Dacci
oggi la riflessione quotidiana (19 giugno 2013)
L’esame
di maturità è stato snaturato da un esame-concorso per acquisire la
pole-position per i concorsi di accesso alle università
prestigiose a numero chiuso?
E i docenti in mezzo a tutto ciò.
Una volta (ripeto, sono un po’ vecchio) esistevano due tipi di esame al
termine degli studi: l’esame di Stato e l’esame di Maturità. La seduta
di laurea al termine degli studi accademici non era considerato un vero
e proprio esame, ma una formalità di rango elevato, quasi una cerimonia
tra pari. Anche l’esame di Stato era in molti casi una formalità che
consentiva ai professionisti (medici, ingegneri, architetti, etc.) o ai
tecnici specialisti (geometri, agronomi, periti vari) di inserirsi
nella professione attraverso gli albi professionali o le associazioni
di categoria. Solo l’esame di Maturità era una prova veramente dura e
temuta da tutti gli studenti al termine della scuola secondaria. Il
sottinteso concetto era quello che il giovane passava dall’adolescenza
alla condizione di adulto maturo (un po’ come avveniva più in generale
con la leva militare), dando prova di tutto quanto appreso in tanti
anni di studio, davanti ad una numerosa commissione di professori
diversi dai propri (salvo uno), diretti da un presidente nominato tra
persone di alta cultura e navigata esperienza.
Dal dopoguerra, attraverso gli anni sessanta ed oltre, si è giunti ad
un ammorbidimento di detta ardua prova. Essa presentava due importanti
caratteristiche: gli studenti (allora tali, non ancora allievi) si
confrontavano con estranei professionisti della cultura su di un vasto
programma di conoscenze ed il sottinteso possesso di una cultura
generale anche attualizzata (non valeva allora dire: “scusi, ma non fa
parte del programma”).
I docenti, poi, promossi a commissari di stato, scambiavano esperienze
e si confrontavano con i colleghi di tutte le parti d’Italia. Poco a
poco le pretese dei commissari nei confronti degli studenti furono
normativamente ridimensionate.
Si passò dai tredici-quattordici commissari a sei, dalla conoscenza (ad
esempio) di qualche migliaio di versi del divino Dante e del supremo
Euripide, nelle rispettive lingue, a specifici ambiti tematici con
rinuncia alla conoscenza del “tutto” per motivare e valorizzare la
scelta della “parte”. Da un concetto di “maturità” completa fatta di
equilibrio, vaste conoscenze, acuto giudizio critico al più facile
concetto di maturità complessiva della persona, capace di
orientarsi verso gli studi successivi (anni 70 e 80) accertata
attraverso la trattazione di pochi specifici argomenti.
Per poi tornare alle conoscenze analitiche su temi specifici,
organicamente costruite attorno ad un nucleo (spesso povero o
pretestuoso) che “colpisse” i commissari (tre interni e tre esterni)
spesso organici anch’essi alla costruzione del tema. Contestualmente di
abbandonava l’alto concetto del tema di italiano come saggio delle più
alte capacità espressive linguistiche, contenutistiche, di maturità
critica appunto. Con tale abbandono si è passati dall’esame di
Maturità all’esame di Stato: certificazione come titolo di accesso
(salvo altre prove successive a carattere selettivo) alle facoltà
universitarie, con eventuali “bonus” di merito.
Cosa si è perso per strada nel passaggio da una forma d’esame
all’altra, dai voti in decimi al voto unico in sessantesimi e poi in
centesimi, dai tanti professori esterni e lontani a i pochi della porta
accanto e in parte già noti, dai presidenti di chiara fama e noti ai
presidi della scuola accanto o ai professori di ruolo della vicina
scuola? Intanto lo scopo e la validità del mezzo. Serve poco l’esame
per l’accesso all’università: basterebbe un tirocinio d’ingresso a
questa. Non serve affatto per stabilire un “bonus” di merito per tale
accesso perché a ciò varrebbe meglio una rilevazione statistica di
tutto il curricolo, cosa semplicissima da fare con i mezzi di oggi.
Si è perso il concetto di maturità: non è possibile dare un giudizio
complessivo sganciato dal meccanicismo delle varie prove, studiate per
evitare particolarismi. Ecco: il timore dell’illecito e della
corruzione. Tutto in Italia è deciso in tale ottica. Per ciò n on c’è
più scambio tra docenti e tra capi di istituto di varie parti d’Italia
(qualcuno ne approfittava per lucrare la vacanza dorata).
Non c’è più fiducia nel giudizio del docente-professionista della
didattica che deve essere chiuso in gabbie che garantiscano dai ricorsi
contro i favoritismi. Il vecchio esame di stato professionale è stato
soppiantato dai pochi concorsi pubblici per i pochi raccomandati.
L’esame di maturità è stato snaturato da un esame-concorso per
acquisire la pole-position per i concorsi di accesso alle università
prestigiose a numero chiuso, spesso inefficaci o controproducenti. E i
docenti in mezzo a tutto ciò? Devono far finta di niente e devono
lavorare duramente per convincere (subdolamente) gli allievi-studenti
che la cultura è ancora un valore.
Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it