Dialogare con lo scrittore cileno Luis Sepùlveda significa accettare di intrattenere una conversazione allegorico-simbolica per cui ad ogni domanda corrisponde un racconto, si tratti della storia, di un aneddotto, dei suoi romanzi, di temi della società contemporanea, della notte precedente passata in bianco a lottare con le zanzare, sarà con una narrazione che Sepùlveda proporrà il suo punto di vista. E così come la realtà viene presentata attraverso il raccontare, il suo nuovo romanzo L'ombra di quel che eravamo (La sombra de lo que fuimos, traduzione Ilide Carmignani, Guanda, 14,50 euro) nasce da un vissuto reale. «Per spiegare com'è nata l'idea del libro devo tornare indietro a tre anni fa, quando con un gruppo di amici ci siamo riuniti a Santiago. C'erano uomini, donne, giovani e bambini. I giovani erano i nostri figli, i bambini i nostri nipoti. A un certo punto ci siamo resi conto che eravamo lì, nella casa di un amico con cui avevamo condiviso tanto, l'uomo più ricercato dal regime di Pinochet, perché capo di quell'organizzazione armata che non aveva mai smesso di fare opposizione. Tutti noi eravamo stati in carcere o avevamo vissuto qualche forma di esilio. Eppure eravamo lì felici, bevevamo e mangiavamo e raccontavamo storie a figli e nipoti, e aneddoti della militanza, ma niente veniva raccontato in toni epici. Ridevamo anche di noi stessi. E allora mi è venuta voglia di raccontare un giorno, un giorno solo di quattro personaggi che si incontrano e si trovano a vivere un'avventura che ha qualcosa di epico e che ha a che fare con il nostro passato».
In un magazzino di Santiago del Cile si danno appuntamento Lucho Arancibia, Lolo Garmendia e Cacho Salinas. Convocati dall'anarhico Pedro Nolasco, detto l'Ombra, i tre amici, ex-militanti e sostenitori di Salvator Allende, hanno in comune tante imprese ma anche uno sguardo amareggiato sulla vita. Come li descrive l'autore: Più grassi, più vecchi, pelati e con la barba grigia proiettavano ancora l'ombra di quel che erano stati. Ed è proprio a proposito dei suoi personaggi che Sepùlveda svela il suo modo di lavorare a una nuova storia: «riesco a scrivere un romanzo solo quando sono pienamente sicuro dei miei personaggi: li amo. Questo affetto mi permette di renderli esseri indipendenti. Sono loro poi a scrivere il romanzo, l'autore è una specie di cronista che li segue. Per questo romanzo in particolare mettere la parola fine è stata più dura del solito. Mentre tu scrivi esisti solo in quel mondo, in quell'atmosfera, con quei personaggi e arrivando alla conclusione del libro sei costretto ad affrontare un'altra perdita.
Non sono un alcolista, ma quando metto la parola fine mi scolo una bottiglia di whisky, poi il giorno dopo mi sveglio e dico: 'Vabbé è andata anche questa'».
Con questa confessione Sepùlveda ci ricorda dello spirito favolosamente positivo che i popoli sudamericani riescono ad esprimere spesso anche di fronte a situazioni decisamente tragiche o drammatiche. «Una particolarità dell'uomo cileno che non hai mai smesso di stupirmi è proprio quella di ridere di noi stessi. E in questo siamo radicalmente diversi per esempio dai nostri vicini Argentini. Loro se vengono abbandonati dalla loro donna entrano in depressione, vanno dallo psicanalista, scrivono un tango lacrimoso. Il cileno invece organizza un festino, non perché ci sia realmente qualcosa da festeggiare, ma perché in qualche modo bisogna raccontare quello che è successo, trasformarlo in qualcosa di allegorico, trovare delle spiegazioni. In qualche modo bisogna ridere anche di questo. C'è qualcosa di salvifico in questo atteggiamento, l'ho visto in diverse occasioni. Senza indugiare in particolari macabri, negli anni del carcere, ci torturavano e una delle pratiche più ricorrenti era strappare le unghie dei piedi, una cosa dolorosissima, che lascia i piedi gonfi, infetti eppure non c'era una volta che qualcuno non facesse una battuta: "Sono appena tornato dal podologo. È un cane, ma non gli ho certo lasciato la mancia"».
Tra passato e presente, memoria e vissuto contemporaneo Sepùlveda riesce ad essere al contempo immerso profondamente in un tempo d'azione, passione e sofferenza politica di cui è stato protagonista, ma anche ad avere uno sguardo sereno, benevolo che non gli impedisce una visione lucida e ottimista sulle nuove generazioni. «I giovani, quella della mia generazione, hanno ricevuto il testimone dalla generazione precedente e l'hanno delusa. Ma per i giovani di oggi la situazione è ancora più dura, loro devono partire da zero. Noi dovevamo solo continuare il lavoro di un'altra generazione. Sembra che ci sia tra di loro grande disinteresse per la vita sociale e la comunità, in realtà i giovani di oggi sono alla ricerca di spiegazioni e nuove forme di rappresentazione. Provo molto più imbarazzo io al pensiero di dover spiegare un giorno che una parte talmente vasta è riuscita ad eleggere Berlusconi. Sarà estremamente difficile.
Provo profondo rispetto per i giovani di oggi perché si trovano soli e a mani nude. Noi avevamo ricevuto una consegna chiara, la generazione prima ci aveva messo in mano una bandiera, noi a loro consegniamo una sconfitta: abbiamo provato a cambiare il mondo e non ci siamo riusciti. È stata la società a cambiare noi e si vede dai partiti politici di oggi che da sinistra sono andati al centro entrando in una nebulosa.
Se facciamo un passo indietro nel tempo, noi cileni abbiamo, avevamo, abbiamo avuto una cultura politica segnata in grande misura e formata dagli anarchici cileni ed europei consolidatasi agli inizi del '900 nel nord del paese intorno alle miniere. In quei luoghi è nata una classe operaia forte e combattiva, con il maggior vigore mai esistito in America. C'erano i tolstojani, i vegetariani furibondi, quelli che difendevano il nudismo e il sesso libero. Tutte queste tendenze messe insieme hanno poi portato alla formazione di una mentalità sociale e politica molto aperta e senza dogmatismi. Questo è l'unico patrimonio che lasciamo, che rivendico e intendo difendere perché il maggior valore del paese».