Testata: Il Foglio
Data: 08 febbraio 2007
Pagina: 2
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «LA SCHIAVA NERA S’E’ FATTA “INFIDEL”»
Dal FOGLIO dell'8 febbraio 2007:
Una cultura che celebra la femminilità non è uguale a una che incide i genitali
delle ragazze. Una cultura che apre alle donne non è uguale a una che le chiude
dietro dei muri. Una cultura che spende milioni di dollari per salvare la vita
di una bambina non è uguale a una che usa la tecnologia neonatale per eseguire
un aborto di massa perché le bambine non sono benvenute. Una cultura che apre a
una donna la Corte suprema non è uguale a una che dichiara solo per metà valida
la testimonianza di una donna in un processo. Gli esseri umani sono tutti
uguali, le culture no”.
Quella di Ayaan Hirsi Ali si chiama libertà. Il suo nemico islamismo.
“Sfortunatamente è questa cultura a essere sotto attacco. Molti di coloro che ci sono nati la considerano scontata, o peggio, chiedono scusa per essa. Dobbiamo proteggere questa cultura della vita e della libertà”.
Pascal Bruckner ha difeso l’iconoclastia verbale di questa reduce del fanatismo dall’amletismo multiculturale di Timothy Garton Ash e Ian Buruma che la accusano di “fondamentalismo illuminista”. Sono gli stessi professionisti della nostalgia e del relativismo rinunciatario che difendono un ordine politico distrutto il 2 novembre 2004 e il 7 luglio 2005, i giorni in cui Theo van Gogh veniva assassinato per strada e i figli della Londra islamica si facevano esplodere sui treni. Un modello, dice Ayaan, “che cerca di essere tollerante con la diversità solo per il consenso. Ma il consenso è vuoto”. Questa donna invitata a parlare in onore di Bernard Lewis e premiata con la medaglia Martin Luther King, ritiene che le ultime parole pronunciate da Theo van Gogh siano l’epitaffio dell’illuminismo occidentale: “Possiamo parlarne?”. Il giorno in cui la gola del regista olandese veniva lacerata dal mujahideen, la regina d’Olanda e il primo ministro si recarono in una moschea anziché andare a trovare la famiglia di Van Gogh, che era la vera vittima.
Messa nell’abisso, “Infidel” sta per
apostata, infedele, blasfema, nera, puttana, eccessiva, pazza. E’ il titolo che
l’ex deputata olandese rifugiata negli Stati Uniti ha scelto per la sua
autobiografia pubblicata da Free Press. Una serie di flashback sulla vita
“prima”. Prima che un allievo di Roman Polanski con quel nome altisonante la
ingaggiasse come sceneggiatrice della sua pellicola antislamica. Prima che
entrasse nei ghetti olandesi per denunciare “l’olocausto di genere” e l’infibulazione,
mentale e fisica, di una generazione di donne e uomini. Prima che fosse eletta
all’Aia e dichiarasse guerra al terrorismo “takfir”, la corrente islamica che
considera tutti gli “infedeli” obiettivi nella guerra santa. Prima che il suo
amico venisse scannato una mattina di due anni fa mentre andava al lavoro in
bicicletta. Prima che fosse costretta, lei che era fuggita dalla polveriera di
Mogadiscio, apostata tragica ma mai melodrammatica, a nascondersi nelle baracche
militari e nelle basi navali della palude olandese. Prima che raccontasse al
mondo di essere stata mutilata all’età di cinque anni. Prima che la sua voracità
per la fama, la verità, la vanità e il desiderio di esserci la costringesse,
come un dio che uccide il proprio figlio illustre e solare, a fuggire nella
Washington dei dissidenti. Prima che fosse esecrata dalla maggioranza delle
donne olandesi, dai vicini di casa e dai compagni di partito. Prima che “il
sistema” cercasse di denaturalizzarla, questa che era la più assimilata delle
immigrate. Prima che da “vittima” si trasformasse in “razzista”, icona dal volto
legnoso e allungato dell’intolleranza. Prima soprattutto che l’islamismo la
gettasse nell’incubo di una vita braccata. Marchiata con l’accusa di “shirk”,
politeismo. Ayaan ama il nuovo Iraq proprio per un articolo della Costituzione:
“Ogni comportamento che appoggi, aiuti, prepari, glorifichi, solleciti o
giustifichi razzismo, terrorismo, takfir e pulizia etnica è proibito”. Il takfir
è l’accusa di “tradimento della fede” che le è stato rivolto, che aveva portato
alla morte Anwar al Sadat, che ha spinto Khomeini a lanciare la fatwa contro
Salman Rushdie, che ispira gli sgozzamenti degli ambasciatori algerino ed
egiziano in Iraq, dei dodici nepalesi fucilati alla schiena e delle decine di
migliaia di altre vittime islamiche in Algeria e Iraq. Verso la fine del suo
viaggio all’indietro, Ayaan Hirsi Ali, che non concede mai niente alla
correttezza politica, racconta che prima della seconda generazione islamica
d’Olanda a farle la pelle ci avevano provato in tanti: “Quando ho preso la
malaria, mi sono rimessa. Quando i miei genitali sono stati tagliati, la ferita
è guarita. Quando un bandito mi ha puntato il coltello alla gola, ha deciso di
non uccidermi. Quando la mia insegnante di Corano mi ha fratturato la testa, il
medico mi ha salvato dalla morte”. Di questa storia si sente l’odore della
polvere prima ancora che si alzi il vento. Nauseante il racconto della
mutilazione: “Un tavolo speciale fu preparato in camera di mia nonna, numerosi
zii parteciparono. Un uomo estrasse le forbici e si abbassò fra le mie gambe.
