzato l’aspetto degli obblighi e dei doveri nel rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, definendo un sistema di regole e sanzioni disciplinari non tanto più pesante, quanto più cogente rispetto a quello previgente.
LA PRIVATIZZAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
La privatizzazione del rapporto di lavoro è uno dei principi ispiratori della riforma della pubblica amministrazione operata dalla Legge 421/1992 e dal conseguente d.Lgs 29/1993; la riforma è finalizzata alla razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e ad una migliore utilizzazione delle risorse umane, obiettivi da raggiungere introducendo anche per i pubblici dipendenti la disciplina privatistica del rapporto di lavoro.
L’art.2, commi 2 e 3, del D.Lgs 29/1993, oggi D.Lgs 165/2001 stabilisce che:
- i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti sono regolati dal Capo I, Titolo II, del libro V del Codice Civile e dalle Leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa
- i rapporti individuali sono regolati tramite contratto, sottoscritto dalle parti sulla base dei contratti collettivi, delle leggi e del Codice Civile.
- I contratti collettivi nella pubblica amministrazione sono stipulati secondo regole definite dalla legge e sono regolamentate dal Titolo III dello stesso Decreto.
Il rapporto di lavoro viene quindi privatizzato, almeno questa è la dicitura che comunemente si usa; sarebbe forse meglio dire che è stato “civilizzato”, è passato cioè da una normativa speciale di diritto pubblico a quella generale sottoposta al Codice Civile.
In effetti, la Legge è presente, eccome, anche nel regime civilistico, perché:
- il Codice Civile è esso stesso una legge
- a fondamento della regolamentazione del rapporto di lavoro ci sono le leggi speciali di tutela del lavoro e, soprattutto, la stessa Costituzione.
Rimane una differenza tra settore pubblico e settore privato: nel pubblico la contrattazione è regolamentata per legge, mentre nel privato tale regolamentazione non esiste, come vedremo in seguito.
Il modello privatistico non è infatti trasportabile in toto nell’ambito della pubblica amministrazione, non può cioè essere assunto un modello di puro perseguimento di interessi privati; la pubblica amministrazione infatti, per Costituzione, non può non perseguire un interesse di tipo generale, sia in senso formale che sostanziale.
Il modello di relazioni sindacali contenuto nel D.Lgs 29/1993 in effetti non è di tipo puramente privatistico-conflittuale, né di tipo cogestionale come quello tedesco: le parti rimangono autonome e distinte, contrapposte nel perseguimento di interessi “di parte”, ma sono nel contempo “indirizzate” entrambi al perseguimento di un interesse generale; non per niente, l’art. 3, comma 1 del vigente CCNL. del comparto-scuola recita :”Il sistema delle relazioni sindacali, nel rispetto delle distinzioni dei ruoli e delle rispettive responsabilità dell’amministrazione scolastica e dei sindacati, persegue l’obiettivo di contemperare l’interesse dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro e alla crescita professionale con l’esigenza di incrementare l’efficacia e l’efficienza dei servizi prestati alla collettività. Esso è improntato alla correttezza e trasparenza dei comportamenti.”
E’ quindi di tutta evidenza che nel privatizzare il rapporto di lavoro la legge doveva anche prevedere delle regole che preservassero il perseguimento dell’interesse generale da parte della pubblica amministrazione; in effetti è stato stabilito per legge, a partire dal D.Lgs 29/1993:
- quali strutture rappresentano la pubblica amministrazione
- quali organizzazioni sindacali sono abilitate a rappresentare i lavoratori e quali caratteristiche debbono avere
- quali procedure devono essere seguite nella contrattazione.
- quali sono le condizioni che autorizzano i rappresentanti della pubblica amministrazione a sottoscrivere il contratto.
Dopo il 1993, il ruolo della contrattazione è andato aumentando, invadendo il campo di altri due principi della riforma della pubblica amministrazione, quello del potere di auto organizzazione degli uffici e quello delle competenze della dirigenza, invasioni di campo che sono state particolarmente pesanti nel mondo della scuola.
Nel 2009 c’è stato un intervento normativo, il D.Lgs 150/2009, conseguente alla Legge 15/2009, che ha effettuato una sostanziosa rivisitazione delle norme stabilite dal D.Lgs 29/1993, oggi D.Lgs 165/2001.
L’intero Titolo Quarto, il più ponderoso, del D.Lgs 150/2009 è dedicato alla riforma del lavoro pubblico, nella forma (né poteva essere altrimenti) di una modifica/integrazione del D.Lgs 165/2001; vengono riprese le tre tematiche sopra indicate:
- la dirigenza
- l’organizzazione degli uffici
- il sistema contrattuale
All’articolo 32 viene esplicitamente indicata la finalità di rimettere ordine nei tre campi sopra indicati, ridefinendo la ripartizione delle competenze tra:
- le materie riserva di legge e/o oggetto del potere di auto organizzazione della pubblica amministrazione
- le materie affidate all’autonoma determinazione dei dirigenti, sempre sulla base di norme di legge e/o del potere di auto organizzazione
- le materie affidate alla contrattazione collettiva.
Gli articoli seguenti esplicitano quanto appena detto mediante una serie di modifiche del D.lgs 165/2001.
Si parte (art.33) da una modifica dell’articolo 2 del D.Lgs 165/2001, che affronta un aspetto delle tematiche sopra indicate, quello della preminenza della legge nella gerarchia delle fonti; il Decreto stabilisce che in caso di norme contrattuali in contrasto con norme imperative o che comunque eccedano l’ambito assegnato alla contrattazione collettiva, si applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile: le norme contrattuali sono nulle e vengono sostituite dalle disposizioni del Codice Civile o comunque da altre norme legislative.
