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Leggi: Il DDL FORNERO in aula al Senato; le nuove norme sui licenziamenti negli interventi di Pietro Ichino

Recensioni

Per un commento tecnico di questa nuova disciplina leggi la mia relazione al convegno di Pescara dell'11 maggio e l'opinione di un economista nell'articolo di Andrea Ichino sul Corriere della Sera di giovedì, Lavoro: il coraggio del ministro non basta.
UN PROBLEMA DI COSTITUZIONALITÀ EFFETTIVAMENTE SI PONE, MA NON SU QUESTO DISEGNO DI LEGGE, BENSÌ SULLA PROSPETTIVA DI LASCIARE INALTERATO IL NOSTRO ORDINAMENTO ATTUALE DEL MERCATO DEL LAVORO
Intervento nella discussione sul disegno di legge n. 3249/2012, svolto nel corso della seduta antimeridiana del Senato del 24 maggio 2012
[...]
ICHINO (PD). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signora Presidente, onorevoli colleghi, signora Sottosegretario, che – contrariamente a quanto dice il collega Lannutti – è presente e rappresenta degnamente il Dicastero, vorrei innanzi tutto proporre alcune considerazioni che avrei dovuto svolgere ieri sera sulle due questioni di costituzionalità sollevate dall’Italia dei Valori e dalla Lega, cosa che non ho potuto fare per l’incombere dell’orario di chiusura della seduta.
Per esprimere in modo più sintetico la nostra posizione al riguardo, porrei la questione così: un problema di costituzionalità esiste, ma non su questo disegno di legge, bensì sulla prospettiva di lasciare inalterato un ordinamento quale è quello che regola il mercato del lavoro oggi nel nostro Paese.
In primo luogo, esso consente di fatto che più di metà della forza lavoro sia esclusa dal campo di applicazione della normativa generale di protezione della stabilità del lavoro, come se l’articolo 35 della Costituzione valesse solo per l’altra metà dei lavoratori. Su questo punto non ho sentito accenti sdegnati da parte di chi ha sollevato le questioni di costituzionalità ieri respinte dalla nostra Assemblea.
In secondo luogo, il nostro è un ordinamento che ancora oggi, a più di sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, non dispone di un sistema universale di sostegno del reddito dei lavoratori dipendenti che perdono il lavoro.
Il nostro è, infine, un ordinamento caratterizzato, ormai da sessant’anni, da una crepa profonda, costituita dalla contraddizione tra il principio di insindacabilità delle scelte di gestione dell’impresa, riaffermato infinite volte in astratto nelle sentenze delle corti superiori ma anche dei giudici di merito, e le numerose regole che prevedono invece un penetrante e ben comprensibile nella vecchia logica (ma appunto contraddittorio con il principio di cui sopra) controllo giudiziale sulle scelte imprenditoriali medesime.
Per la prima volta in sessant’anni, nei quali numerose leggi importanti in materia di lavoro sono state varate (ma negli ultimi decenni soltanto al margine, soltanto sulla fascia dei peripheral workers), un disegno di legge affronta e risolve innanzitutto il problema di dotare il Paese di un sistema di assicurazione universale contro la disoccupazione, d’impostazione moderna, estesa a tutto il mondo del lavoro subordinato. Nell’immediato, parlare a questo proposito di lavoro subordinato significa che il problema non è interamente risolto (anche se c’è un inizio di risoluzione) per quella parte di lavoro dipendente costituita dai cosiddetti collaboratori parasubordinati. Qui resta un problema aperto, quello del trattamento di disoccupazione per questi lavoratori, rispetto al quale l’impegno del Partito Democratico è di mantenere viva l’attenzione nel prossimo futuro. Quando le risorse disponibili lo consentiranno, sarà necessario un intervento più esteso e organico. Va anche detto però, a questo proposito, che, se le norme per il riassorbimento del precariato e di contrasto alla simulazione delle collaborazioni autonome produrranno il loro effetto, questo problema dovrebbe ridursi di peso, nel senso che l’area di scopertura dovrebbe necessariamente ridursi.
Questo, infatti, è il secondo punto essenziale della riforma: per la prima volta nell’ultimo quarantennio, da quando era incominciato a manifestarsi nel nostro Paese il fenomeno della fuga dal lavoro subordinato in funzione di elusione ed evasione del diritto del lavoro, attraverso l’abuso delle collaborazioni autonome, per la prima volta – dicevo – questo disegno di legge dispone una normativa volta a riassorbire almeno gran parte di queste forme di simulazione, difficilmente contrastabili con gli strumenti ispettivi e processuali fin qui utilizzati a tal fine.
Questo – osservo – è il presupposto indispensabile per poter avviare il riequilibrio di quello che è manifestamente un assetto insoddisfacente: quello della contribuzione previdenziale nella zona oggi grigia per mancanza di criteri di distinzione efficaci tra la simulazione e il vero lavoro autonomo. Se consideriamo che la contribuzione previdenziale sui redditi dei veri liberi professionisti iscritti alla gestione separata dell’INPS grava interamente sui medesimi, se consideriamo che la contribuzione previdenziale grava su di essi in rapporto al costo orario complessivo in misura superiore rispetto a quanto grava sul costo orario complessivo del lavoro subordinato, se consideriamo che già oggi la contribuzione previdenziale grava sui liberi professionisti in questione in misura nettamente superiore rispetto a quanto essa grava sui redditi dei liberi professionisti iscritti a casse pensionistiche di categoria, credo che sia evidente il dovere di noi tutti di impegnarci affinché, nell’ambito di una generale armonizzazione delle aliquote di contribuzione previdenziale gravanti sui liberi professionisti, a partire dal 2013 si realizzi una revisione anche del programma che in questo disegno si esprime e sul quale ho sempre manifestato il mio personale dissenso (non solo mio personale, del resto: abbiamo sentito come anche il collega Nerozzi abbia espresso poco fa la stessa posizione) rispetto alla scelta qui compiuta dal Governo. L’aliquota sui veri liberi professionisti della Gestione Separata INPS può essere armonizzata rispetto alle altre proprio in quanto il criterio distintivo fra vera libera professione e parasubordinazione, che è sostanzialmente lavoro dipendente che deve essere protetto come quello subordinato, si affermi in modo chiaro e netto.
Il terzo pilastro di questa riforma, coessenziale rispetto ai primi due, è costituito dall’allineamento del nostro ordinamento con il resto d’Europa anche in riferimento alla disciplina dei licenziamenti. A questo proposito l’intendimento fondamentale della riforma può esprimersi sinteticamente così: realizzare un ordinamento nel quale quella che la teoria generale del diritto qualifica come property rule, cioè la sanzione reintegratoria, si applichi nei casi di lesione di diritti fondamentali della persona: il diritto alla libertà, alla dignità e onorabilità personale e quindi la discriminazione o l’accusa totalmente infondata. Questi sono i casi in cui deve applicarsi la sanzione reintegratoria. In tutti i casi in cui, invece, sia in gioco soltanto un interesse economico o professionale del lavoratore, in linea con quanto accade in tutti i grandi ma anche meno grandi Paesi occidentali, industrializzati e avanzati, si deve applicare la cosiddetta liability rule, cioè si deve stabilire un indennizzo. Qui si realizza il superamento della contraddizione tra insindacabilità delle scelte gestionali e controllo sulle medesime scelte in funzione di tutela del lavoratore. L’indennizzo diventa il filtro delle scelte imprenditoriali, nel senso che diventa una misura automatica della perdita attesa dall’impresa (causata dalla prosecuzione del rapporto) idonea a giustificare il licenziamento, fissando la soglia oltre la quale la perdita stessa non può essere accollata al bilancio aziendale.