Come un macellaio che taglia un pezzetto di carne”. E’ per la presa vivida sul
massacro del corpo e della vita che Rushdie ha parlato di “un libro che dice la
verità sconfortante”. Tutto fuorché farisaico, il suo amore per la libertà è
misto a una profonda vena di passione per la parola. L’esordio è nel paesaggio
lunare d’Africa, fra rovine, nudi sassi, colli inarati, ceneri infeconde,
impietrata lava, fiori di pallida brace, e poi stupro, peccato, incesto, l’uomo
ridotto a pertica inutile. Ayaan Hirsi Ali è come una perla perfettamente nera:
somala, donna, infibulata, apostata, dissidente, vanitosa, antislamista uterina,
filoccidentale per vocazione, rigurgito di libertà in un universo fatto di
corruzione, violenza, sharia, morte, caos, miseria e disperazione. Ayaan
racconta la dittatura coranica che strozza il desiderio di vita e il velo come
stella gialla della condizione femminile. E lo fa nelle cinque lingue che
padroneggia come un mercante africano: inglese, somalo, arabo, swahili e amarico.
L’Olanda l’ha abbandonata ai pesticidi della fatwa, mentre la sua terra natale
rigonfiava, fungo tossico che ha nome califfato, di corti islamiche e detentori
della sunna. “Ci sono molti imam radicali i quali credono che uccidere una
apostata come me sia un biglietto per il paradiso”. Ayaan Hirsi Ali è stata
esiliata per la seconda volta, dopo la prima nella schiavista patria delle città
sante, mentre gli emiri imponevano in Somalia il loro codice di morte. Ora il
suo libro esce dopo che la capitale somala si è liberata dalla morsa dei
falcidiatori di spettatori di calcio e passanti non conformi agli hadith. Questa
ragazza somala ha dato una lingua alla pena islamica in Europa, col suo stile
tipicamente africano, malinconico, espressivo, molto racé, con voce di tenore,
tono pacato. Anne Applebaum scrive sul Washington Post che “Infidel” è un libro
unico al mondo. Scritto dall’unica donna esiliata da Somalia, Etiopia, Arabia
Saudita, Kenya e persino dal paese europeo che l’aveva accolta. Christopher
Hitchens sul londinese Times spiega che “Infidel” dimostra che “una donna
determinata come lei può cambiare più della propria storia”. Per Herbert London
dell’Hudson Institute, Ayaan è come Margaret Thatcher, “è la donna d’acciaio
della Somalia”. Dalle sei guardie del corpo e due macchine che aveva in Olanda
Ayaan è passata ai due uomini armati di Washington. Anche in America resta un
obiettivo. Ha lavorato come operatrice sociale con le immigrate segregate e ha
dato un volto e un nome a casi da far gelare il sangue. Il libro è pieno di
questa lordura religiosa e sociale che come colla si attacca alla memoria. Ma
storie certamente più eroiche delle argomentazioni sordide e meschine dei
sedicenti liberali che non sono intervenuti per difenderla. Gli stessi che oggi,
come Buruma e Garton Ash, la accusano di essere un tantino “eccessiva” con i
nati olandesi che hanno preso le armi contro la democrazia e l’habeas corpus.
“So bene che le minacce sono là fuori, ma vale la pena battersi per le libertà
di cui ho beneficiato negli ultimi quattordici anni. Le conosco da soli
quattordici anni. E forse è proprio per questo che mi appassiono più delle
persone che ci sono nate”. E’ cresciuta nel wahabismo saudita. “In Arabia
Saudita tutto ciò che andava storto era colpa degli ebrei. La mia insegnante mi
chiamava ‘Aswad Abda’, schiava nera”. Anche solo per lo smalto sulle unghie
finivi in prigione, dove ti infilavano le mani in un sacchetto pieno di
scarafaggi. L’Olanda doveva proteggerla contro la caduta della sua Somalia nel
mattatoio di versetti. Non lo ha fatto, come non aveva visto i cannibali serbi a
Sarajevo. Ayaan racconta di aver preso un po’ dal padre e un po’ dalla madre.