Giova ricordare che la stessa Legge 15/2009, all’articolo 1 e con una norma immediatamente applicativa, stabilisce l’inderogabilità delle norme di legge, è eventualmente la stessa legge che deve prevedere esplicitamente la possibilità di una deroga, rovesciando così l’impostazione del D.Lgs 29/1993.
Di conseguenza, si stabilisce che le disposizioni del Decreto hanno carattere imperativo e quindi non derogabile.
L’articolo 34 affronta la seconda questione, quella delle prerogative e delle autonome determinazioni dirigenziali; anche questo articolo ha la forma di una modifica del D.Lgs 165/2001, in particolare viene sostituito il comma 2 dell’articolo 5:
«2. Nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all'articolo 2, comma 1, le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all'articolo 9. Rientrano, in particolare, nell'esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici.»;
L’organizzazione degli uffici e la gestione dei rapporti di lavoro sono prerogative degli organi di gestione (in genere i dirigenti), la relazioni sindacali si limitano al livello dell’ informazione.
L’articolo 36, infine, affronta la questione dell’organizzazione degli uffici, di cui all’art. 6 del D.Lgs 165/2001; le disposizioni ivi contenute vengono sostanzialmente confermate, salvo l’inserimento di un comma 4bis, dove si stabilisce che, nella determinazione delle piante organiche, i profili professionali necessari al funzionamento degli uffici sono definiti su proposta dei dirigenti.
Sempre per quanto riguarda la dirigenza pubblica, vengono introdotte una serie di sottolineature, come le competenze del dirigente in tema di valutazione del personale, attribuzione del salario accessorio e premialità, che costituiscono uno dei punti di forza del Decreto (Almeno sulla carta…).
Per quanto riguarda la scuola, la situazione è alquanto ingarbugliata.
All’articolo 74 (Norme transitorie e finali), comma 4, si dice che infatti che con un ulteriore decreto (un DPCM) verranno stabiliti “i limiti e le modalità di applicazione delle diposizioni dei Titoli II e III del presente decreto al personale docente della scuola …”; il Titolo II riguarda la performance e il Titolo III riguarda il merito e i premi, per cui queste disposizioni non si applicano ai docenti, c’è bisogno di un ulteriore decreto, a tutt’oggi non emanato.
Parimenti, all’articolo 62, comma 1-bis, si dice che “I dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti assimilati, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali”
Queste norme si applicano invece al personale Ata, almeno sulla carta; le disposizioni dei due Titoli si applicano altresì ai dirigenti, ma neanche a loro si applica la suddivisione in tre fasce, dato che la dirigenza ha una normativa specifica in materia.
C’è infine un’ulteriore disposizione, che riguarda il sistema scuola in quanto tale e tutte le categorie di operatori: gli organismi di valutazione interni, di cui all’articolo 14 del decreto, nella scuola non verranno costituiti; di conseguenza, rimangono in vigore quelli attualmente esistenti (a cominciare dall’INVALSI) o quelli che eventualmente saranno costituiti dal MIUR in base a disposizioni specifiche.
Dire che la confusione regna sovrana è poco, in pratica nella scuola non se ne è fatto niente, l’ennesima grida manzoniana.
Almeno per la scuola, la novità assoluta del D.Lgs 150 /2009 è data dalla completa ridefinizione degli obblighi e delle responsabilità dei dipendenti pubblici, con le conseguenti sanzioni disciplinari in caso di mancata osservanza di tali obblighi; non è che queste tematiche non fossero presenti nel D.Lgs 165/2001, ma ora diventano uno dei temi centrali del nuovo assetto del lavoro pubblico, per cui riprenderemo questi temi in un apposito articolo.
Ugualmente, il Decreto ridefinisce le regole della contrattazione, che saranno anche queste affrontate in un apposito articolo.
LE LEGGI DI TUTELA DEL LAVORO
Prendiamo in esame solo le leggi di carattere generale, quelle cioè che riguardano tutti i lavoratori, non considerando quelle pur importantissime che o sono di natura particolare (Sicurezza dei luoghi di lavoro, tutela della privacy) o riguardano solo alcune categorie di lavoratori (lavoratrici madri, lavoratori portatori di handicap).
Prenderemo quindi in esame:
- la Costituzione
- il Codice Civile
- la legge 300/1970
I PRINCIPI COSTITUZIONALI
Come si sa, per la nostra Costituzione l’Italia è…una repubblica democratica fondata sul lavoro! Il tema del lavoro è contenuto nei principi fondamentali; all’art. 4 si dice:
- il lavoro è un diritto per tutti cittadini
- la Repubblica promuove le condizioni che rendano possibili l’esercizio del diritto
- il lavoro è un dovere, in quanto tramite il lavoro il cittadino contribuisce alla crescita materiale o spirituale della società.
Nella Costituzione il lavoro è quindi uno dei fattori fondanti della società, non un semplice mezzo per la sopravvivenza; sono comunque previste anche norme specifiche di tutela (Parte prima, Titolo III, artt. 35-38):
- la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e cura la formazione professionale dei lavoratori
- il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza dignitosa a sé e alla famiglia (principio dell’equo salario)
- la durata massima della giornata lavorativa è stabilita per legge
- il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali e non può rinunciarvi
- la donna lavoratrice ha gli stessi diritti del lavoratore
- le condizioni di lavoro devono assicurare alla donna la possibilità di svolgere la sua funzione familiare
- alla madre e al bambino va assicurata una speciale e adeguata protezione
- la legge fissa l’età minima per il lavoro
- i lavoratori hanno diritto ad avere assicurati adeguati mezzi di vita in caso infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione; gli inabili hanno diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
Si dice che la Costituzione italiana sia una delle più avanzate dal punto di vista sociale; in effetti, il diritto al lavoro e la sua tutela sono considerati uno dei diritti fondamentali del cittadino.
