
Ti salutu fonti di mari,/ ccà mi manna lu Signuri:/ tu m’ha dari lu to beni,/ jò ti lassù lu me mali.
(Ti saluto fonte di mare, / qua mi manda il Signore: / tu mi devi dare il tuo bene, / io ti lascio il mio male).
Immediatamente dopo tutti raccoglievano un pugno di sabbia. «L’arena raccolta [andavano] poi a gettarla su tutti i tetti delle persone che [allevavano] il baco da seta, gridando con gioia: Setti liviri a cannizzu».
Un bell’augurio davvero! Sette libbre di bozzoli a graticcio era molto di più di quanto mediamente rendesse la bachicoltura; senza considerare gli anni di mancata produzione per un qualsiasi capriccio dell’oscuro santo che proteggeva i bachi, San Giobbe, tradituri per sua indole e fin troppo tollerante verso le fattucchiere che mandavano il malocchio ai filugelli.
Ho voluto prendere le mosse da quest’antico rito di purificazione tutto messinese, documentato da Tommaso Cannizzaro (1838-1912), per sottolineare la grande rilevanza economica e socioculturale di un’attività, la bachi-sericoltura, che è stata per secoli il fiore all’occhiello dell’economia della città dello Stretto e del suo hinterland contadino, fino al punto da influenzare i comportamenti di gente che nulla aveva a che vedere con bachi e filande. L’allevamento del baco da seta non era un segreto per nessuno nella Messina medioevale e moderna: sapevano tutti che la bigattiera era ospitata tra le pareti domestiche di tanta povera gente che aveva così un’occasione per sbarcare bene o male il lunario. Tutti conoscevano le ansie e le speranze delle donne che badavano ai filugelli con la stessa attenzione che le mamme dedicano ai loro bambini. E non si scandalizzavano se le uova del mutevole insetto, amorevolmente avvolte in un panno di lino, venivano fatte scovare tra i seni delle bachicoltrici. Anzi, avevano per queste donne lo stesso rispetto che solitamente si porta alle gestanti. Non era nemmeno segreto per nessuno, a Messina e nel Val Demone, la metamorfosi dei filugelli: appena nati cominciavano a brucare le foglie che le donne avevano sminuzzato nei graticci; crescevano a vista d’occhio e, dopo quattro mute, si rinchiudevano in bozzoli formati dalla loro stessa bava, per uscirne una quindicina di giorni appresso sotto forma di farfalla.
Questo salto di qualità potevano però farlo solo pochi esemplari cui era affidata la continuità della specie: mentre il grosso dei bozzoli veniva inviato alla svelta alle filande per estrarne la seta, le poche farfalle cui era concesso di sgusciare dall’involucro non perdevano tempo ad accoppiarsi per deporre nell’arco di poche ore le uova, e subito dopo morire. Ora, se è assodata la larga diffusione nel Messinese della cultura bachi-sericola, non è facile ricostruirne la genesi, anche se si può ipotizzare che la città dello Stretto sia stata una delle prime stazioni europee dell’antica via della seta che, com’è noto, si cominciò a tracciare in Cina ben 2600 anni prima dell’era cristiana.
Sappiamo da Confucio che in Cina la plurimillenaria avventura sericola ebbe inizio all’epoca dell’imperatore Ho-Ang-Ti, il quale, fortemente impressionato della metamorfosi dei filugelli, incaricò la moglie Si-Ling-Ki di studiarne il comportamento. Dopo averli osservati per alcuni giorni, l’imperatrice prese a dipanare i bruchi e a utilizzarne il filo tessuto. L’allevamento dei primi bachi (forse direttamente sui gelsi) fu la tappa successiva di una scoperta che avrebbe consacrato Si-Ling-ki «Dea della seta» e i Cinesi «Seri». Seres, li chiamavano infatti i Romani, all’epoca di Augusto, quando i cittadini dell’Urbe vennero a contatto con i primi mercanti provenienti dall’Impero Celeste e la seta divenne il tessuto preferito dalle matrone.
A quell’epoca già da millenni in Cina esistevano grandiose fabbriche imperiali che producevano stoffe di seta da utilizzare nei cerimoniali di corte, ma anche nelle funzioni di rappresentanza internazionale, se è vero che alcuni dei drappi più belli erano inviati in dono a sovrani stranieri. Della seta i Cinesi fecero addirittura moneta di scambio e prodotto strategico, il cui segreto fu gelosamente custodito nei recessi della corte imperiale e tutelato da una legislazione così severa da prevedere pene durissime per chi avesse abbattuto piante di gelso e la condanna a morte atroce per chiunque avesse svelato il processo produttivo dell’attività serica.
Bisognava che passassero tremila anni dalla scoperta dell’imperatrice Si-Ling-Ki perché ne venissero a conoscenza il Giappone e l’India, «grazie all’astuzia di una principessa cinese andata in sposa al re del Turkestan la quale, per non rinunciare ai suoi abiti di seta, nascose nei capelli le uova del prezioso animale». O, perlomeno, così vuole la leggenda.
A Bisanzio i primi bachi da seta fecero ingresso ai tempi di Giustinano, ben nascoste dentro le canne dei bastoni di due monaci che lo stesso imperatore aveva inviato in Asia a diffondere il messaggio cristiano. Nel Nord Africa e nel resto d’Europa la bachicoltura fu introdotta dagli Arabi. I paesi europei che se ne avvantaggiarono per primi furono però i Normanni. I quali favorirono l’incremento dei gelseti a scapito del cotone e, nello stesso tempo, svilupparono anche l’industria della seta, utilizzando manodopera specializzata proveniente dalla Grecia.
«A Vienna - nota Denis Mack Smith - esiste ancora un bel manto di seta in cui è ricamata un’iscrizione in lingua araba ove è detto che era stato tessuto nella fabbrica reale di Palermo nel 1133-34: questo laboratorio si trovava nel palazzo e vi lavoravano, oltre a operai della seta, orefici e gioiellieri». Da Palermo l’industria serica si diffuse prima in tutta la Sicilia e successivamente nel resto dell’Italia, per esser poi estesa alla Provenza, a Marsiglia, a Lione e ad altre regioni d’Europa.
Prof. Pippo Oddo