Ecco, con questo disegno di legge, anche se con qualche elemento di compromesso che rende meno nitida la linea di demarcazione tra il campo di applicazione della property e e quello della liability rule, noi affermiamo questo principio e in questo modo, ripeto, ci allineiamo, molto opportunamente, al resto dell’Europa.
Vorrei solo aggiungere, signora Presidente, che le principali questioni di costituzionalità che sono state poste e respinte ieri si appuntano fondamentalmente su quest’ultimo aspetto del disegno di legge, quasi che la nostra Costituzione sancisca un principio di immodificabilità costituzionale del campo di applicazione della property rule in materia di licenziamenti. È evidente che non può essere così perché, se fosse così, sarebbe incostituzionale tutta l’area del nostro diritto del lavoro dove la reintegrazione non si applica (infatti, ad esempio, alle imprese che contano fino a 15 dipendenti la property rule non si applica). La stessa Corte costituzionale lo ha detto più volte nell’arco dell’ultimo mezzo secolo. Ad esempio lo ha affermato nel 1965, nell’epoca in cui si discuteva della prima legge sulla giusta causa, quando ha avvertito come fosse molto opportuna quella legge allora in gestazione, specificando però che essa non era costituzionalmente vincolata. Lo ha ripetuto nel 2000, in occasione del referendum promosso dai radicali per l’abolizione dell’articolo 18, quando ha sancito la legittimità di quel referendum, proprio sul presupposto che la reintegrazione non è una sanzione costituzionalmente vincolata, ben potendo essa venir sostituita da una sanzione di carattere indennitario; e lo ha ribadito nel 2008 con la sentenza n. 351, dove ha rammentato che la reintegrazione può essere costituzionalmente vincolata nel settore pubblico, laddove essa tuteli un interesse pubblico alla libertà di esercizio della funzione contro discriminazioni o pressioni indebite, ma ha espressamente ribadito la non applicabilità di tale vincolo costituzionale nel settore privato.
Dunque, non solo possiamo respingere serenamente quelle questioni di costituzionalità, ma dobbiamo riaffermare che la Costituzione non afferma affatto un principio di immodificabilità di vecchie tecniche di tutela, bensì afferma il principio di necessario contemperamento tra le forme di tutela che il legislatore, nella sua discrezionalità, adotta e un principio di diritto al lavoro di chi il lavoro non lo ha, che troppo spesso viene dimenticato. Viene dimenticato, soprattutto, dai paladini di una “costituzionalità” che, secondo i loro intendimenti, dovrebbe servire soltanto a paralizzare il sistema, impedendo la sua evoluzione verso forme più progredite e avanzate. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Castro e Sbarbati. Congratulazioni).
DUE VALUTAZIONI POSITIVE, MA DA DUE PUNTI DI VISTA DIVERSI, DALL’INTERNO DELLO SCHIERAMENTO DI MAGGIORANZA, E UNA NETTAMENTE NEGATIVA DALL’OPPOSIZIONE
Relazioni introduttive svolte in Senato da Maurizio Castro e Tiziano Treu, relatori di maggioranza, e Giuliana Carlino, di minoranza, nella seduta pomeridiana del 23 maggio 2012
CASTRO (PdL). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CASTRO (PdL). Signor Presidente, signor Ministro, signor Sottosegretario, onorevoli colleghi, giunge in Aula, dopo un lavoro intenso e approfondito in Commissione, la riforma del mercato del lavoro, la cui genesi non può non essere ritrovata nella lettera scritta il 5 agosto dell’anno scorso dal Governatore uscente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, insieme al Governatore entrante, Mario Draghi.
In quella lettera, con grande nitidezza veniva chiesto al nostro Paese il ridisegno dei sistemi regolatori per sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro, con una interessante endiadi concettuale, nel momento in cui il mercato del lavoro non viene considerato come un limite esterno alla competitività delle imprese, ma come un vettore interno alla medesima. In particolare, veniva chiesto da un lato, oltre naturalmente ad una severa riforma delle pensioni e ad un severo contenimento delle spese generate dalla pubblica amministrazione, un focus sulla produttività e sul livello aziendale nella riforma del sistema della contrattazione aziendale stessa e, testualmente, «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».
Una prima risposta fu data dal Governo allora in carica con il decreto-legge n. 138 del 2011, nel quale a queste sollecitazioni si cercava di rispondere con una facoltizzazione straordinaria delle parti sociali, in presenza di determinate condizioni organizzative e competitive, derogando a talune norme dello Statuto dei lavoratori, compreso l’articolo 18. Una strada senza dubbio interessante, ma che di fatto fu resa inagibile dalla dichiarazione con la quale le parti sociali, sottoscrivendo definitivamente l’accordo interconfederale del 28 giugno di quello stesso anno il 21 settembre, in concreto, forse incautamente, dichiararono di non intendere proseguire su quella strada. A questo punto, il nostro Paese si trovava in una condizione di potenziale inadempienza rispetto alle sollecitazioni della BCE.
Il Governo di allora assunse, con la lettera del 26 ottobre, un impegno molto scandito, sempre per corrispondere alle sollecitazioni internazionali, che avevano trovato materiamento nella lettera della BCE, ma che coralmente provenivano da tutti i più autorevoli organismi internazionali: dal Fondo monetario internazionale, dall’OCSE, dal Consiglio europeo, dalla Commissione europea. Ricordo come, con quella lettera del 26 ottobre, il Governo… (Brusìo). È veramente difficile andare avanti, Presidente; le chiedo sommessamente soccorso.
PRESIDENTE. Colleghi, si sta svolgendo la relazione su un importantissimo disegno di legge, su una riforma organica del mondo del lavoro. Inviterei tutti ad un maggior contegno e ad una maggiore attenzione, segnalando che chi non è interessato ha sempre la possibilità di lasciare l’Aula. Ci terrei che sin dall’inizio – e mi scuso nuovamente con il relatore – questo disegno di legge venga seguito dall’Aula con la doverosa, massima attenzione.
Ho garantito a tutti i Gruppi di opposizione disponibilità sui tempi della discussione generale, ho auspicato anche che l’Aula abbia la possibilità di discutere e di votare. Se questo mio auspicio non si accompagna ad un comportamento conseguente dei senatori credo che vada disperso, e questo mi dispiacerebbe molto.
Prego, continui pure, senatore Castro.
CASTRO, relatore. Con quella lettera del 26 ottobre – dicevo – il Governo si impegna a riformare, entro otto mesi, il mercato del lavoro per superarne il dualismo, da un lato contrastando le forme improprie di lavoro dei giovani e, dall’altro, adottando nuove regole di licenziamento per motivi economici. Ancora un’endiadi suggestiva dal punto di vista intellettuale: la connessione tra legalità e flessibilità. La legalità è il presupposto della flessibilità, è la condizione che rende agibile la flessibilità e insieme, flessibilità e legalità, sono vettore competitivo del nostro sistema produttivo. Mi preme ricordarlo in un momento nel quale talora il dibattito è sdrucciolato nel ritenere la sregolazione un elemento portante in un momento di crisi come questo.
