Il poeta Mario Rapisarda, (modificato in
Rapisardi, in omaggio a uno dei suoi autori preferiti, Leopardi) nacque
a Catania il 25 febbraio 1844. Suo padre, un agiato procuratore legale,
pur non impegnato politicamente, era di idee liberali e amico dei
rivoluzionari fucilati durante la rivolta a Catania del 1837. Il
giovane Mario Rapisardi, oltre ad amare la letteratura e la storia, si
dedicava alla pittura e suonava discretamente il violino. Leggeva,
soprattutto, gli autori italiani, Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi e
vari scrittori risorgimentali, esordì, nel 1859 con l’Ode a Sant'Agata
vergine e martire catanese, e scrisse, ancora adolescente, l’Inno di
guerra, agl’italiani e l’incompiuto poemetto, Dione, nella cui
prefazione esaltava le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta,
partecipando così all’atmosfera politica di quei mesi, culminata con
l’impresa di Mille, che poneva fine, in Sicilia, alla monarchia
borbonica. Rapisardi iniziò i suoi studi dai gesuiti e, per assecondare
i voleri del padre, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, senza
laurearsi, lo interessava molto, invece, lo studio dei classici greci e
latini, che gli suggerirono le prime traduzioni e le ricerche
filologiche e filosofiche di carattere positivistico. Frutti di questo
periodo formativo furono i poemetti Fausta e Crispo e i Canti. Nel
1865, Rapisardi, partì per Firenze, allora capitale del Regno, per il
sesto centenario della nascita di Dante, cui dedicò l’ode declamata in
quell’occasione e qui, in un clima acceso da fermenti mazziniani e
repubblicani, strinse amicizia con i poeti Dall’Ongaro, Prati, Aleardi,
Fusinato, Maffei, Pietro Fanfani, con l’orientalista De Gubernatis e
con altri importanti artisti e intellettuali. Nel 1868 pubblicò il suo
primo poema, La Palingenesi, dove in 10 canti polimetri condannava la
corruzione del clero e difendeva l’azione moralizzatrice di Lutero,
prospettando, col connubio arte-scienza, il ritorno del cristianesimo
alla purezza originaria. Il successo dell’opera (Verga fu uno dei primi
a congratularsi ed anche Victor Hugo fu tra i più convinti estimatori)
echeggiò anche all’estero, mentre il Comune di Catania gli assegnò una
medaglia d’oro e, nel 1870, il ministro della Pubblica Istruzione,
Cesare Correnti, lo chiamò a insegnare Letteratura italiana presso
l’ateneo catanese. Nel 1872 pubblicò a Pisa la raccolta di liriche, Le
ricordanze, che rivelavano una genuina vena intimista e richiamavano la
poesia leopardiana, che egli amò tanto. Nello stesso anno sposò la
fiorentina, Giselda Fojanesi, che, successivamente, cacciò di casa il
12 dicembre 1883, avendo scoperto che si era legata al Verga. Nell’85,
Mario Rapisardi, iniziò a convivere con una diciottenne assunta come
segretaria, Amelia Poniatowski, figlia di genitori ignoti, che gli sarà
compagna fedele per tutta la vita. Nel 1875, a Firenze, pubblicò
Catullo e Lesbia. Nel 1876 Pietro II, imperatore del Brasile,
assistette ad una sua lezione, mentre spiegava l’ultimo libro del De
Monarchia di Dante. Uno studio critico su Catullo gli valse, nel 1875,
la nomina a professore straordinario di Letteratura italiana e
l’incarico di Letteratura latina all’Università di Catania. Nel 1878
venne nominato professore ordinario di Letteratura italiana
all’Università degli Studi di Catania, essendo Ministro della Pubblica
Istruzione, Francesco De Sanctis, che lo stimava. Nel 1877 uscì il suo
secondo poema, Lucifero, ispirato dalla Guerre de Dieux del Parny, ma
anche da Milton e dal carducciano, Inno a Satana. Il poema, in 15 canti
polimetri, pur essendo diseguale a livello artistico (definito da una
parte della critica, “efficaci descrizioni e qualche episodio
memorabile oppone una certa macchinosità d’insieme e non rare cadute di
tono per non dire di gusto”), resta l’espressione più significativa
della scuola poetica italiana positivista. Per il Lucifero, Rapisardi,
ricevette un biglietto entusiastico di Garibaldi, che si firmò "suo
correligionario", mentre, subì dure critiche dalle gerarchie
ecclesiastiche, l’arcivescovo di Catania ordinò, pare, un autodafé del
libro. Il Carducci, al quale aveva “devotamente” inviato una copia del
Lucifero, resosi conto d’essere oggetto di caricatura in alcuni versi
del XI canto ("plebeo tribuno e idrofobo cantor, vate di lupi"), aprì
col Rapisardi una lunga polemica che avrebbe divido l’Italia letteraria
degli anni '80. Addirittura, Federico de Roberto, iniziò la sua
carriera letteraria con il saggio, Giosuè Carducci e Mario Rapisardi.
