La prima voce di cui si parla è stata quella degli studenti
dell’Onda, i quali, al termine di una lunga serie di iniziative di protesta,
domenica 15 novembre si sono riuniti per formulare la loro proposta di riforma.
Anzi, di “autoriforma”, come loro stessi l’hanno chiamata. Sono passati dieci
giorni, ma di quel proclama non si vede effetto alcuno. Molto semplice capire il
motivo per cui la proposta, pur preparata con cura e adeguatamente articolata in
più punti, non abbia ricevuto molta attenzione: si è trattato infatti di una
confusa dichiarazione d’intenti, assolutamente irricevibile e del tutto
decontestualizzata dal dibattito pubblico, nazionale e internazionale, sul
rilancio del sistema dell’università. Nulla su autonomia, governance,
valutazione: solo un antiquato catalogo sindacalese su abbassamento delle tasse,
abolizione dei contratti precari, assunzioni di massa, stipendi minimi a 1300
euro anche per i dottorandi, accessi gratuiti a cinema, teatri, musei. Proposte
sconsiderate, vista la loro assoluta insostenibilità economica; ma soprattutto
idee prive di una base culturale aggiornata, che recepisca almeno uno degli
stimoli provenienti dal dibattito provocato, tanto per fare un esempio, da un
volume di grande successo come “L’università truccata” di Roberto Perotti.
D’altronde non è il primo caso in cui un abbozzo di pars construens in tutto il
recente subbuglio anti-Gelmini abbia dimostrato la propria inconsistenza: già il
Pd, che ha a più riprese fatto proprie le ragioni del movimento di protesta,
aveva alcune settimane or sono lanciato nientemeno che un decalogo per
l’università. Iniziativa ben poco incisiva, che ha solo raccolto autorevoli
critiche di merito sulla manchevolezza delle proposte stesse (si vedano le
argomentazioni di Andrea Ichino dalle colonne de Il Sole 24 Ore).
Veniamo ora alla seconda voce “dimenticata” degli ultimi giorni, anch’essa
parzialmente collegata al tema università. Si tratta delle pubbliche dimissioni
di Irene Tinagli dal coordinamento nazionale del Pd; una comunicazione arrivata
da Pittsburgh, dove la dimissionaria risiede, tramite lettera pubblicata su Il
Riformista. Lo stesso quotidiano denunciava ieri il silenzio in cui la missiva è
stata lasciata cadere. In questo caso però, come si diceva, l’indifferenza è
colpevole, perché le argomentazioni della Tinagli sono di tutto rispetto. Ecco
il passaggio che più qui interessa: «Non ho visto nessuna proposta incisiva, se
non “andare contro” la Gelmini. Peraltro tra tutti gli argomenti che si potevano
scegliere per incalzare il ministro sono stati scelti i più scontati e deboli.
Il mantenimento dei maestri, le proteste contro i tagli, la retorica del
precariato, tutte cose che perpetuano l'immagine della scuola come strumento
occupazionale. È questa la linea nuova e riformista del PD? Cavalcare l'Onda non
basta. Serve una proposta davvero nuova, che ribalti certe logiche di
funzionamento anziché difenderle. Ma non ho visto niente di tutto questo».
Accuse pesanti, nonché stridenti, per valore culturale, con l’avvilente balletto
intorno a Villari in cui il partito chiamato in causa era nelle stesse ore (ed è
tuttavia) impegnato.
I due episodi si tengono, e la morale è del tutto semplice: facilissimo alzare
il polverone della protesta, assai più arduo giungere a proposte credibili.
Scuola e università meritano grande attenzione, e il governo non ha certo
dimostrato per il momento particolare sensibilità sull’argomento. Ma dalla parte
opposta del governo ci stanno innanzitutto coloro che vogliono, tramite difese
corporative, mantenere privilegi e situazioni di favore cementate negli anni.
L’esito al momento è che il governo scende a patti con questi per mitigarne le
reazioni, e l’opposizione cavalca le proteste dei medesimi soggetti per
guadagnarne il consenso politico. Le corporazioni sono gli unici interlocutori
cui il debolissimo mondo della politica presti attenzione. E pare che il
dibattito in Senato in questi giorni intorno al decreto sull’università stia per
l’ennesima volta dimostrando questo dato poco consolante.
Difficile, al momento, ipotizzare che le voci veramente riformiste (ci sono, e
crescono sempre più per quantità e qualità) possano al momento ricevere ascolto.
La parte innovativa e culturalmente forte del nostro paese rimane come al solito
qualcosa di totalmente estraneo agli interessi della politica, dell’una e
dell’altra parte.
Redazione mercoledì 26 novembre 2008
(Rossano Salini)