Sappiamo tutti quel che accadde dopo: la lettera di Olli Rehn del 4 novembre, le 39 incalzanti domande; il 4 novembre è molto vicino all’8 novembre: il quadro politico cambia, si insedia il Governo dei tecnici, il quale, dopo aver adottato lestamente una riforma delle pensioni particolarmente incisiva, affronta il territorio della riforma del mercato del lavoro. Lo fa con una significativa consultazione delle parti sociali, dove il valore del termine «significativa» è dato non solo dalla sua intensità, ma anche dal fatto che viene quasi programmaticamente affermato che tale consultazione è, giustappunto, una consultazione i cui esiti non sono vincolanti per le decisioni che poi il Governo adotterà, secondo uno schema europeo che, per certi versi, si discosta da alcune consolidate tradizioni storiche italiane in cui l’inclinazione verso la concertazione era stata prevalente.
Ricordo a me stesso come quel 23 marzo, a conclusione dell’iter di consultazione, tutte le parti sociali (salvo una) dichiarano il loro consenso, la loro adesione al documento che conclude la fase della consultazione. Inizia poi la vera e propria fase parlamentare, la quale ci vede oggi giungere al dibattito in Aula.
Consentitemi di individuare insieme con voi quali siano le sfide alle quali siamo oggi da questo provvedimento chiamati a rispondere.
La prima – perdonatemi – è una sfida istituzionale. Nel momento nel quale questa riforma è seguita con straordinaria intensità – un’intensità accompagnata persino da qualche sospetto nei confronti della nostra capacità, della capacità del nostro Paese di positivamente corrispondervi, da parte di tutti gli organismi internazionali – il Parlamento è chiamato a dare una risposta istituzionale approvando il provvedimento contenente l’impegno assunto dall’allora Governo Berlusconi di otto mesi, che scadranno alla fine del mese di giugno. Siamo chiamati a tenere fede a questo impegno con una capacità di risposta che dimostra come un Parlamento tradizionale dell’Occidente sia capace di dare risposte normative con la stessa prontezza, agilità, flessibilità – se mi consentite una citazione vagamente ironica – dei mercati finanziari. Dobbiamo cioè essere in grado di dimostrare che questo organismo istituzionale non teme le sfide della contemporaneità più esasperata. Ebbene, questo provvedimento, un provvedimento di 72 articoli, singolarmente e straordinariamente complesso, incardinato in Commissione soltanto 42 giorni fa, oggi giunge in Aula.
Vi è poi una sfida competitiva, come prima rammentavo, che si richiama ancora una volta al tema di quella che poc’anzi ho definito l’endiadi legalità-flessibilità. In realtà, dobbiamo decidere quale modello competitivo vogliamo complessivamente assumere per la rinascenza economica del nostro Paese. Infatti, dobbiamo fare quella che in gergo si chiama una scelta di high-road strategy, di via alta, al riposizionamento competitivo del nostro Paese nel suo sistema economico, accettando che la centralità di quella sfida sia data dal permanere il nostro Paese ed il suo sistema economico-produttivo nei settori tradizionali, ma giustappunto riposizionandoli a presidio dei segmenti più pregiati dei mercati internazionali, e dunque con la centralità sul prodotto. Il prodotto è l’espressione naturale, libera, autentica e compiuta dei sistemi integrati di esperienza, intelligenza e competenza che sono le risorse umane.
Se questo percorso riesce, allora, è evidente che il sistema non può più consentire scorciatoie concettuali ed operazionali tipo quelle che vedono talune imprese sopravvivere sul mercato solo incorporando nella propria struttura dei costi quote di legalità. Non funziona così!
Vi è un’implicita, ma non per questo meno scandita funzione sanamente pedagogica – lasciatemelo dire – in tale provvedimento. Questo disegno di legge deve assumere che se vogliamo il riposizionamento nei segmenti alti e pregiati dei mercati internazionali, certe scorciatoie non solo non sono efficaci, ma anzi sono contaminanti e paralizzanti; non sono soltanto una zavorra per il sistema produttivo sano, quello che esprime le eccellenze vincenti, ma sono addirittura una polluzione rispetto ad esso.
Vi è anche un’altra sfida: quella della complessità. Qui vi erano state tentazioni diverse. Un’eccessiva enfasi attribuita al contratto unico lasciava, ad esempio, immaginare che l’idea della risposta competitiva accennata fosse di tipo semplificatorio, come se in qualche modo si volesse sfuggire alla sfida e alla drammatica complessità non solo del contesto competitivo internazionale, ma anche del concreto atteggiarsi delle nostre strutture produttive, le quali hanno nell’Occidente industriale una loro invincibile specialità: la dominanza delle piccole imprese è soprattutto italiana; la presenza di una pubblica amministrazione tanto arretrata è tipicamente italiana; un così elevato tasso manifatturiero è tipicamente italiano; un così alto tasso di vocazione all’export è tipicamente italiano.
Bisogna rispondere alla complessità con la pluralità, con una strumentazione particolarmente articolata ed organizzata. Credo che il provvedimento in esame, nella sua pluralità, risponda alla complessità di quel mercato del lavoro che deve andare virtuosamente a regolare facendone un booster possibile di competitività, agganciando la ripresa e facendo sì che dalla ripresa sia generata occupazione buona, di qualità, regolare e in ogni caso occupazione, e in qualche modo consentendo di trasformare significativamente sviluppo ed occupazione.
Non ci può sfuggire che vi è anche una sfida politica. Pensate, illustri colleghi, che in una situazione analoga, nel 1992, cioè in un quadro di straordinaria turbolenza finanziaria e di clamorosa delegittimazione della politica, la risposta che fu data fu esattamente il contrario di quella che oggi stiamo sperimentando. All’epoca vi fu un’esplicita supplenza delle parti sociali rispetto ai partiti: con il cosiddetto protocollo Amato del 31 luglio 1992 e con il successivo protocollo Ciampi del 20 luglio del 1993 le parti sociali esercitarono la supplenza rispetto ai partiti. Questa volta le parti sociali sono in qualche modo uscite dalla partita il 23 marzo scorso. Da allora la partita è condotta direttamente, con grande responsabilità e generando frutti maturi, dai partiti. Dai partiti! In Commissione sono stati approvati emendamenti negoziati dai partiti della maggioranza e dai partiti della maggioranza, attraverso i loro relatori, con il Governo. È una novità che anche dal punto di vista politico non giudicherei così secondaria.
Infine, signor Presidente, onorevoli colleghi, è anche una sfida civile nel momento in cui risorge il terrorismo a dieci anni dal martirio di Marco Biagi. Nel momento in cui esiste una situazione di evidente lacerazione di valori di riferimento della nostra Nazione; nel momento in cui comportamenti feroci, sciagurati, dissennati tornano ad occupare bruscamente e brutalmente le cronache, la nostra capacità di dare una risposta eticamente compatta, tutti insieme, credo diventi cruciale. E quanto poco questo sia banale e quanto questo influenzi anche il concreto articolarsi dei contenuti del provvedimento è dato da una riflessione: in Italia non si sono mai avute riforme bipartisan in un ambito come quello del lavoro, che invece si connota per la sua tradizionale, spesso cupa e spesso fosca, divisività.
Saremo chiamati tra poco ad approvare la prima riforma organica del mercato del lavoro adottata con un tasso così alto di consenso parlamentare che attraversa forze politiche che su questo tema fino a ieri, spesso anche aspramente, si dividevano. E lo sforzo che abbiamo dovuto fare tutti insieme è stato quello di evitare che le diverse prospettazioni di interesse generassero uno stallo, un blocco: riuscire ad essere, nel contemperamento delle diverse prospettive, propulsivi. Io credo che ci siamo in larga misura riusciti.
