Non è chiaro se già allora nella Baia di Napoli ci fossero stornellatori ad allietare le intense serate dei loro ospiti; qui comunque non ce n’è traccia. Ci sono invece le straordinarie opere d’arte che i nababbi dell’epoca acquistavano su scala industriale e destinavano talvolta a compiti inusitati (che ne dite di una statua di bronzo riciclata come portalampada?).
In un ampio affresco un giovane alato che potrebbe essere Zefiro, con i muscoli perfettamente modellati, rimira dall’alto una coppia teneramente adagiata sul terreno. In un altro affresco le tre Grazie, nude, disegnano con i loro corpi una delicata armonia di forme. Una giovane donna, semisvestita e scalza, è sorpresa mentre si studia una ciocca di capelli davanti allo specchio. Un’altra donna avvolta in un mantello è immersa nei suoi pensieri, dominata dalla visione prospettica di un soffitto a cassettoni.
Mi soffermo sulla pittura per gusto personale; anche sculture e monili sono opere di grande valore. Ma la pittura mi invita a una riflessione un po’ cupa. Pochi minuti in questa mostra bastano per convincersi che il Rinascimento non ha scoperto niente: duemila anni fa c’erano naturalismo e pathos, prospettiva, sapienza compositiva e trompe l’oeil. Il Rinascimento, piuttosto, tutto ciò ha dovuto riscoprirlo, perché lo avevano seppellito non cenere e lapilli ma secoli d’ignoranza e d’incuria. Crediamo forse che non ci succederà altrettanto? Che ce ne proteggano musei, biblioteche e computer? Impossibile, se nessuno capirà più quel che contengono.
Gli indiani d’America dicevano che una catena è tanto forte quanto il suo anello più debole. Una civiltà è come una catena; è sufficiente una generazione per spezzarla. E noi di generazioni ne abbiamo buttate a mare più d’una. A quando, dunque, l’appuntamento con visitatori estasiati e perplessi delle nostre reliquie?
Postato il Mercoledì, 26 agosto 2009 ore 16:23:42 CEST di Maria Allo |
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