La Costituzione contiene anche i principi relativi alla libertà sindacale, di cui parleremo in un apposito articolo.
IL CODICE CIVILE
Le disposizioni che riguardano il lavoro dipendente sono contenute nel Libro V - Titolo II - Capo I, che riguardano l'impresa; oltre ai diritti e ai doveri del lavoratore dipendente vengono anche definiti i poteri e gli obblighi dell’imprenditore.
Da notare che il Codice Civile è stato emanato durante il periodo fascista, per cui il linguaggio è molto "datato" ed è stato più volte modificato in seguito a diverse leggi; Riportiamo di seguito le norme più importanti, che spesso fanno parte del nostro senso comune, le diamo per scontate, ma sono diventate tali proprio perché contenute nel testo fondamentale che è fondamento della regolamentazione del rapporto di lavoro.
L'imprenditore
E’ imprenditore colui che esercita un’attività economica organizzata, al fine di produrre o scambiare beni o servizi; l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori; l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei prestatori di lavoro.
I collaboratori dell'imprenditore
E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, dietro retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale, alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore; i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati ed operai.
Il rapporto di lavoro
L’assunzione avviene in prova, con atto scritto; durante il periodo di prova, ciascuna delle due parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o di indennità; finita la prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità.
La retribuzione può essere a tempo o a cottimo.
Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è assunto o equivalenti, ovvero a quelle di una qualifica superiore, qualora l’abbia conseguita; qualora il lavoratore venga adibito a mansioni superiori, ha diritto alla retribuzione corrispondente e l’assegnazione diventa definitiva dopo tre mesi.
Il lavoratore deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione e dall’interesse dell’impresa; deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori; il lavoratore ha l’obbligo di fedeltà; l’inosservanza degli obblighi di diligenza e fedeltà può dar luogo a sanzioni disciplinari.
La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali; il lavoro straordinario e il lavoro notturno devono essere retribuiti in misura maggiore rispetto al lavoro ordinario.
Il lavoratore ha diritto ad un giorno di riposo settimanale e ad un periodo di ferie; in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o puerperio, qualora non siano previste forme di previdenza o assistenza, il lavoratore ha diritto alla retribuzione o a un’indennità.
Le rinunce o le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni di legge o contrattuali, non sono valide; l’impugnazione deve avvenire entro sei mesi.
L’assistenza e la previdenza obbligatorie e i relativi contributi sono determinati per legge.
Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto tramite preavviso; senza preavviso, solo per giusta causa.
All’atto della cessazione del contratto, il lavoratore ha diritto ad un trattamento di fine rapporto (TFR, nel pubblico impiego comunemente chiamata liquidazione).
LA LEGGE 300/1970
La Legge 300/1970 è comunemente conosciuta come “Statuto dei lavoratori”; in effetti, con questa legge i diritti fondamentali di cittadinanza sono entrati dentro i luoghi di lavoro, assicurando al cittadino-lavoratore i diritti di cui normalmente gode al di fuori.
Non per niente il Titolo Primo della legge è denominato ”Della libertà e dignità del lavoratore” (Artt.1-13):
- Il lavoratore ha libertà di opinione
- la vigilanza sul lavoro va svolta con mezzi che non ne ledano la dignità e la verifica delle malattie viene affidata a strutture pubbliche
- in caso di sanzioni disciplinari, ha diritto ad una contestazione preventiva e alla difesa
- il datore di lavoro non può svolgere indagini sulle opinioni del lavoratore, né prima dell’assunzione, né dopo
- il lavoratore ha diritto a controllare l’applicazione delle norme a tutela della salute
La norma più forte di tutela è però il famoso art.18, che stabilisce il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento non per giusta causa; è chiaro che questo è il deterrente più forte perché il datore di lavoro rispetti i diritti dei lavoratori.
Anche la Legge 300/1970 è entrata a far parte del nostro vissuto quotidiano, basti pensare a cosa sta succedendo in questi giorni per la proposta di modifica dell’articolo 18.
La legge 300/70 tutela poi l’attività e la libertà sindacale, di cui parleremo, come detto, in un altro articolo.
LA TUTELA GIURISDIZIONALE
L’ultima forma di tutela di cui il lavoratore può godere a livello legislativo…è naturalmente quella giurisdizionale; nel caso ritenga che i suoi diritti siano stati lesi e non trovi un altro mezzo per farseli riconoscere, il lavoratore può rivolgersi al giudice.
Essendo passata la disciplina del lavoro dei pubblici dipendenti dall'ambito del diritto pubblico a quello del diritto privato, anche le controversie di lavoro prima devolute al giudice amministrativo (TAR), passano a quello ordinario, cioè al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro.
LA REGOLE DELLA CONTRATTAZIONE
Si sta naturalmente parlando di contrattazione collettiva, in mondo particolare di quella nella pubblica amministrazione, che di necessità richiede una regolamentazione degli attori e delle procedure.
