LA VITA - Figlio di Antonio, insegnante di lingue straniere, e della siciliana Francesca Prestopino, Giovanni Capurro, nato a Napoli il 5 febbraio 1859, dopo avere abbandonato gli studi tecnici a lui poco congeniali cui l’aveva destinato il padre, si dette con ben altra passione alla musica, studiando pianoforte e flauto e diplomandosi al Conservatorio di Napoli in quest’ultimo strumento. Accanto agli studi musicali, maturò e coltivò uno spiccato e creativo interesse per la letteratura e la poesia.Esercitò per gran parte della sua esistenza la professione di giornalista, esordendo nel periodico socialista “La Montagna”, per passare poi al quotidiano napoletano “Roma”, su cui scrisse oltre che come cronista anche in veste di critico teatrale, e presso il quale concluse la sua attività come impiegato, occupandosi di attività amministrative. Il suo versatile cimento intellettuale e professionale e l’attenzione, di chiara matrice socialista, verso i ceti sociali subalterni e disagiati - la stessa sua condizione economica non certo florida - convivevano felicemente con una vena artistica e personale estrosa, brillante e scanzonata. Capurro infatti era un assiduo e apprezzato frequentatore di salotti mondani, dove si distingueva per la sua vivacità e per il piglio istrionico: suonava il pianoforte, cantava, si produceva in imitazioni, incarnando al meglio la teatralità propria dello spirito partenopeo.
LE LIRICHE - Intanto nel 1887 pubblica la sua prima raccolta di versi, “Napulitanate”, cui seguiranno le “Carduccianelle” nel 1893. Le liriche di quest’ultima raccolta, come risulta già dal titolo, si ispirano programmaticamente a Giosuè Carducci, e più precisamente al complesso esperimento metrico che il grande poeta nelle “Odi barbare” volle tentare – con successo – ovvero l’impiego dei metri poetici propri della poesia greca e latina nella lirica di lingua italiana. Capurro si ripromise la medesima finalità per il dialetto napoletano, o lingua napoletana, se si preferisce. Egli infatti riteneva che la vivacità fonetica e l’espressività proprie del napoletano potessero giovarsi senz’altro del peculiare strumento metrico e ritmico che il Carducci aveva messo a punto per la lingua italiana. È altresì ipotizzabile che l’intento di Capurro si nutrisse di una suggestione più profonda, legata alla percezione di una stretta continuità della civiltà partenopea contemporanea con il mondo degli antichi Greci e Romani, la cui voce riviveva così nei suoi versi al di là di ogni imbalsamazione museografica. Le “Carduccianelle”, per l’esito felice con cui Capurro seppe condurre a termine la sua ardua lotta con giambi, pentametri ed esametri, valsero al poeta napoletano il lusinghiero commento di Carducci – generalmente parco di apprezzamenti – che gli scrisse nientemeno: “Tutta sua è la prova e la vittoria”.Questa vicenda estetica e poetica non riveste un interesse meramente storico, bensì ci aiuta a comprendere come autori ai quali l’immaginario popolare, e non solo, tende ad attribuire esclusivamente un’ispirazione sorgiva e spontanea, padroneggino invece con maestria i meccanismi più complessi della composizione poetica. E i capolavori immortali della canzone napoletana probabilmente scaturiscono proprio da questo felice connubio di vena popolare e mestiere della letteratura.LE CANZONI - In ogni caso, il nome di Giovanni Capurro è legato a una copiosa produzione di testi per canzoni: oltre a “O sole mio”, che è del 1898, altri suoi duraturi successi sono “A vongola” (1892), “E zzite cuntignose” (1896), “A sciantosa” (1897), “Zi’ Carulina” (1902), la strepitosa “Lilì Kangy” (1905), O scugnizzo (1906), “O Napulitano a Londra” (1915), “Totonno 'e Quagliarella” (1919). In lingua italiana l’autore scrisse “Fili d’oro” nel 1912.Come è noto, “O sole mio” fu messa in musica dal musicista “posteggiatore” Edoardo di Capua, mentre questi si trovava in Russia. Acquistata poi dall’editore Bideri, riscosse da subito un grande successo, tuttora così largamente perdurante da averla resa, forse, la canzone più celebre di tutti i tempi e di tutti i paesi, nonché simbolo indiscusso di italianità oltre e più che di napoletanità. Difficile stabilire in che misura il successo sia da attribuirsi alla delicatezza dei versi piuttosto che alla sua spiegata melodia, così come è superfluo ripercorrere la oramai più che secolare vicenda delle sue molteplici ed estremamente varie interpretazioni da parte di tenori del calibro di Enrico Caruso o Luciano Pavarotti, così come di rock star quali Elvis Presley o Bryan Adams. Vale solo la pena ricordare che a nessun’altra canzone è stato riservato l’onore, toccato invece a “O sole mio”, di essere non solo citata, bensì addirittura trattata per più pagine di un capolavoro letterario, la monumentale “Ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, nel quale all’io narrante succede di ascoltare la canzone a Venezia e di trarne una serie di complesse considerazioni. È sicuramente interessante constatare come persino uno degli scrittori più “snob” del Novecento soggiaccia, sia pure ambiguamente, al fascino di una delle canzoni più popolari
.UN SUCCESSO NEGATO - Tuttavia né il grande successo di “O sole mio”, né quello di tante altre pur apprezzate e molto diffuse canzoni, valsero a dare agio e benessere materiale a Capurro, il quale, per via della legislazione sul diritto d’autore di allora, e soprattutto per la sua scarsa vena “imprenditoriale” e l’indole modesta, non poté e non seppe ricavare dal suo notevole e riconosciuto estro creativo alcun significativo vantaggio economico, vivendo sempre nelle ristrettezze. Persino un preziosissimo gioiello che il Re Vittorio Emanuele III volle regalargli a compenso e ringraziamento per la canzone “O figlio d’o Rre”, scritta in occasione della nascita del principino Umberto nel 1904, finì per arricchire il tesoro della Madonna di Piedigrotta, cui per devozione il Capurro decise di donarla.Giovanni Capurro fu marito, e presto vedovo, di Maria Forcillo, ed ebbe sei figli, di cui tre morti in tenerissima età. Morì il 18 gennaio del 1920, in quella condizione di indigenza nella quale aveva trascorso l’intera esistenza, e fino all’ultimo respiro componendo versi.
Cinzia Bianchino