Velocemente, per non rubare tempo al mio amico senatore Treu, dirò dove rivendichiamo la qualità del provvedimento e anche qui dirò cose forse un po’ controcorrente.
Ritengo che la riforma dell’articolo 18 sia una riforma seria che oggi consente di allineare la regolazione lavoristica del nostro Paese alle regolazioni dei migliori competitori dell’OCSE con i quali quotidianamente ci misuriamo sui mercati. Ciò avrà due singolari benefici: il primo è quello di evitare una stortura del sistema competitivo italiano per la quale le imprese erano incentivate a investire sul loro nanismo. Infatti, essendo troppo evidente il vantaggio competitivo di restare abbarbicati alla microdimensione del «sotto 15 dipendenti», vi era un incentivo a non crescere, ma oggi nell’arena competitiva integrata, internazionalizzata e globalizzata il nanismo è un deficit competitivo. Ancor peggio, è un effetto distorsivo perché in qualche modo l’imprenditore veniva incentivato ad investire precipuamente sul processo, sull’impianto e sulla tecnologia labour killing anziché sul prodotto. Ma se è vero quel modello competitivo che abbiamo testé illustrato, quello cioè che vede vincente il sistema Italia quando concentra la sua azione sul prodotto, incentivare l’investimento sul processo – al di là delle sue esigenze di qualificazione tecnologica, ma solo in prospettiva labour killing - è un altro errore che ha gravemente compresso le capacità di sviluppo della qualità competitiva del nostro Paese.
Quanto alla flessibilità in entrata, l’equilibrio è stato raggiunto dopo un lavoro molto intenso e profondo. Oggi possiamo dire di aver salvaguardato la tradizione italiana che, nata con il pacchetto Biagi del 1997 e condensata con la riforma Biagi del 2003, consente oggi la disponibilità di strumenti particolarmente ricchi, ben modulati e ben modellati per fare buona e sana flessibilità in entrata. Oggi, ad esempio, ci siamo concentrati; oggi è disponibile una prova lunga di 12 mesi a causale. Oggi c’è la possibilità per le imprese impegnate in condizioni organizzative complesse – lo start up, il salto tecnologico, la nuova commessa – di avere una regolazione del contratto a termine meno rattrappente. Oggi abbiamo fatto in modo che le piccole imprese sotto i 10 dipendenti possano avere libero accesso all’artigianato senza essere vincolate all’imponibile di manodopera. Oggi abbiamo ricostituito l’agibilità del job on call, del lavoro a chiamata, così importante per alcuni settori come il turismo, per i ragazzi sotto i 25 anni e per i collaboratori più maturi sopra i 55. Abbiamo ripristinato il voucher nel settore del commercio, ancora una volta pensando alle esigenze indispensabilmente proattive su questo versante e in questa direzione del turismo. Abbiamo migliorato il trattamento contributivo del lavoro stagionale e abbiamo fornito una soluzione chiara sulle partite IVA.
Già oggi, laddove si ritenga sussistente dietro lo schermo opaco della partita IVA un rapporto di lavoro subordinato, la sanzione è la conversione forzosa del rapporto falsamente professionale in rapporto di lavoro subordinato, con decorrenza ex tunc. Abbiamo stabilito dei criteri, uno dei quali è chiarissimo: in tutte le ipotesi di percorso professionalmente adeguato, di percorso formativamente adeguato e di redditualità disponibile adeguata, abbiamo scudato le partite IVA, introducendo dunque un elemento di chiarezza.
L’ultima battuta, su cui mi permetto di concludere, attiene al fatto che, per la prima volta, abbiamo dato organicamente applicazione ed attuazione all’articolo 46 della Costituzione con un provvedimento che introduce forme di incentivo per la partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. Colleghi, questa è una battaglia che mette insieme tutte le diverse culture del Novecento: nella partecipazione c’è la cultura del personalismo cattolico e sembra quasi non accidentale la beatificazione, il 29 aprile, di un maestro del pensiero economico cattolico come Toniolo. Qui ci sono il liberalismo ben temperato, la destra sociale nazionale, il riformismo patriottico, la sinistra morandiana dei consigli di gestione. Il tema della partecipazione rappresenta una sorta di pacificazione delle culture del Novecento e la loro capacità di ritrovarsi, unite e concordi, in una cultura che trasforma l’antagonismo in agonismo e che fa dell’impresa la traiettoria comunitaria che guida lo sviluppo complessivo del Paese e le persone che lo abitano, con le loro storie, verità, tradizioni ed autenticità. Questa straordinaria capacità di costruire una concordia non zuccherosa, ma ruvida e consapevole credo sia importante.
Anche il generale Ezio, quando fu chiamato a fermare gli Unni, non fu chiamato dai suoi amici. Aveva fatto la guerra civile con gli altri generali di Galla Placidia, ma non ebbe esitazioni: scelse la strada della sua identità e nei Campi Catalaunici, nel 451, salvò l’Occidente. Credo che, insieme, possiamo salvare la nostra Nazione. (Applausi dai Gruppi PdL, PD, UDC-SVP-AUT:UV-MAIE-VN-MRE-PLI-PSI, CN:GS-SI-PID-IB-FI e Per il Terzo Polo:ApI-FLI. Congratulazioni).
TREU (PD). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TREU (PD). Signor Presidente, signora Ministro, colleghi, anche io, come il collega Castro, con cui ho condiviso questi lunghi giorni, collaborando strettamente, comincio il mio intervento sottolineando come siamo arrivati qui: un lungo e difficile lavoro di preparazione e di elaborazione da parte del Governo con le parti sociali (faticoso, ma utile), a cui si è poi aggiunta una mediazione dei vertici dei partiti combinazione alquanto originale, ma utile nella nostra esperienza. Inoltre (questo ci riguarda più da vicino), c’è stato un lavoro intenso del Parlamento sul prodotto che ci è pervenuto, senza stravolgerlo, ma arricchendolo e migliorandolo.
Sottolineo questo perché il risultato è positivo ed è stato raggiunto con un metodo: dopo l’incontro e il confronto esterno c’è stato anche un lavoro comune del Parlamento, che ha dimostrato così di essere utile, anzi utilissimo, contrariamente a quanto si dice. Per tutti e due questi aspetti, la politica – in questo caso penso si possa dire la politica fattiva – ha dimostrato di essere presente, e questo non è uno dei minori meriti del nostro lavoro.
E vengo alla seconda sottolineatura. Anche qui abbiamo dovuto tenere insieme in questi giorni, ma anche prima, come sempre avviene in una materia come quella del lavoro, posizioni e sensibilità diverse su una tematica che è altamente delicata perché coinvolge centinaia di migliaia di persone e perché in Italia è sempre stata caricata di grandi tensioni, vere, radicate, ma talora anche con overdose di ideologio. Mi pare, invece, che il lavoro che abbiamo fatto è stato di vera analisi, di compromesso positivo e, direi, di riformismo. Il giudizio complessivo è positivo anche per questo metodo e deve essere un giudizio complessivo, perché la riforma è molto ampia e va valutata nella sua ampiezza, non concentrandosi, come purtroppo è accaduto spesso non solo sulla stampa, ma anche nelle nostre polemiche, su singoli punti, compreso l’articolo 18, che è stato assolutamente troppo enfatizzato sia da una parte che dall’altra. Mi sembra che questo lavoro, che abbiamo terminato per questa tappa, sia in grado di dare elementi – e lo discuteremo anche insieme – per questo giudizio positivo.