Polemica, pubblicato a Catania, nel 1881, dall’editore Giannotta.
Dall’epistolario di Giosuè Carducci si scoprirono frasi poco tenere,
risalenti agli anni '60, nei confronti del Rapisardi, che certo non era
di carattere facile e che, in fondo, stimava solo pochi poeti, suoi
contemporanei, come Arturo Graf. Molte delle sue frecciate tuttavia
rimasero o inedite o affidate alla discrezione dei suoi interlocutori
epistolari. Di pubbliche vi furono solo le allusive caricature
schizzate in certi passi dei suoi poemi. Rapisardi pubblicò, nel 1883,
i versi sociali (e sarcastici) di Giustizia, che trovarono vasti
consensi. Nel 1924, in pieno periodo fascista, quest’opera,
addirittura, sarà proibita dal regime. Nel 1884 uscì il suo capolavoro,
il poema Giobbe: la figura del protagonista, umiliato e castigato da
Dio senza motivo, diventa un simbolo dell’umanità sofferente. I versi,
dove il personaggio grida a Dio la sua disperazione, toccano altezze
forse ineguagliate nella poesia italiano del secondo Ottocento. Nel
1887 dà alle stampe le splendide Poesie religiose, forse il suo vertice
lirico, cui seguirono i Poemetti ('92) e gli Epigrammi ('97), nonché
delle impegnative traduzioni di opere di Catullo, Shelley e Orazio,
anche se la cosa più importante resta la traduzione e lo studio critico
del poema La natura di Lucrezio ('79). Nel '94 pubblicò il suo quarto e
ultimo poema, L'Atlantide, dove, ispirandosi ai Paralipomeni del
Leopardi, disegnava, nelle vicissitudini del poeta Esperio, la società
italiana lasciva e inetta, additando nella corruzione il principio dei
mali. Nel poema attaccava e disprezzava la società borghese, mentre
cantava le figure di Newton, Darwin, Pisacane, Marx, Cafiero e altri
grandi della storia universale. Inoltre, nella prefazione a Gli
avvenimenti di Sicilia e le loro cause (1894), denunciò, con lucidità e
coraggio, la criminale politica del governo Crispi (vedi la repressione
dei "fasci siciliani"), e nei pamphlet Leone ('95) e Africa orrenda
('96), spiegò le feroci repressioni dei moti contadini e operai, e
avversò la politica colonialista intrapresa dal governo
crispino. Nel 1905 Mario Rapisardi
aveva raggiunto l’apice della fama, persino, il proposito di congedarlo
dall’Università di Catania causò l’indignata protesta degli studenti di
molti atenei italiani. La concezione che Rapisardi aveva della scuola è
molto diversa da quella che hanno molti, i quali scambiano
l’insegnamento con un qualunque mestiere. Egli pensava “che la scuola
fosse un istituto di massima importanza nella vita pubblica, che essa
dovesse essere fucina di valori morali e palestra di educazione delle
giovani generazioni, riteneva che la scuola non potesse essere estranea
alla vita, se di essa non si vuol fare un esercizio di espiazione
ovvero un museo di fossili”. Negli ultimi anni della sua vita il poeta
catanese si chiuse in un silenzio ostinato, indifferente agli onori dei
concittadini che superarono, di gran lunga, quelli tributati a Verga,
De Roberto, Capuana. Rifiutò, ad esempio, la candidatura offertagli dal
collegio elettorale di Trapani con ben 6200 suffragi, cifra allora
straordinaria, accusando la sua debole salute, l’insufficienza dei suoi
studi e l’indole “aliena da negozi politici”. Rapisardi, inoltre, per
aver celebrato nelle sue opere l’unità d’Italia e le guerre
d’indipendenza nazionale, venne insignito, lui, schietto repubblicano,
del titolo di Cavaliere della Corona d’Italia. Non lo toccarono neppure
le critiche di molti studiosi (specialmente il Croce), anche se tra le
sue carte furono trovati feroci epigrammi contro gran parte dei
letterati dell’epoca: Fogazzaro, Croce, Pascoli, Carducci, D'Annunzio.
Mario Rapisardi morì il 4 gennaio 1912 a Catania: al suo funerale
partecipò una folla enorme, oltre 150.000 persone, con molte
rappresentanze ufficiali, giunte, persino, da Tunisi. La città etnea
tenne il lutto per tre giorni. Nonostante questo, a causa del veto
imposto dalle autorità ecclesiastiche, la sua salma rimase, per quasi
dieci anni, depositata in un magazzino del cimitero comunale.
Successivamente, il nome di Mario Rapisardi, rimasto in ombra per tutto
il periodo del fascismo, riaffiorò, solamente, nel dopoguerra, grazie
agli studi di Concetto Marchesi, Asor Rosa, La Penna e Saglimbeni che
gli tributarono i giusti riconoscimenti di insigne poeta, fine
educatore e, soprattutto, di spirito libero. “Amate la verità più della
gloria, più della pace, più della vita. Fate di essa la vostra spada e
il vostro scudo”.
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it