IL SINDACATO
Oltre a quelle previste dalla legge, il lavoratore gode di un’ulteriore tutela, derivante dalla contrattazione collettiva; il contratto individuale, cioè, viene sottoscritto sulla base non solo delle norme di legge, ma anche delle previsioni contenute nei contratti collettivi.
La contrattazione collettiva, come dice il nome, avviene tra entità di natura collettiva, in rappresentanza delle due parti: lavoratori e datori di lavoro; queste “entità di natura collettiva” sono i sindacati (è bene ricordare che anche i datori di lavoro hanno i loro sindacati, come Confindustria).
Una definizione di sindacato può essere questa:
- è un’associazione professionale libera e spontanea
- è formata da individui che hanno lo status di prestatori di lavoro o di datori di lavoro
- rappresenta tutti gli individui che compongono l’associazione nella loro qualità di soci
- agisce collettivamente al fine di tutelare i comuni interessi professionali nei confronti degli stessi soci, di altre associazioni, di altri soggetti giuridici.
Il sindacato si caratterizza quindi come una forma di autotutela professionale da parte di singoli che ritengono di poter difendere meglio i propri interessi in forma associata rispetto ad una difesa di tipo individuale; detta in altro modo: il singolo affida ad una associazione, il sindacato, la tutela dei suoi interessi inerenti il rapporto di lavoro, da quelli più semplici ed immediati a quelli più generali, nella convinzione che così potrà meglio affermare i propri diritti ed espanderli al di là di quanto già stabilito dalle leggi.
Non è possibile dare una definizione più precisa di quella molto descrittiva che abbiamo dato, perché non esiste in Italia una definizione legislativa del sindacato e dell’attività sindacale, esistono solo norme che fanno riferimento al sindacato, a cominciare dalla stessa Costituzione, che all’art.18 sancisce la libertà di associazione e all’art.39 sancisce in modo esplicito la libertà di organizzazione sindacale, a cui non può essere imposto alcun obbligo legislativo, se non quello della registrazione presso appositi uffici sulla base di statuti democratici.
Come ben si sa, le disposizioni dell’art.39 non hanno avuto una ulteriore definizione nella legislazione ordinaria, per cui i sindacati si configurano come enti di fatto (associazioni non riconosciute), sulla base degli artt. 36, 37 e 38 del Codice Civile; sono naturalmente associazioni di tipo particolare, in quanto non solo la stessa Costituzione, ma anche altre leggi specifiche riconoscono loro potestà e tutele che vanno oltre quelle delle mere associazioni non riconosciute.
L’art. 39 è anche il fondamento del potere contrattuale del sindacato, in quanto sancisce non solo la libertà di organizzazione sindacale, ma riconosce anche ai sindacati il diritto di regolamentare il rapporto di lavoro sulla base di norme che non hanno origine legislativa (Contratti Collettivi), secondo modalità e forme su cui lo Stato rinuncia ad intervenire in modo diretto; come abbiamo detto, lo Stato interviene solo in modo indiretto, a tutela di alcuni diritti fondamentali del lavoratore e a sostegno della stessa contrattazione collettiva.
L’art.39 stabilisce anche che i sindacati registrati sottoscrivono i contratti in proporzione ai propri iscritti e che tali contratti hanno validità “erga omnes”; i contratti cioè hanno validità non solo per i lavoratori associati ai sindacati che hanno sottoscritto il contratto, ma anche per quelli che sono iscritti ad altri sindacati o non sono iscritti ad alcun sindacato.
Non essendoci stata una definizione a livello di legislazione ordinaria della materia, solo una serie di sentenze della magistratura, sulla base del principio costituzionale del diritto del lavoratore ad un salario equo, ha permesso di estendere “erga omnes” la validità dei contratti collettivi, considerando gli istituti ivi previsti dei “minimi contrattuali” che definiscono appunto il minimo a cui un lavoratore ha diritto perché sia rispettato il principio costituzionale dell’equo salario.
LE RELAZIONI SINDACALI NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Se quanto appena detto poteva andar bene nel settore privato, quando con il D.Lgs 29/1993 la regolamentazione civilistica del rapporto di lavoro è stata estesa anche al pubblico impiego, il modello del tutto privatistico non poteva essere adottato anche nel settore pubblico, perché andava in ogni caso salvaguardato il perseguimento dell’interesse generale e del bene pubblico.
Così, se nel privato ambedue le parti (datoriale e sindacale) sono rappresentate da organizzazioni di diritto privato, che agiscono cioè su delega di coloro che rappresentano, a difesa dei rispettivi interessi, non era possibile applicare questo sistema del tutto privatistico nel pubblico impiego, non tanto dal lato della rappresentanza dei lavoratori, quanto dal lato della rappresentanza della pubblica Amministrazione.
Era necessario definire le regole che non sono state a tutt’oggi introdotte nel privato; in particolare, andava definito, per legge e con chiarezza:
- quali siano le parti che interagiscono nella contrattazione, quali strutture cioè rappresentano la pubblica amministrazione e quali organizzazioni sindacali rappresentano i lavoratori
- quali siano le procedure, i tipi, i livelli della contrattazione
- quali siano le condizioni che rendono possibile la sottoscrizione di un contratto.
Tutto questo in effetti è stato stabilito per legge, a partire dal D.Lgs 29/1993.
LE PARTI
La parte datoriale
Nel rispetto di uno dei principi fondamentali del D.Lgs 29/1993, oggi D.Lgs 165/2001, quello della separazione tra indirizzo politico e gestione, almeno al livello più alto delle relazioni sindacali, il contratto collettivo nazionale, la pubblica amministrazione si è dotata di un organismo apposito che la rappresenta.