Il messaggio forte di questa riforma è una razionalizzazione delle regole del mercato del lavoro, non del mercato del lavoro. Questo, infatti, ha bisogno di fatti e di politiche per essere migliorato. Abbiamo lavorato, quindi, sulle regole nell’ottica europea della flessicurezza o flexicurity. Lo abbiamo fatto perché siamo in Europa e non perché ce lo impone l’Europa e anche perché crediamo che questo tipo di equilibrio tra flessibilità e sicurezza sia quello che serve nel mercato del lavoro, in un’economia turbolenta molto difficile che mette in crisi le sicurezze vecchie, ma che ha bisogno di sicurezze nuove e che richiede flessibilità inevitabilmente, ma anche regole per la stessa flessibilità.
Noi siamo convinti che questa sigla è una scommessa – non basta fare una legge buona, come reputiamo quella che stiamo facendo – che indica una strada o, come l’ha definita il collega, l’highway, la via alta verso la produttività e l’efficienza che si basa su un mercato del lavoro meglio regolato, più sicuro e, aggiungo, partecipativo. Non a caso abbiamo voluto mettere in testa al provvedimento, nell’articolo 1, e poi riprenderla nel prosieguo l’idea che la partecipazione dei lavoratori nell’impresa e la democrazia economica, che è un concetto più ampio, c’entrano con il mercato del lavoro. Questo non riguarda solo come ci si entra e come se ne esce (spesso siamo polarizzati tra questi due estremi): è come ci si sta dentro, come si gestisce la mobilità, come si fanno i rapporti tra le parti individuali e collettive. Per questo abbiamo messo il punto centrale della partecipazione in testa e all’interno del provvedimento.
Io sottolineo tre punti che sono la conseguenza di questa impostazione. Il primo riguarda il motivo per il quale abbiamo riconfermato la soluzione raggiunta al vertice sull’articolo 18. Avremmo potuto lavorarci sopra, ma non abbiamo ritenuto di farlo, non solo perché è stata una mediazione alta, ma perché questo è un compromesso europeo per eccellenza. Ho studiato parecchio la flessibilità in entrata e in uscita, e l’Italia, anche secondo l’indicazione dell’OCSE, ha una buona flessibilità come regole. Adesso noi l’abbiamo migliorata per quanto riguarda le pratiche, perché abbiamo una regolazione spesso trasgredita nei fatti. L’aver fatto – e confermato -questa mediazione sulle regole dell’uscita sta proprio in questo. Non è stato smantellato il senso dell’articolo 18, che è quello di essere una deterrenza contro gli abusi (questo c’è, perché purtroppo gli abusi ci sono), ma abbiamo offerto una soluzione sui rimedi che è più articolata, come in tutti i Paesi e non solo in Germania. A seconda della diversità delle situazioni, il giudice ha a disposizione più rimedi, e non l’alternativa secca tra reintegro o niente. Ora c’è il reintegro, un possibile indennizzo o, se non ci sono motivi, la conferma del licenziamento. Guardate, si discute molto dei giudici e di come gestiranno la situazione: ebbene, questo è certamente un aspetto molto importante, ma la loro responsabilità deve anche essere aiutata.
Credo che questa soluzione realistica e modulata faciliterà anche le valutazioni dei giudici che, invece di trovarsi davanti all’alternativa secca o tutto o niente, avranno a disposizione strumenti analoghi a quelli dei loro colleghi di altri Paesi, aiutati anche in questo – e lo sottolineo perché non si discute spesso di tali temi importanti – dalla velocizzazione del processo del lavoro e dalla previa procedura di conciliazione, istituto civilissimo che può sfoltire moltissimo l’overdose di litigiosità.
Questa è una parte importante che non va messa in contrapposizione con la parte relativa alla flessibilità in entrata, in base alla deformazione diffusa per cui dare più flessibilità in uscita significa darne un po’ meno in entrata. Questo è un modo di concepire il mercato del lavoro assolutamente strumentale o rozzo. In realtà, la flessibilità deve essere ben regolata in entrata ed in uscita: questo è l’equilibrio.
Insisto: siamo convinti che la flessibilità regolata bene, senza abusi, come abbiamo cercato di prevenire con alcuni paletti, è un valore, così come è un valore la stabilità se non diventa stupidità.
Mi fa piacere che l’abbia detto anche il Ministro, concludendo i lavori in Commissione: la stabilità è un valore perché serve all’affidamento fra le parti, ad investire nelle persone, alla formazione. Naturalmente non si tratta del posto fisso, evocato come un fantasma.
Abbiamo giustamente equilibrato le due parti. E sottolineo un aspetto mai evidenziato, concernente i molti meccanismi introdotti da questa riforma: le regole che prevengono gli abusi e i costi differenziati per i lavori brevi rispetto ai lavori lunghi. Questi due o tre strumenti sono sufficienti, o comunque stimolano le imprese che vogliono essere virtuose (purtroppo non lo sono tutte) quelle che vogliono operare sul mercato in modo trasparente, ad adottare strumenti opportuni, anche forme diverse da quelle del lavoro a tempo indeterminato, quindi anche con un buon uso del lavoro autonomo e semiautonomo.
Questo è il senso complessivo che abbiamo voluto dare. In più, abbiamo aggiunto che la flessibilità va valutata e va anche retribuita. Di qui il senso che abbiamo voluto dare al compenso di base per i collaboratori a progetto, che rappresenta l’inizio di un percorso che come Partito democratico (ma mi auguro sia condiviso da tutti) vorremmo proseguire verso una forma di salario di base per chi lavora, come in tutti i Paesi (senza arrivare al salario di cittadinanza), degno, come recita l’articolo 36 della Costituzione.
Vi è un altro punto che viene poco sottolineato: quando si dice che l’apprendistato in questo provvedimento è molto valorizzato, che deve essere un modo per entrare nel mercato del lavoro per i giovani, non si dice una cosa astratta. È lo strumento che tutta Europa, nelle parti migliori, ha usato perché i giovani vengano guidati da quella fase della vita che è la loro formazione verso il difficile mercato del lavoro. Guardate che questo è l’investimento maggiore che abbiamo fatto in tutto il disegno di legge, anche dal punto di vista dei soldi, che sono pochi. E infatti ne sono rimasti pochi per gli ammortizzatori sociali. La maggior parte delle risorse è stata destinata a tale scopo per significare che l’apprendistato deve diventare veramente la forma principale di aiuto per i giovani, e quindi deve assorbire anche le forme anomale esistenti.
Il conto è presto fatto: adesso gli apprendisti sono tra 450.000 e 500.000. Se si fanno funzionare gli incentivi, con il rapporto tre a due introdotto (che ci auguriamo sia usato bene), potremo arrivare a 700.000-800.000: il che significa assorbire larga parte delle forze giovanili che ci auguriamo usciranno formate bene.
Un terzo punto dell’equilibrio della legge riguarda gli ammortizzatori sociali. Questo era il punto di maggiore distanza tra le regole e le pratiche italiane rispetto al modello europeo. Credo che lo sappiamo, sono anni che ne parliamo. Si è fatto un passo avanti verso il modello europeo, verso una universalizzazione degli ammortizzatori, un piccolo passo, ed è l’aspetto che personalmente ritengo più debole di tutto il complesso. Naturalmente il limite è stato di natura finanziaria, lo sappiamo tutti. Però ci tengo a dire che, anche per la parte più debole, che è quella delle tutele degli ammortizzatori per i lavoratori precari, anche in quel caso, pur essendo limitata la prestazione che viene data a chi perde il lavoro, c’è un’indicazione che spero quanto prima venga raccolta. Si dice: verifichiamo come va in un periodo sperimentale questa forma debole – ripeto – in vista di valutare, alla fine del periodo sperimentale, che non è fra cinquant’anni ma fra un paio d’anni, se si può – noi riteniamo che si debba – andare verso una forma effettivamente di ammortizzatori universali.
