La Corte di
Cassazione, V sez. penale, con sentenza n. 37380 del
13.07.2011, depositata il 17.10.2011, ha annullato la sentenza
assolutoria della Corte d’Appello di Caltanisetta che aveva assolto dal
reato di ingiuria un dirigente scolastico che, nel corso di un
consiglio di istituto, si era rivolto ad un docente con l’espressione
“lei dice solo stronzate”.
La Suprema Corte ha ritenuto che la collocazione dell’episodio in
una riunione di docenti di un istituto scolastico, lo svolgimento dello
stesso in presenza di colleghi quotidianamente impegnati in un’attività
professionale comune a quella del soggetto passivo e la provenienza
dell’espressione contestata da un immediato superiore gerarchico, sono
elementi rilevanti al fine di definire l’incidenza lesiva della
condotta sul bene giuridico dell’onore. Ha pertanto annullato la
sentenza assolutoria, rinviando alla Corte d’Appello per un nuovo esame
che tenga conto dei suddetti elementi. http://www.dirittoscolastico.it
Tale vicenda dà l’occasione per un breve riflessione sull’estrema
incertezza del confine proprio del diritto di critica ed in particolare
del parametro della “continenza espressiva”.
Come noto, infatti, uno dei principali parametri di bilanciamento tra
il diritto alla libera espressione del pensiero ed il diritto all’onore
o reputazione, è individuato dalla giurisprudenza nella cosiddetta
“continenza”, cioè nel fatto che l’espressione di un’opinione critica,
per sua natura soggettiva e spesso aspra, non trasmodi in
un’aggressione alla sfera morale della persona.
Esaminando la copiosa giurisprudenza in tema, si possono segnalare
pertanto almeno due criteri guida importanti: da un lato l’asprezza ed
aggressività del linguaggio deve essere valutata alla luce dell’attuale
livello di sensibilità sociale. In proposito Cass. pen. n. 34432/2007
ha, ad esempio, rilevato come “il linguaggio usato dai cittadini, dagli
uomini politici, dai sindacalisti e dai cosiddetti opinion leaders è
molto mutato nell’ultima parte del secolo scorso. Ormai siamo abituati,
come telespettatori, ad assistere a vere e proprie aggressioni verbali
e contumelie che affermati uomini politici non esitano a scambiarsi.
Siffatto modo di esprimersi e di rapportarsi all’altro è certamente
poco opportuno ed è certamente censurabile sul piano del costume, ma
bisogna prendere atto che esso è ormai accettato, o forse meglio dire
sopportato, dalla maggioranza dei cittadini che, pur contestando l’uso
di un linguaggio troppo aggressivo, stentano a credere che si debba far
ricorso in tali casi a sanzioni penali. E’ sintomo questo che la
sensibilità e la coscienza sociale sul punto sono molto cambiate”.
Con riferimento a questo primo elemento, relativo alla
desensibilizzazione sociale verso certe espressioni linguistiche, si
possono citare alcuni casi esemplificativi: Cass. pen. n. 3372/2010 ha
ritenuto che non integri reato l’espressione “latitante e incompetente”
che un condomino aveva rivolto pubblicamente all’amministratore di
condominio; Cass. pen. n. 17672/2010 ha del pari ritenuto non
diffamatoria l’espressione “pazzo” riferita al titolare di uno studio
professionale e pronunciata nel contesto di una discussione tra
colleghi.
Il secondo criterio da tenere in considerazione è quello concernente
l’oggetto della espressione critica: un conto è se essa si riferisce ad
una condotta tenuta dal destinatario, altra cosa se essa è rivolta a
denotare una qualità generale e permanente della personalità del
destinatario. In questo secondo caso la critica sfocia nell’inutile
aggressione alla sfera morale altrui e pertanto esula dal legittimo
esercizio del diritto di critica.
Facendo applicazione di questi criteri generali ormai abbastanza
consolidati nella giurisprudenza, la Corte d’Appello di Caltanisetta
–nell’esaminare la questione del dirigente scolastico- aveva
argomentato l’assoluzione affermando che, non risultando provato che il
dirigente avesse premesso l’avverbio “solo” alla parola “stronzate” (e
risultando conseguentemente provata l’espressione “lei dice stronzate”,
non già quella “lei dice solo stronzate”) la frase appariva indirizzata
non al modo d’essere della persona, ma a quanto la stessa aveva
affermato nella specifica circostanza della discussione in consiglio di
istituto.
La Corte di Cassazione, però, nella sentenza che si commenta, ha
osservato che “pur non considerando l’avverbio, non è invero possibile
valutare la portata offensiva del termine oggetto dell’imputazione,
sotto il profilo della sua incidenza sulla persona del soggetto passivo
piuttosto che sulla sola validità dell’opinione dallo stesso
manifestata, in una prospettiva avulsa dal contesto nel quale
l’espressione è pronunciata”.
E prosegue con la seguente, centrale, considerazione: “il giudizio
sulla lesione effettiva dell’onore e del decoro non può prescindere dal
considerare se, rispetto all’ambiente nel quale una determinata
espressione è profferita, la stessa si limiti alla pur aspra critica di
un’opinione non condivisa ovvero trasmodi nello squalificare la persona
destinataria”.
Dunque sembra possa trarsi la conclusione che la valenza offensiva di
un termine deve valutarsi in relazione ai diversi contesti ambientali
in cui si realizza l’azione.
Come dire, e pare difficile non condividerlo, che un contesto di
educatori non è quello di un’assemblea condominiale né quello di un
rissoso dibattito televisivo tra politici.
Avv. Gianluca Dradi
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