L’art.46, comma 1 del citato decreto istituisce infatti l’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) che rappresenta legalmente le pubbliche amministrazioni nella contrattazione; l’ARAN ha personalità giuridica, un proprio organico e una propria dotazione di bilancio.
Le pubbliche amministrazioni esercitano un potere di indirizzo, nonché esprimono un parere di congruità sui contratti nei confronti dell’ARAN mediante Comitati di Settore, appositamente costituiti per i diversi comparti ed aree di contrattazione.
Negli altri livelli di relazioni sindacali, di cui sotto, le pubbliche amministrazioni sono rappresentate dai dirigenti posti ai vertici degli uffici, nell’ambito delle funzioni di gestione e di organizzazione che sono proprie della dirigenza.
La parte sindacale
Non è stata toccata la natura privatistica del sindacato, ma è stato stabilito quali siano i sindacati che hanno titolo a partecipare alla contrattazione collettiva nazionale presso l’ARAN: i sindacati rappresentativi.
La rappresentatività viene stabilita sulla base di criteri puramente numerici: la media tra il dato associativo (percentuale delle deleghe rilasciate dai lavoratori ) e il dato elettorale (percentuale dei voti alle RSU), essendo stata introdotta nelle pubbliche amministrazioni l’ obbligatorietà di una rappresentanza eletta da tutti i lavoratori.
Sono rappresentativi i sindacati che raggiungono almeno il 5% e il contratto può essere sottoscritto solo se i sindacati firmatari hanno almeno il 51% della rappresentatività o il 60% del dato elettorale; la rappresentatività è stabilita per ogni comparto o area dirigenziale di contrattazione.
Sono rappresentative le Confederazioni che raggiungono la rappresentatività in almeno due comparti od aree (art. 43 del D.Lgs 165/2001).
I contratti collettivi definiscono le parti nei diversi tipi di relazioni sindacali di livello inferiore (contrattazione integrativa e forme di partecipazione); esse sono costituite in genere dagli organi di vertice di ogni amministrazione per la parte datoriale e dai sindacati firmatari del CCNL per la parte sindacale.
LE MATERIE
Come più volte detto, oggetto delle relazioni sindacali è la regolamentazione del rapporto di lavoro, ma negli anni gli sconfinamenti sono stati molti; il D.Lgs 150/2009 intende rimettere ordine, per cui all’art. 54, comma 1 viene ribadito che le materie demandate alla contrattazione collettiva sono “…i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali”; il testo è molto chiaro, materie di contrattazione sono le reciproche obbligazioni del lavoratore e del datore di lavoro nell’ambito della prestazione lavorativa, oltre alla definizione delle regole delle relazioni sindacali.
Onde evitare fraintendimenti, il Decreto procede anche in negativo, definendo le materie che in particolare sono escluse dalla contrattazione:
- l’organizzazione degli uffici
- le prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17 del D.Lgs 165/2001
- il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali
- l'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, cioè le modalità del contenzioso del lavoro
Ci sono poi materie che possono rientrare nell’ambito della contrattazione, ma nei limiti precisi stabiliti dalla legge:
- sanzioni disciplinari
- valutazione del lavoro ai fini della corresponsione del trattamento accessorio e della progressione di carriera
I DIVERSI TIPI DI RELAZIONI SINDACALI
Le relazioni sindacali si articolano in tre modalità: la contrattazione, la partecipazione e l’interpretazione autentica.
La contrattazione
La contrattazione collettiva ha per oggetto tutte le materie inerenti il rapporto di lavoro e le modalità delle relazioni sindacali, per quanto non è già regolamentato per legge, fermo restando che i contratti possono stabilire condizioni di "miglior favore" per i lavoratori e le organizzazioni sindacali; a seguito della legge 15/2009, non è più possibile derogare da norme di legge, a meno che non sia la legge stessa a prevederlo.
Naturalmente, ci sono dei limiti che la parte pubblica deve rispettare, essenzialmente quelli di bilancio e quelli inerenti le materie “riserva di legge”, che rimangono cioè soggetti a regolamentazione legislativa o comunque di diritto pubblico e non sono quindi oggetto di contrattazione.
La partecipazione
Le OO.SS. possono però in qualche modo intervenire anche nelle materie “riserva di legge”, purché abbiano attinenza con la definizione del rapporto di lavoro.
L’art. 44 del d.Lgs 165/2001 istituisce una nuova modalità nelle relazioni sindacali, la “partecipazione”, dando forza di legge ad un modello di relazioni sindacali che si è affermato in Italia nel corso degli anni ‘90 ed ha avuto le massime espressioni negli accordi del 1992 e del 1993 tra le OO.SS. (sia datoriali che dei lavoratori) e i Governi Amato e Ciampi; tale modello è stato chiamato di “Concertazione”, in quanto l’accordo non dà luogo alla stipula di un vero e proprio contratto, giuridicamente vincolante per le parti, ma alla stesura di un protocollo di intesa che le parti si impegnano a rispettare per quanto di loro competenza, pur rimanendo giuridicamente libere nella loro azione. Si tratta di accordi di tipo politico, che impegnano moralmente i contraenti, salva la facoltà per ognuno di riprendersi la propria libertà di azione nel caso vengano meno le condizioni che hanno portato all’accordo.