Lui era un intellettuale dissidente con laurea alla Columbia University che si
opponeva alla fame marxista di Siad Barre. La madre una donna pia e orgogliosa.
Tratti trasmessi a una figlia altera e nobile, pia nella dignità spartana e
orgogliosa di quel diritto alla vita e alla libertà che l’ha salvata dal
fanatismo biologico. Avvolta da un niqab nerissimo, un giorno Ayaan chiese alla
maestra: “Che fanno i maschi, non si coprono anche loro?”. Le rise in faccia.
Quella risata si percuote, di pagina in pagina, emulando quella di Mohammed Atta
nelle caverne afghane prima di partire per la missione suicida. “Ognuno di noi
era stato persuaso che fosse in corso una crociata malefica per sradicare
l’islam, condotta dal giudaismo e dall’occidente senza dio” ricorda degli anni
di scuola. Nel 1992 venne data in sposa a un somalo che viveva in Canada e
considerava le occidentali “immorali”. Lei invece era un “cristallo puro”. Fin
da piccola inserita in quel processo di ripulitura culturale, laminatura fisica,
pressatura mentale, essiccazione rapida, lucidatura sociale e rifinitura, infine
trasformata in qualcosa di neutro. “Mia madre mi disse che ero una puttana
ipocrita”. Dovette passare per la Germania, in attesa del visto. Una mattina
saltò su un treno e corse verso la libertà, che si chiamava Olanda. “Ero
destinata a essere la moglie soggiogata di uno straniero”. Si legge come un
Bildungsroman la sua autobiografia. Il marito che aveva rifiutato come un emiro
un giorno si presentò al campo profughi in cui Ayaan si trovava. Quel giorno
imparò a dire di no a un padrone che aveva sempre guardato dal basso verso
l’alto e senza incrociarne lo sguardo. “Quando arrivai in un paese occidentale
ero scioccata di sentire uomini che dicevano: ‘Prima le donne’. Nessuno sguardo
silente mi accusava di essere una puttana, uomini e donne sedevano insieme.
Avevo capito che un’altra vita era possibile”. L’11 settembre cambia tutto.
“Ogni devoto musulmano che aspira a praticare un islam genuino, anche se non ha
attivamente sostenuto gli attacchi, alla fine li ha approvati. C’è qualcosa
nella nostra fede, nell’islam, che legittima a uccidere gli ebrei, i peccatori”.
Esprime rimorso per aver causato la morte di un amico: “Quando Theo venne
ucciso, vorrei non averlo mai fatto”. Intende “Submission”, il film di pochi
minuti che entrò nelle case dei musulmani con furia estrema. La voce della donna
percossa è di questa principessa somala che sembra una modella e parla come
un’allieva di Friedrich von Hayek. Ayaan Hirsi Ali ha conosciuto il lutto
islamista prima sotto forma di bisturi vaginale e poi di editto di morte. Una
pioggia acida, avverte questa profanatrice di paci formali, è pronta a scendere
sulla nostra testa. Ayaan è come un pezzo d’Africa fuggito in un’Europa che ha
abbassato gli occhi sulle gole algerine e continuerà a farlo dove la scimitarra
islamica affoga nel sangue l’innocenza. E’ come se avesse deciso di strangolare
la propria ombra dietro di sé dopo averla raccontata. “Quante delle ragazze nate
al Digfeer Hospital di Mogadishu nel novembre del 1969 sono ancora vive? E
quante hanno una voce reale? Anche con le guardie del corpo e le minacce di
morte, mi sento fortunata di essere viva e libera”.
Chi è Ayaan Hirsi Ali
Ayaan Hirsi Ali, 33 anni, laureata in
scienze politiche, è nata a Mogadiscio nella capitale somala. Figlia di un
politico somalo è una tipica ragazza cresciuta in un ambiente prettamente ed
strettamente muslumano, è nata muslim senza possibilità di scelta, ha subito la
rituale e tradizionale mutilazione genitale negli anni della sua prima infanzia
come tutte le donne somale.