Questo non solo è un punto fondamentale per l’inclusione, perché un precario che viene lasciato «a piedi» e senza niente è difficile che si includa, ma è anche un punto essenziale per la mobilità guidata in un momento di transizione, di crisi ricorrente. Gli ammortizzatori fatti bene, attivi, aiutati da formazione e da servizi sono uno strumento essenziale per una buona mobilità, di cui l’Italia ha grande bisogno.
Faccio due brevi accenni a punti più specifici che si sono persi di solito nel dibattito esterno, ma non da noi, che li abbiamo seguiti molto: come dicevo in precedenza, la partecipazione e la democrazia economica, ma anche la bilateralità. La valorizzazione della bilateralità a fini di strumento di tutela è un punto essenziale in chiave sussidiaria di un modello sociale partecipativo che ci può aiutare soprattutto in questo momento; direi che è proprio un pegno, insieme, di civiltà e di produttività.
C’è un migliore disegno normativo sulle politiche dei servizi dell’impiego, ma ho visto susseguirsi almeno sette-otto disegni normativi dei servizi all’impiego, e sempre con fatica, perché il vero problema non è disegnarli bene (e qui ci abbiamo provato), ma è farli funzionare, il che dipende essenzialmente dalle autonomie territoriali – le Regioni, le Province o chi per esse – e le parti sociali: quindi, è una scommessa.
L’ultimo punto richiama invece un impegno ancora da costruire. Abbiamo dei piccoli punti sul lavoro femminile, in realtà un impegno del Ministro di affrontare in modo organico questo che è un aspetto decisivo per le politiche del lavoro (non solo per le donne, ma per le politiche del lavoro del Paese): questo è l’impegno forse più immediato. Quanto ai giovani, quello che abbiamo fatto sulla precarietà, quel poco sugli ammortizzatori, è fatto in larga misura per le donne e i giovani (perché le donne giovani sono quelle più esposte).
Naturalmente, tanto per non lasciare senza da fare il Ministro, stanno arrivando i problemi delle politiche attive per le persone cosiddette anziane, perché l’età si allunga e avremo un problema non di come espellere dal mercato del lavoro i cinquantenni, ma di come fare in modo – come si sta facendo anche in altri Paesi – di mostrare che sono ancora attivi, che possono essere utili, che le imprese possono adeguarsi per farli lavorare. È un problemino non da poco, anche perché abbiamo il problema di sistemare un po’ di esodati, che è un altro dei punti dolenti.
Concludo dicendo, come ha sottolineato il collega Castro, che l’auspicio di una rapida approvazione di questo provvedimento non è un modo di dire ma è l’espressione di un’urgenza – sottolineo un’urgenza – del Paese, e del Paese nel contesto europeo. In un momento come questo, di grande difficoltà, di tensione sociale, un segno come questo è importante, e tutti noi siamo chiamati a darlo.
Per ora abbiamo fatto un bel passo avanti; altri ne dobbiamo fare. Sono sempre stato abituato a lavorare in team o, se preferite, in un contesto di collaborazione, e devo dire che di questi passi (debbo ringraziare in modo specifico tutti i colleghi della Commissione, e anche l’opposizione, che ha lavorato con grande spirito costruttivo) non ne ho visti molti in questo Parlamento; ne ho visto uno in questo momento, e vi ringrazio. (Applausi dai Gruppi PD, PdL e dei senatori Astore e Sbarbati).
CARLINO (IdV). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CARLINO (IdV). Signor Presidente, signora Ministro, colleghi, il provvedimento che oggi presentiamo all’esame dell’Aula continua ad essere caratterizzato da troppe ombre, poiché rimane sostanzialmente identico al testo originario presentato all’esame della Commissione lavoro.
Molti punti controversi, più volte e da più parti segnalati, che avrebbero potuto e dovuto essere modificati non sono stati toccati, purtroppo; altri che, al contrario, costituivano un seppur timido passo avanti sono stati sacrificati alla logica dello scambio politico tra le forze che sostengono il Governo. Uno scambio politico che peraltro sembra essersi risolto in un vittoria per una sola delle parti.
Nel complesso, tutta la riforma realizza un arretramento delle tutele, e non solo con riguardo all’articolo 18 del cosiddetto Statuto dei lavoratori, ma anche con riferimento ai contratti precari (quella che in modo eufemistico viene chiamata la flessibilità in entrata), i licenziamenti collettivi e gli ammortizzatori sociali.
Se, come credo sia certo, il provvedimento verrà approvato con l’ennesima fiducia, quindi così com’è, nel migliore dei casi risulterà inutile, in particolare, per la lotta al precariato, mentre rischia seriamente di essere devastante per quanto riguarda i diritti dei lavoratori.
Dalla mediazione tra il Governo e i partiti della maggioranza è uscita una riforma del lavoro pasticciata, con nessuna tutela in più in uscita e un’ulteriore diminuzione delle restrizioni all’abuso di contratti temporanei rispetto alla proposta iniziale. Ci sarebbe voluto molto più coraggio nella limitazione delle forme di lavoro parasubordinato e nel percorso verso la stabilità di chi cerca lavoro.
Quanto è stato approvato guarda ancora meno dalla parte dei giovani rispetto al progetto iniziale e questo proprio mentre i dati sui redditi e la ricchezza delle famiglie confermano l’acuto stato di disagio sociale dei giovani e il crescente ruolo di ammortizzatore sociale esercitato dalle famiglie.
Il compromesso che si è concretizzato ci consegna un mercato del lavoro che non risolve il suo dualismo tra le forme di contratto che garantiscono stabilità e quelle che creano precarietà, e che aumenta sia il cuneo fiscale che la complessità della procedura di licenziamento.
Se veramente questa riforma fosse stata «in una prospettiva di crescita» (come recita pomposamente il titolo), piuttosto che andare a ledere i diritti acquisiti dei lavoratori con una incomprensibile riforma del cosiddetto Statuto dei lavoratori, avrebbe dovuto ridurre i costi del lavoro, per i quali deteniamo in Europa un triste primato, come certificato pochi giorni fa dai dati Eurostat.
Per ridurre davvero il dualismo contrattuale ci sarebbe voluta una netta limitazione delle forme di lavoro parasubordinato e l’introduzione di un percorso verso la stabilità.
La priorità assoluta rimane, per il nostro Paese, quella di prosciugare il parasubordinato offrendo un sentiero verso la stabilità a chi cerca lavoro, a qualsiasi età. Questo obiettivo è stato, tuttavia, sacrificato a una confusa riforma dell’articolo 18 per tutti i lavoratori, che ha finito per trasmettere ulteriore ansia ad un Paese già in forte recessione.
Per quel che riguarda i contratti, continua, innanzitutto, a non esserci un reale canale di ingresso nel mondo del lavoro con un percorso verso la stabilità.
In base alla normativa proposta, non può esserlo l’apprendistato. Al termine del periodo formativo si può essere infatti licenziati senza alcun compenso. La pur positiva norma che vieta ai datori di lavoro di assumere ulteriori apprendisti se non se ne stabilizza almeno il 50 per cento di quelli già assunti è stata annacquata con le modifiche apportate in Commissione ed è ora, di fatto, facilmente aggirabile.