Il modello partecipativo è entrato in crisi negli ultimi anni, la legge 15/2009 e il D.Lgs 165/2009 vanno sicuramente in senso contrario; ne dà testimonianza la nuova, scarna formulazione dell’art. 9 del D.Lgs 165/2001, che rimanda la regolamentazione della partecipazione alla contrattazione collettiva, ma ponendo vincoli molto rigidi, a norma dell’art. 5, comma 2 del medesimo decreto: “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all’articolo 9. Rientrano, in particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità nonché la direzione, l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici.”
L’interpretazione autentica
L’interpretazione autentica, di cui all’art.49 del D.Lgs 165/2001, è un rafforzamento della contrattazione collettiva; si stabilisce infatti che in caso di controversie sull’interpretazione da dare ad una clausola o ad un istituto contrattuale, la “giusta interpretazione” può essere data solo dalle parti che hanno sottoscritto il contratto, tramite un accordo che segue le medesime procedure che hanno portato alla stipula del contratto.
LIVELLI E PROCEDURE
Le relazioni sindacali si esplicano a diversi livelli; al culmine del sistema c’è la contrattazione collettiva nazionale, che a sua volta prevede due livelli (art.40 del D.Lgs 165/2001):
- il Contratto Collettivo Nazionale Quadro (CCNQ), che riguarda tutta la pubblica amministrazione e fissa le regole stesse della contrattazione, dalla definizione dei comparti a quella dei diritti e prerogative sindacali
- il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), che regolamenta il rapporto di lavoro nell’ambito di un comparto della pubblica amministrazione; i dirigenti costituiscono un’area autonoma di contrattazione.
E’ previsto anche un livello inferiore di contrattazione, definito “contrattazione integrativa”, con modalità, limiti e materie stabilite dai CCNL; i contratti nazionali stabiliscono anche i livelli e le modalità della partecipazione.
Il D.Lgs 165/2001, all’art.47, fissa anche le procedure e le modalità della contrattazione e, soprattutto, le condizioni perché si possa sottoscrivere il CCNL; le procedure sono molto minuziose, diciamo che l’Aran, una volta raggiunto l’accordo con le Oo.SS., può sottoscrivere il contratto a due condizioni:
- che ci sia il parere favorevole del Governo e del Comitato di Settore
- che ci sia il visto di compatibilità finanziaria della Corte dei Conti
Il D.Lgs 150/2009 introduce una importante novità per quanto attiene alla contrattazione integrativa; all’art. 54, in sostituzione dei primi tre commi del D.Lgs 165/2001, all’art. 3bis e 3ter si stabilisce che la contrattazione deve concludersi entro un termine stabilito dal CCNL, decorso il quale le parti riassumono le rispettive prerogative e libertà di decisione; la fissazione di un termine (naturalmente senza obbligo di firma…) appare particolarmente importante, al fine di evitare sessioni di trattativa senza fine che influiscano negativamente sul “clima” che si respira negli uffici e rischino di condizionare pesantemente il buon andamento del servizio.
Quanto appena detto vale tanto di più alla luce di un’ulteriore novità: “Al fine di assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica, qualora non si raggiunga l'accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, l'amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione”; se non si raggiunge l’accordo, l’Amministrazione adotta gli atti necessari al buon funzionamento del servizio, salvo ridefinirli una volta sottoscritto il contratto.
E’ chiaro che il “contratto successivo” non potrà in ogni caso portare all’annullamento di alcuno degli atti assunti dall’Amministrazione, ma solo modificarne in parte la veste, ad esempio modificare gli importi degli emolumenti
Molto importante anche quanto stabilito per la frase transitoria, in particolare la norma che stabilisce l’inapplicabilità dei contratti integrativi in contrasto con le norme del Decreto a decorrere dal 1° gennaio 2011, ma questo tema fondamentale per le scuole verrà ripreso in un apposito numero della rivista.
DOVERI E LE SANZIONI
Il D.Lgs 165/2001 prevedeva un unico articolo in materia di sanzioni disciplinari, il 55; il D.Lgs 150/2009 sostituisce per intero l’appena citato articolo 55 e ne aggiunge altri otto, arrivando al 55…octies!
Il CCNL 2002/2005 dell’Area V non conteneva alcuna norma sulla responsabilità e le sanzioni disciplinari, il CCNL 2006/2009 ha un intero Titolo, fatto di ben dieci articoli, dedicato alla responsabilità disciplinare.
Il mero dato numerico fa ben capire l’importanza che l’aspetto disciplinare ha assunto negli ultimi tempi, a seguito della Legge 150/2009 e del D.lgs 165/2009; è diventato un aspetto fondamentale nel nuovo assetto del lavoro pubblico disegnato dai due provvedimenti legislativi appena citati.
E’ chiaro che è cambiato il vento, si potrebbe dire che si è tornati indietro, molto indietro, basta andare a rileggersi il DPR 3/1957 che comprendeva un Titolo rubricato “Doveri, responsabilità, diritti” ed uno rubricato “Disciplina”; come si vede, si parlava di diritti, ma anche e soprattutto di doveri.
IL CODICE DI COMPORTAMENTO
Negli anni novanta, è stato introdotto dal D.Lgs 80/1998 il “Codice di Comportamento”, nella forma di un’integrazione del D.Lgs 29/1993, l’art. 58bis; nel D.Lgs 165/2001 è diventato l’art. 54 ed è tutt’ora vigente, collocato immediatamente prima gli articoli dedicati alla responsabilità disciplinare.
Il concetto di “codice” implica che non si sta parlando di mere responsabilità disciplinari, ma di comportamenti che il pubblico impiegato deve assumere in quanto parte di un’amministrazione che deve assicurare non solo un servizio di qualità, ma tendere al bene pubblico e all’interesse generale; non per niente, nel caso della Magistratura e dell’Avvocatura dello Stato si parla di “Codice Etico”.
