Secondo le
disposizioni ministeriali, ed in mancanza di un assetto definitivo
delle classi di concorso,molte discipline verranno accorpate nella
scuola secondaria di secondo grado. Il progetto di assimilazione in
poche classi di concorso di insegnamenti ritenuti similari rientra
perfettamente nella logica di snellimento degli indirizzi scolastici
previsto dalla riforma, di riordino degli istituti tecnici e dei licei
che vengono ridotti a 20 laddove prima ne esistevano nientedimeno che
750. Verosimilmente, ciò che stupisce è questa repentina controtendenza, da una parcellizzazione dei saperi a questo voler, di colpo, riassumerli in pochi e sintetici insegnamenti. E' pur vero che l'Italia è la nazione dove si presume di poter cambiare di colpo, magari con un colpo di spugna, tutto e il contrario di tutto. Ed è anche questa la ragione per cui l'Italia è la nazione al mondo dove più si legifera; si presume di supplire, forse, con gli atti normativi, ciò che non si è in grado di sviluppare e formare nelle persone,nel tempo, alla mancanza di attenzione verso consapevolezze opportunamente educate nelle persone, preferendo imporre coattivamente leggi e riforme calate dall'alto.
Negli ultimi anni, inoltre, i neodocenti , o chi aspira ad esserlo, hanno fatto incetta di titoli di specializzazioni, di punti e punticini pazientemente collezionati con la pertinacia della raccolta punti del formaggino, verso la meta agognata. Ciò che stupisce è che a fronte di tutto ciò c'è una crescita esponenziale di analfabetismo di ritorno che non ha pari. O meglio, lo svuotamento del sapere in se stesso.
Certo, sarebbe quantomeno anacronistico dover ripensare ad un ideale di sapere, diciamo aristotelico, del filosofo, del sapiente, che nell'accezione pura del termine è in grado di padroneggiare indistintamente più campi dello scibile umano, dalla fisica alla metafisica.
E ancora la riforma Gentile risentiva di quest'ideale prima che il mondo tecnologico post bellico, con la sua richiesta di saperi parcellizzati, prendesse il sopravvento.
Di fatto, la preoccupazione di formare adeguatamente il corpo docente è sempre stata presente nei vari governi. E dobbiamo riconoscere che , pur nel velleitarismo tipicamente italiano, questa preoccupazione non è sempre stata dettata in modo prioritario da logiche economiche. Con l'affidamento dei corsi di formazione alle università nelle singole regioni ( dgls 17/10/05 n. 277) si è cercato di offrire un antidoto efficace alla qualificazione approssimativa della professione docente.
Ma anche qui è mancato un passaggio, un'articolazione imprescindibile: saper coniugare la teoria con la prassi. Sicuramente la formazione affidata alle università offre molto dal punto di vista di qualificazione epistemologica del sapere. Ma a discapito di una prassi e di una metodologia che sono rimaste, spesso, monche.
Adesso, a dispetto di tante specializzazioni ed abilitazioni acquisite o perlomeno presumilbilmente acquisite, si cede il passo alla tendenza opposta: occorre sintetizzare le competenze, e per la stessa presunzione di competenza che è sulla carta e spesso conquistata con la stessa dicotomia tra teoria e prassi, si pretende che un insegnante passi disinvoltamente da un insegnamento all'altro. Il risultato, ovviamente, non è risolutivo in alcun modo.
E' chiaro che l'ipertrofia degli indirizzi di studio ha rappresentato il tallone d'Achille di una dispendiosa quanto inutile frammentazione del sapere che, del resto, per sua stessa essenza, è sempre tornata utile ad un sistema più preoccupato di creare più manovali della conoscenza che conoscitori, più informatori didascalici che formatori ed educatori, più collezionisti di trofei culturali cartacei che veri cultori del sapere. Un sistema che si presoccupa di controllare lavoratori manuali o pseudo intellettuali, prima ancora che di formare individui in grado di pensare, di creare piccolo-borghesi chiusi nel loro mondo quadrato fatto di graduatorie, registri, scartoffie burocratiche ed anche, spesso, interessi molto meschini.
Un tempo, sul muro di una scuola, una delle tante scuole delle nostre città, c'era questa scritta: chi non sa insegna, chi non sa insegnare dirige, chi non sa dirigere fa il ministro. Al di là dell'intento provocatorio di una scritta posta proprio nel tempio consacrato per antonomasia sociale alla cosidetta trasmissione del sapere, si nascondono delle verità, come in molti paradossi.
Se per anni si è inculcato nella mente dei docenti che la conoscenza equivale alla raccolta punti del famoso formaggino di cui prima, come si può, ora, da un giorno all'altro dire agli stessi soggetti che la loro schedina fatta di abilitazioni, corsi e esamucci vari, vale indistintamente per tutte le ruote?
E come convertire una cultura cubica fatta più di numero di pagine che di contenuti e di valori, nell'espressione di quella versatilità che si è sempre voluta sacrificare sull'altare dell'omologazione?
Qualcuno, ripensando ai tempi passati, rimpiange quando i docenti rivestivano un ruolo sociale più autorevole ed apprezzato. Quel qualcuno dimentica che un tempo, fino alla metà degli anni 60 almeno, il docente rappresentava ancora un'autorità in fatto di conoscenza perchè la stessa società era fatta di valori statici, di punti fermi di cui la scuola, unico soggetto formativo, era uno dei capisaldi.
Ma come pretendere la stessa cosa in una società che è sempre più l'espressione di vorticosi cambiamenti anche e soprattutto in fatto di conoscenza, o meglio, di una fattispecie di superficiale consumismo culturale usa e getta?
Dietro la parcellizzazione delle conoscenze si paventava, e non a torto, la svalutazione del sapere come esperienza omogenea e complessivamente formativa. Adesso, dietro la perdita di connotazioni identificative di ogni ambito disciplinare, dietro la sintesi di più saperi in poche categorie spesso approssimative, riemerge lo stesso problema ricacciato sempre indietro e mai affrontato seriamente: quale ruolo residuale è rimasto alla scuola come agenzia educativa? Perchè di questo si tratta al di là delle spiegazioni prettamente di ordine economico. E soprattutto vale la pena di chiedersi se in tutto questo non via sia per caso anche una corresponsabilità di chi sostiene di insegnare agli altri a capire il mondo ma che da se stesso non è stato in grado di capire nè di presagire quando era il momento di farlo, per troppa accondiscendenza, per poca lungimiranza o per naturale inerzia, ed adesso, colpito nei propri interessi piccolo-borghesi, crede di correre ai ripari in preda al panico ed alla disperazione come chi aspetta la piena del fiume prima di costruire gli argini.
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