diventare "di moda"
Il pianista e compositore: basta paragonarmi ad Allevi in comune abbiamo solo il fatto di avere successo
ANDREA SCANZI
TORINO
Nipote di un Presidente della Repubblica e padre della patria, figlio di un editore storico. Un passato come pianista jazz-rock, un presente da settantamila copie vendute di dischi sperimentali. Il percorso di Ludovico Einaudi non ha nulla di canonico e molto di stupefacente. Non fa eccezione Nightbook, portato ora in tour (il 14 a Torino) con il musicista elettronico Robert Lippok e il violoncellista Marco Decimo: 13 tracce che rappresentano «sguardi possibili sulle esperienze che appartengono al lato più onirico di noi stessi».
Ha raccontato di aver tratto ispirazione da un concerto di tre anni fa all’Hangar Bicocca di Milano, circondato dai Sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. In che senso?
«Mi trovai circondato da spazi immensi e cattedrali industriali. Il suono del piano aveva una luce particolare, si propagava misteriosamente tra quelle torri. È stato come entrare in un’altra sfera: una dimensione spirituale e apocalittica. Il pubblico era distante, c’era freddo, avevano delle coperte per riscaldarsi. Il palco era riscaldato da stufe. Persino la percezione sensoriale era diversa. Lì ho capito che il mio vecchio repertorio non era più adeguato».
Il suo successo è la dimostrazione di un’evoluzione del gusto italiano?
«Temo di no. La situazione è abbastanza drammatica. La fortuna della mia musica dipende anche da fattori casuali. Molti si sono avvicinati andando al cinema: ascoltando le colonne sonore di Ennio Morricone, Lezioni di piano, Amélie».
Niente evoluzione culturale?
«Solo in parte. In Italia la musica non fa parte del programma d’educazione, come accade in Europa. In Inghilterra sei persone su dieci vengono ai concerti con lo spartito, in Italia è tutto estemporaneo».
Con la tivù che rapporto ha?
«Pressoché assente. Si dice che la musica non fa audience, ma chi lo dice? È una corsa al ribasso. Se l’unica strada per alzare l’audience è mostrare le tette, mi chiamo fuori».
Le dà fastidio che l’accostino a Giovanni Allevi?
«Un po’ sì, ma non per Allevi in sé. Questa cosa dei pianisti che “oggi hanno successo” porta a generalizzare tutto. Siamo molto diversi. Sarebbe come tirare fuori Herbie Hancock ogni volta che si parla di Keith Jarrett».
Allevi dice che la musica è rivoluzionaria, Battiato scrive un’invettiva (anche) contro Berlusconi. Come può incidere la sua musica sul contingente?
«La musica non è rivoluzionaria: è un linguaggio astratto. Certo, una canzone è diversa: Imagine ha bisogno di un testo, di un concetto esprimibile solo a parole. La mia musica ha un modo più sottile, complesso e misterioso di comunicare. Suggerisce pensieri e visioni. Ispira, neanche io so come, determinate azioni. Attiva l’intelligenza».
Chi l’«attiva» di più?
«Bach. Quando l’ascolto, percepisco un contenuto spirituale elevato, qualcosa di invisibile che muove le persone. Non ha nulla di politico, non risolve l’economia mondiale, ma ha profonde implicazioni morali. E aiuta a vedere al di là del proprio naso».
È stato Nanni Moretti, usando alcuni suoi temi in Aprile, ad aprirle le porte del successo?
«Solo in parte. Incise di più Fuori dal mondo, il film di Piccioni: sviluppai atmosfere che destarono forte impressione. Il clic l’ho avvertito alla fine dei Novanta, in Inghilterra. Una radio trasmetteva di continuo la mia musica, quando mi presentai a teatro lo trovai pieno. Qualcosa era cambiato».
Della collaborazione con Adriano Celentano che ricordo ha?
«Mi ha colpito la totale coincidenza tra personaggio pubblico e privato. Nessuna recita, essere infantile e giocoso è connaturato in lui. Quando proponemmo il disco in tivù, si presentò mezz’ora prima. Per lui era come una serata tra amici».
Di Luciano Berio, suo maestro, la affascinava la mancanza di rigidità intellettuale tipica dei compositori. Un insegnamento che ha fatto suo?
«Sarei presuntuoso se rispondessi di sì. Berio aveva previsto perfettamente lo scenario attuale: la sincronicità. È tutto sovrapposto: generi, epoche, stili. Le barriere sono cadute, la norma è la commistione: la sperimentazione. Esattamente quel che provo a fare, da molto prima che diventasse (forse) di moda».