Il Codice va allegato ai contratti e i suoi principi vanno “coordinati con le previsioni contrattuali in materia di responsabilità disciplinare”; all’art. 55 infatti il Decreto afferma il principio della responsabilità disciplinare a norma dell’art. 2106 del Codice Civile e dell’art.7 della Legge 300/1970, ma ne demanda alla contrattazione la concreta definizione.
Il Codice è stato emanato dalla Funzione Pubblica con il D.M 84/2000 e con varie modifiche è tutt’oggi in vigore; senza entrare nei dettagli, vediamo di cogliere i principi fondamentali.
La natura di “Codice Etico” esce fuori con chiarezza all’art. 2, comma 1: “Il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la Nazione con disciplina ed onore e di rispettare i princìpi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione. Nell'espletamento dei propri compiti, il dipendente assicura il rispetto della legge e persegue esclusivamente l'interesse pubblico; ispira le proprie decisioni ed i propri comportamenti alla cura dell'interesse pubblico che gli è affidato.”
Per il pubblico dipendente non bastano gli obblighi di collaborazione e lealtà affermati dal Codice Civile, il suo lavoro ha una pregnanza costituzionale che va oltre quanto richiesto al lavoratore del settore privato; è proprio del pubblico dipendente, ad esempio, l’obbligo di imparzialità (Art. 8), anch’esso principio di rango costituzionale.
Va comunque evidenziato che questa “visione etica” può diventare pericolosa, può scivolare nell’autoritarismo, come la storia insegna; che dire, ad esempio, di quanto disposto dall’art. 11, comma 2 :“Salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell'immagine dell'amministrazione. Il dipendente tiene informato il dirigente dell'ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa.”?
Questo dovere di informazioni sui rapporti con la stampa non fa ben pensare, è alquanto ambiguo, chi scrive lo può affermare per esperienza personale.
LA RESPONSABILTA’ DISCIPLINARE NEL D.LGS 150/2009
Il D. Lgs 150/2009 non stravolge l’impostazione precedente, ma con una serie di sottolineature e modifiche fa assumere al quadro della responsabilità disciplinare un aspetto del tutto nuovo.
L’obbligatorietà dell’azione disciplinare (Art. 55)
Per prima cosa (Comma 1), si ribadisce che le disposizioni dell’articolo 55 rinnovato e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, quindi inderogabili, ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del Codice Civile; del pari, la materia delle sanzioni disciplinari viene riportata sotto l’egida del Codice Civile, articolo 2106, che fa riferimento all’articolo 2104 (Diligenza del prestatore di lavoro) e 2105 (Obbligo di fedeltà).
Fatte in ogni caso salve le disposizioni del Decreto, è invece demandata alla contrattazione la definizione delle infrazioni e delle relative sanzioni (Comma 2).
Al fine di rafforzare la cogenza del procedimento disciplinare, il Decreto proibisce l’attivazione in sede contrattuale di procedure di conciliazione che possano portare a non comminare la sanzione o a cancellare quella già comminata.
Si può attivare solo una procedura di raffreddamento preventivo per le sanzioni più leggere (è escluso il licenziamento) e la procedura si deve concludere in ogni caso con una sanzione della tipologia prevista per quel tipo di infrazione; per capirsi: se la sanzione prevista è quella della sospensione dal servizio da 1 a 30 giorni, si può concordare una sospensione di 10 giorni, anziché quella massima di 30 giorni. Sembra difficile che qualcuno acceda a questo tipo di conciliazione, a meno che non sia masochista…(Comma 3).
Infine, nel caso il dirigente venga a sapere di situazioni configurabili come infrazioni disciplinari e non attivi il relativo procedimento oppure lo faccia decadere per mancato espletamento delle necessarie procedure, è sotto sposto a sua volta a procedimento disciplinare da parte del responsabile dell’ufficio, nel caso dei dirigenti scolastici il Direttore dell’USR (Comma 4).
In conclusione: il procedimento disciplinare deve partire, una volta che si è messo in moto di fatto non può essere fermato e l’eventuale sanzione può essere impugnata solo in sede giudiziaria; siamo in presenza di una specie di “obbligatorietà dell’azione disciplinare”.
La cosa può essere considerata una giusta reazione al lassismo finora imperante, ma può anche diventare pericolosa, perché si potrebbe instaurare un clima di caccia alle streghe sicuramente non positivo ai fini dell’efficacia e dell’efficienza del servizio.
Il procedimento disciplinare (Art.55 bis)
Il procedimento si svolge secondo due diverse modalità, a secondo della gravità della sanzione:
- sanzioni fino a dieci giorni di sospensione dal servizio: il dirigente è responsabile in toto del procedimento, dalla contestazione di addebito alla chiusura entro sessanta giorni; il procedimento si attiva quando il dirigente ha notizia di comportamenti punibili con una sanzione disciplinare e si chiude con l’archiviazione o l’irrogazione di una sanzione;
- sanzioni superiori a dieci giorni di sospensione dal servizio: il dirigente informa l’Ufficio competente entro cinque giorni dalla notizia del fatto, dandone contestualmente comunicazione all’interessato; il procedimento viene gestito dall’Ufficio.
Naturalmente, vengono anche stabilite le procedure e le garanzie a difesa dell’incolpato.
Rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale (Art. 55 ter)
Il procedimento disciplinare può proseguire anche in pendenza di un procedimento penale; prosegue in ogni caso per sanzioni fino a dieci giorni di sospensione dal servizio, mentre per i casi più gravi l’Amministrazione valuta l’opportunità di sospendere il procedimento disciplinare fino alla conclusione di quello penale, ferma restando la possibilità di adottare la sospensione dal servizio o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente.
Concluso il procedimento penale, l’Amministrazione ne prende atto ed eventualmente riapre e/o ridefinisce il procedimento disciplinare.
Licenziamento disciplinare (Art.55 quater)
Oltre al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, viene introdotto il licenziamento per motivi disciplinari, nei seguenti casi:
a) falsa attestazione della presenza in servizio o giustificazione dell'assenza mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia
b) assenza senza giustificazione per più di tre giorni nell'arco di un biennio o per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni
c) mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione
d) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio
e) falsità documentali o dichiarative in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera
f) reiterazione di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui
g) condanna penale definitiva, in relazione alla quale e' prevista l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro
h) insufficiente rendimento per almeno due anni, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi legati alla prestazione lavorativa
Le norme appena citate mettono fine a situazioni assurde di abusi ripetuti, fino ad oggi di fatto non sanzionabili, va notato però che le disposizioni in tema di certificazioni mediche sono particolarmente delicate: chi può e deve stabilire se un certificato medico sia falso o attesti falsamente uno stato di malattia?
False attestazioni o certificazioni (Art.55 quinquies)
Il tema delle false attestazioni e certificazioni viene ripreso in modo ancora più pesante, passando dal disciplinare al penale: sono punite con la reclusione da uno a cinque anni e con una multa da 400 a 1.600 euro; la stessa pena si applica al medico e a chiunque concorre alla commissione del delitto.
La condanna in via definitiva comporta per il medico la radiazione dall’albo e, nel caso sia un dipendente pubblico, il licenziamento.
Responsabilità e tutela del titolare dell’azione disciplinare (Art.55 sexies)
Il fatto che non si dia luogo all’azione disciplinare o se ne provochi la decadenza, per mancata produzione degli atti dovuti o per una valutazione sull'insussistenza della mancanza disciplinare manifestamente infondata, comporta per i dirigenti l'applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio fino ad un massimo di tre mesi e la non attribuzione della retribuzione di risultato per un importo pari a quello spettante per il doppio del periodo della durata della sospensione.
E’ questo un altro aspetto di quella che abbiamo definito “obbligatorietà dell’azione disciplinare” da parte del dirigente; il Decreto, però, gli fornisce anche un importante paracadute: la responsabilità civile eventualmente configurabile a suo carico in relazione alle decisioni assunte nell’ambito del procedimento disciplinare, è limitata ai casi di dolo o colpa grave.
Appare infatti evidente che nella situazione appena descritta il dirigente rischia una sequela di ricorsi giurisdizionali, con relative richieste di risarcimento; tali ricorsi potranno avere un esito negativo per il dirigente solo nel caso venga dimostrato il dolo o la colpa grave: in tal caso, è anche giusto che paghi!
LA SCUOLA
Anche nella scuola il clima è cambiato, come già detto, anche nei contratti ci si è mesi in regola; nell’ultimo contratto dell’Area V, ad esempio, per la prima volta, è stato allegato il Codice di Comportamento.
Una novità riguarda in particolare i docenti: l’abrogazione delle competenze del CNPI come organo decisionale di ultima istanza in tema di ricorsi gerarchici; per tutto il personale valgono le stesse procedure nel procedimento e le stesse modalità nel contenzioso.
Per quanto riguarda le sanzioni, le strade si dividono: per i docenti valgono ancora quelle stabilite dal D.Lgs 297/1994, per il personale Ata e i dirigenti sono state definite nei contratti 2006/2009 attualmente vigenti.
Come già detto, fa impressione il caso dei dirigenti: si pasa da zero a dieci articoli; evidentemente si è voluto ben delimitare il campo.
Non interessa qui il merito del codice disciplinare instaurato dal contratto, ma l’affermazione di due alcuni principi di grande importanza.
Per prima cosa, il contratto opera una netta, fondamentale distinzione tra responsabilità disciplinare e responsabilità dirigenziale: “Costituisce principio generale la distinzione tra le procedure ed i criteri di valutazione dei risultati e quelli relativi alla responsabilità disciplinare, anche per quanto riguarda gli esiti delle stesse. La responsabilità disciplinare attiene alla violazione degli obblighi di comportamento, secondo i principi e le modalità di cui al presente CCNL e resta distinta dalla responsabilità dirigenziale, disciplinata dall’art. 21 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che viene accertata secondo le procedure definite nell’ambito del sistema di valutazione, nel rispetto della normativa vigente.”
La responsabilità disciplinare riguarda i comportamenti, la responsabilità dirigenziale riguarda la gestione e i risultati raggiunti, i due piani non si possono sovrapporre, se non si vuol correre il pericolo del diffondersi di tentazioni autoritarie confliggenti con il concetto stesso di dirigenza, pericolo da non correre soprattutto nella scuola, dove interagiscono diversi principi di livello costituzionale da tutelare, dalla libertà di insegnamento all’autonomia scolastica.
Vengono poi definiti gli obblighi del dirigente, una specie di codice di comportamento aggiuntivo rispetto a quello allegato del pubblico dipendente allegato al contratto, evidenziando i fini pubblicistici nell’azione del dirigente.
Molti nella scuola hanno pensato che il motto del D.Lgs 150/2009 fosse “Tutto il potere ai dirigenti”; la realtà è che proprio i dirigenti sono quelli più “sotto schiaffo”.