Con gli eventi della guerra civile riuscii con la sua famiglia ad emigrare in
Arabia Saudita dove conobbe e subì anche la forzatura del velo, la proibizione
delle frequentazioni esterne e la segregazione domiciliare, cosa assolutamente
normale la passeggiata, la frequentazione esterna, l'emancipazione, la libertà
da veli in Somalia. Nel 1992 emigrò in Olanda, dove richiese asilo politico e,
dove i parenti le arrangiarono un matrimonio combinato con un suo cugino che a
sua volta viveva in Canada. Alla concessione dell'asilo politico si diede da
fare per integrarsi rapidamente e ci riuscì perfettamente. Trovo la sua giusta
dimensione nell'ambiente sociale olandese perfezionando la padronanza della
lingua olandese e si scrisse all'Università. Raggiunse facilmente tutti gli
obiettivi e cominciò la sua frequentazione e la sua scalata politica. Un
attivismo mirato verso la protezione delle donne di religione muslimana, tant'è
che si è dichiarata una "EX muslim". Nella sua attività di militante ha
documentato centinaia di casi di violenza fisica, pestaggi, incesti, abusi
sessuali accusando le autorità olandesi di fare troppo poco per porre fine
queste pratiche. A seguito di queste denunce sono giunte le prime minacce di
morte, ovviamente le sue dichiarazione hanno innescato un serie di polemiche.
Ayaan è dovuta emigrare per nascondersi e al suo rientro e stata posta sotto
tutela della protezione della polizia. Comunque sia, la Ayaan si è mostrata
determinata a continuare la sua missione per promuovere l'integrazione e
migliorare la situazione delle donne musulmane. Il partito conservatore VVD
annoverando tra le sue fila Ayaan acquisiva ai più una sua dura credibilità
politica che non era e non è rivolta esclusivamente contro gli immigrati
(militano nel partito anche immigrati Caboverdini del Suriname). La spinta
programmatica e la relativa enfasi sull'emigrazione, su sicurezza, su terrorismo
hanno la loro ragione di essere trattati dal partito appunto annoverando
immigrati nelle sue fila. In questo caso la Ayaan velatamente rifiuta un
etichettatura destrorsa e dice "il pericolo è da un altra parte, penso che sia
la responsabilità della persona interessata a dare un segno ai propri progetti".
"Intendo cominciare dai centri a dalle sedi che abbiamo intenzione di creare per
iniziare un emancipazione e una libertà delle donne, in cui intendo ottenere una
terapia medica, rimborsi sociali, alimentazione ma anche formarle ed addestrarle
ad essere autonome. Questi programmi sarebbero progettati particolarmente per le
donne musulmane, perché non ci sono affatto supporti del genere. Ci sono
soluzioni buone all'istante per poi tornare di nuovo agli ambienti di
provenienza e ai suoi abusi. Tutte queste donne sono completamente trascurate e
i più giovani sono soggetti a delinquere. Penso che possiamo impedire tutto ciò
dando i necessari supporti. Penso che dobbiamo fare qualcosa a questo proposito,
non per via di leggi governativi, ma per via delle organizzazioni e associazioni
delle donne, che ora sono quasi defunte nei Paesi Bassi. Queste organizzazioni
devono essere portate di nuovo in auge e a nuova vita. Dal Parlamento questo
posso farlo, questa sarà il mio impegno che non deve essere un verbo della
politica del governo."
Ayaan è una bella signora che ovviamente, dal suo punto di vista, ha raggiunto
una notorietà fondata sull'antagonismo della "sua" religione. Sono fatti suoi,
ma è inequivocabile altresì che ha ottenuto l'attenzione e i sentimenti negativi
dei molti integralisti in circolazione che la vogliono morta come il suo amico
Theo Van Gogh. Theo nipote del celebre pittore è morto ammazzato per mano di un
marocchino impregnato di odio religioso da una setta oltranzista ora è in
compagnia in carcere con i suoi mandanti. Ayaan è conscia che la sua non è una
facile missione da vivere, cercare giustizia per i soprusi che subiscono le
donne a qualsiasi latitudine, sotto i tanti vessilli mondiali e anche dietro le
giustificazioni religiose è un conto, ma confrontarsi e combatterle creandosi
consapevolmente e facilmente dei nemici è un azzardo. La ragazza, giustamente,
oggi si trova in un contesto sociale molto liberale e totalmente differente
dalla Somalia e dall'Arabia Saudita ed è positivo cercare l'integrazione, la
giustizia, il benessere, la cultura etc. Tutto questo comporta anche il rispetto
della cultura e delle tradizioni altrui e trovare un giusto peso e una giusta
misura è compito arduo. No, penso che Ayaan non è paragonabile a Salman Rushdie,
nel senso che non vuole ferire almeno intenzionalmente la religione ma vorrebbe
correggere alcune situazioni "non confacenti" all'ambiente in cui vivono queste
realtà, ma è anche evidente che si possono correggere situazioni di abuso e non
situazioni di scelte volontarie. Va trovato un giusto confronto. Sicuramente il
deputato Ayaan è una ragazza intelligente, ambiziosa, forse anche coraggiosa ma
che, tuttavia e purtroppo, ha anche trovato molti che pensano che sia una
Rushdie blasfemo e facilmente eliminabile.