Discutibile poi il mantenimento a 15 anni dell’età minima per diventare apprendisti: una norma che di fatto diventa un aggiramento dell’obbligo scolastico fino ai 16 anni.
Sicuramente peggiorativa sul piano concreto, e molto pericolosa su quello dei principi, è la soppressione dell’obbligo di indicare la causale nel primo contratto a tempo determinato di cui all’articolo 3.
La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, di cui al decreto legislativo n. 368 del 2001, venne introdotta nel nostro ordinamento per consentire il recepimento della direttiva europea 1999/70/CE del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
La disposizione dell’articolo 1 del suddetto decreto, secondo cui «è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» nasceva proprio dall’esigenza (espressamente indicata nella direttiva europea), di evitare che, attraverso il ricorso ad una successione reiterata di contratti di lavoro a tempo determinato, fosse possibile aggirare, fraudolentemente, la regola generale secondo cui, per far fronte ad esigenze permanenti, il datore di lavoro deve sempre ricorrere al contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre il contratto a tempo determinato rappresenta un’eccezione cui ricorrere soltanto a fronte di esigenze temporanee ed eccezionali.
Al contrario, l’articolo 3 introduce una pericolosissima norma che, se approvata, consentirà alle imprese di aggirare agevolmente tale principio comunitario, consentendo loro di ricorrere al contratto a tempo determinato non in ipotesi eccezionali o temporanee, legate ad esigenze oggettive e riscontrabili, bensì in qualsiasi occasione, anche legata ad esigenze permanenti, come ad esempio la carenza strutturale di organico, in totale contraddizione con quanto espressamente perseguito dalla direttiva comunitaria. Questo perché la previsione di cui all’articolo 3, lettera b), che consente di non indicare la causale significa inequivocabilmente che il datore di lavoro, in futuro, potrà liberamente stipulare contratti di lavoro a tempo determinato per qualsiasi esigenza, anche per far fronte al normale fabbisogno ordinario di personale, purché ciò avvenga sempre con un diverso lavoratore. E infatti, non a caso, la norma si preoccupa di estendere tale previsione anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, in modo che il datore di lavoro in cerca del successivo lavoratore precario con cui stipulare il nuovo primo contratto possa liberamente attingere dalla vastissima platea di precari che offrono le agenzie interinali presenti sul nostro territorio.
In Commissione tuttavia la norma non solo non è stata corretta, ma è stata, secondo noi, ulteriormente aggravata con la previsione di ulteriori eccezioni nei casi in cui l’assunzione a tempo determinato avvenga «nell’ambito di un processo organizzativo determinato: dall’avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo». Cioè, di fatto, un numero indefinito di casi.
Per quanto concerne l’associazione in partecipazione (altra fonte di numerose situazioni di abuso), anziché limitarne l’utilizzazione alle associazione tra familiari entro il primo grado o tra coniugi, come annunciava il documento dello scorso 23 marzo, la norma è stata a dir poco ammorbidita: varrà solo oltre il terzo grado di parentela e tre associati.
Ma la disposizione che forse più di altre dimostra quanto questa riforma sia stata svuotata di quel poco di positivo che portava è l’articolo 9, letteralmente stravolto e svuotato dagli emendamenti dei relatori.
La versione originale dell’articolo 9 prevedeva infatti che le prestazioni lavorative rese da persona titolare di partita IVA si presumono false quando ricorrono almeno due delle seguenti tre condizioni: cioè quando la collaborazione con lo stesso committente (o più soggetti se riconducibili alla medesima attività imprenditoriale) duri più di sei mesi nell’arco di un anno; quando i ricavi del collaboratore con il medesimo committente ammontino a più del 75 per cento del proprio fatturato; quando il collaboratore utilizzi una postazione di lavoro presso il committente.
Con l’emendamento dei relatori la durata della collaborazione con lo stesso committente viene elevata a otto mesi nell’arco di un anno; l’ammontare dei ricavi del collaboratore con il medesimo committente è elevato a più dell’80 per cento del proprio fatturato; viene poi specificato che la postazione che il collaboratore utilizza presso il committente deve essere fissa. E come se non bastasse, la presunzione di abuso non sussiste (cioè tocca al lavoratore dimostrarne l’esistenza) quando la prestazione «sia connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività». Ma, sinceramente, qualcuno sa spiegarci cosa significhino frasi come questa?
Non è stata invece rivista quella che era fin dal principio la rigidità principale della norma: l’articolo 9 infatti prevede che una volta avvenuta la verifica in sede giudiziale della ricorrenza delle condizioni che fanno scattare la presunzione di abuso, il giudice debba obbligatoriamente qualificare il rapporto di lavoro sempre come collaborazione a progetto. Ciò naturalmente non è corretto, signor Presidente, in quanto si pone inevitabilmente in contrasto con principi consolidati all’interno dei nostro ordinamento giuridico. L’articolo 9, inoltre, attribuisce al datore di lavoro la possibilità di fornire prova della genuinità del rapporto di lavoro autonomo, ma non prevede, invece, alcuna possibilità per il lavoratore di provare che in realtà il rapporto di lavoro sia riconducibile al lavoro subordinato, né che il giudice possa d’ufficio qualificarlo come tale. Ciò, in palese violazione di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 121 del 1993, e cioè che spetta al giudice qualificare il rapporto di lavoro ed il legislatore, anche volendo, non potrebbe negare la qualifica di rapporto di lavoro subordinato ad un rapporto di lavoro che ne presenti le caratteristiche oggettive.
In generale, per quanto riguarda la prima parte del disegno di legge in esame, si può dire che se già il testo originario conteneva differenze (seppur relativamente marginali) rispetto al documento presentato dal Governo il 23 marzo (che era poi il risultato del tavolo della concertazione con le parti sociali del Paese), le modifiche in Commissione hanno indicato la chiara volontà di allentare ulteriormente i vincoli nell’abuso di contratti temporanei. E dato che i controlli in questo campo – come sappiamo bene – sono a dir poco lacunosi, ben altro avrebbe dovuto essere il messaggio.
Se l’intenzione originaria era quella di porre un freno al vergognoso fenomeno delle cosiddette finte partite IVA e in generale alla diffusione del precariato, possiamo dire tranquillamente che questo obiettivo si è volontariamente rinunciato.
Passiamo ai licenziamenti, che costituiscono la tematica più spinosa di questo disegno di legge.
Si è parlato a lungo, prima di questo disegno di legge, di «modello tedesco» per la disciplina dei licenziamenti. L’impressione è che il ministro Fornero abbia perseguito piuttosto un modello «fai da te». Nessuna delle norme proposte su come regolarsi qualora risultino ingiustificati i motivi addotti dal datore di lavoro vengono davvero praticate in Germania. Farebbero anzi sobbalzare dall’indignazione ogni giudice del lavoro tedesco.
Il richiamo a modelli stranieri serve solo a gettare fumo negli occhi del pubblico, vantando l’una o l’altra rispettabile ascendenza. Un gioco fuorviante, se non si precisano le norme a cui ci si riferisce. Se è vero che anche il diritto del lavoro tedesco non è rimasto immutato nel tempo in Germania almeno non si è parlato di «manutenzione» quando si smantellavano i diritti.
L’attuale modello tedesco è davvero molto più vicino a quanto previsto in Italia dal vigente articolo 18 dello statuto dei lavoratori di quanto vogliano far credere il Governo e i partiti che lo sostengono.
Venendo al merito, la materia è stata affrontata partendo dal concetto che i licenziamenti (individuali) costituiscano una triade: licenziamento discriminatorio, licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Rispetto a questa triade, si è posto il problema della sanzione unica o alternativa in caso di illegittimità.
L’impostazione governativa era, per così dire, «a scalare»: reintegra per il licenziamento discriminatorio, alternativa tra reintegra e indennizzo economico a scelta del giudice per il licenziamento disciplinare e solo indennizzo monetario per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Era chiaro che il vecchio sistema asimmetrico tra licenziamento disciplinare ed economico non poteva funzionare, essendo pur sempre il datore di lavoro, nel momento iniziale, a stabilire che il licenziamento sia disciplinare o economico, con l’ovvia propensione per quello che, in caso di illegittimità, non prevede la reintegra.
Questo argomento ha abbagliato tutti, e il fatto che l’attuale formulazione costituisca una vittoria dell’opinione progressista nasconde, in realtà, una scarsa sostanza.
Viceversa sono sfuggiti all’attenzione due importantissimi argomenti, e cioè che l’articolo 15 tratta anche i licenziamenti collettivi, introducendo un gravissimo peggioramento della disciplina, e che i licenziamenti disciplinari non sono affatto regolati nel senso che l’alternativa tra reintegra e indennizzo possa essere applicata indifferentemente, perché anzi la reintegra può essere applicata solo in veramente pochi casi (essenzialmente teorici), mentre nella grande maggioranza delle evenienze il giudice è tenuto ad applicare solo l’indennizzo.
Insistiamo, e continueremo ad insistere, su questi due aspetti perché rendono questa riforma davvero inaccettabile.
Per quel che riguarda i licenziamenti collettivi, con questa nuova norma la sanzione per le violazioni procedurali sarebbe unicamente quella economica, mentre la sanzione di reintegra sarebbe limitata alla violazione dei soli criteri di scelta dei licenziati.
L’articolo 15, cioè, da un lato rende sanabile, con un accordo sindacale eventualmente raggiunto, le irregolarità della comunicazione d’apertura della procedura e, dall’altro, sottopone alla sola sanzione di indennizzo economico le irregolarità della comunicazione finale (di cui all’articolo 4 della legge n. 231 del 1991) che costituisce, per così dire, il rendiconto dell’utilizzo dei criteri di scelta dei licenziati, ed è dunque un documento delicatissimo, sulla cui regolarità si è molto spesso giocata la sorte delle procedure di esubero.
Chiunque abbia un minimo di esperienza giudiziaria sa che, specialmente negli ultimi anni, la vera difesa contro i licenziamenti collettivi ha riguardato essenzialmente le molte possibili violazioni procedurali; quindi, riformare in tal senso equivale a togliere, nella maggioranza dei casi, la reintegra per i licenziamenti collettivi. Il che – va aggiunto – ridimensiona ancora i presunti successi della reintroduzione della reintegra per i licenziamenti economici. Detto in breve con un esempio: il datore di lavoro che fa cinque licenziamenti invece di quattro, ossia un licenziamento collettivo al posto di quattro licenziamenti individuali, si sottrarrebbe al rischio della reintegra, perché rientrerebbe nella più lassista disciplina dei licenziamenti collettivi.
Per quel che riguarda i licenziamenti disciplinari, il problema è che la reintegra è prevista nel caso si accerti che il fatto contestato al lavoratore non esista in via assoluta, oppure, se esistente, che per esso la disciplina collettiva preveda espressamente solo una sanzione conservativa (la multa o la sospensione) o, infine, che il lavoratore risulti estraneo al fatto.
Ma l’ipotesi di gran lunga più frequente, nelle controversie sui licenziamenti disciplinari, è quella della mancanza di proporzione tra infrazione e sanzione, e, poiché si é al di fuori di quei casi, risulta sanzionata solo con l’indennizzo economico, ferma restando l’efficacia del licenziamento, che, dunque, sarà di gran lunga la soluzione più frequente della lite.
Voglio dire che nove volte su dieci nei licenziamenti disciplinari si discute di un fatto che astrattamente potrebbe dar luogo al licenziamento, ma che viene parzialmente giustificato da ragioni di contesto, ossia da attenuanti o esimenti (come nel caso del lavoratore che abbia commesso effettivamente un’insubordinazione, ma solo perché gravemente provocato).
Il caso del lavoratore accusato di un fatto che non ha commesso o addirittura di un fatto inesistente è poco più che un caso di scuola, e l’ipotesi che il datore di lavoro sia cosi sprovveduto da punire con il licenziamento un’infrazione che il contratto punisce solo con una sanzione minore, cioè la multa o la sospensione, è anch’essa un’ipotesi dì scuola.
La normalità delle controversie in materia disciplinare vede il ripetersi di casi abbastanza comuni, ma sono le circostanze, le premesse, le ragioni quelle che determinano poi in concreto la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento; quindi, la previsione di cui si parla non stabilisce affatto una semplice alternativa tra reintegro ed indennizzo economico, a discrezione del magistrato, perché, purtroppo, la situazione è ben diversa: il reintegro è previsto per casi limite e solo di scuola e l’indennizzo, invece, per la massima parte delle vere controversie.
In ogni caso, lasciare al giudice l’alternativa porterebbe ad una soluzione paternalistica che ridurrebbe ben presto la giustiziabilità dei licenziamenti illegittimi a macchia di leopardo, con tribunali che applicano prevalentemente il reintegro ed altri che invece applicano prevalentemente l’indennizzo.
Pertanto, anche questa disposizione è da rivedere totalmente, anche qualora si volesse mantenere la cosiddetta soluzione tedesca dell’alternativa tra reintegro ed indennizzo economico: diremmo, per ironia, che bisognerebbe ispirarsi alla vera disciplina di diritto tedesco, nella quale l’alternativa dell’indennizzo economico viene dopo la dichiarazione di invalidità del licenziamento, su istanza di una delle parti che alleghi comprovate ragioni di incompatibilità nella prosecuzione del rapporto.
Si può, così, giungere al punto che ha polarizzato l’attenzione del dibattito giuridico-politico, e cioè quello dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Anche la Confindustria ha gridato allo scandalo perché e stato reintrodotto come sanzione, anche in questo caso, il reintegro. Ma un osservatore un minimo avvertito del significato giuridico e della formula utilizzata nel testo della riforma lo intuisce subito che si tratta o di una finta, o di un’incomprensione, per la buona ragione che la sola ipotesi in cui il reintegro verrebbe disposto è quella di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Tutti comprendono, signor Presidente, che si è ancora una volta di fronte ad un’ipotesi di scuola: l’insussistenza della ragione addotta deve addirittura essere manifesta e quindi non ricavabile da indizi o deduzioni, ma palese: come a dire, ad esempio, che il datore di lavoro abbia portato a ragione del licenziamento la chiusura di un esercizio commerciale che è invece tuttora aperto, o un passivo del bilancio che invece indica un attivo e così via. Il che, francamente, non è credibile che avvenga. (Applausi di sollecitazione del senatore Coronella).
Insomma, se di vittoria si è trattato nella reintroduzione del reintegro, si è trattato davvero di una vittoria di Pirro.
In tutti gli altri casi di illegittimità è previsto esclusivamente l’indennizzo economico, nella solita forbice compresa fra 12 e 24 mensilità. Ma qui il problema più importante è quello di sapere quali sarebbero questi ulteriori casi e, soprattutto, se essi comprendono le ipotesi di licenziamento cosiddetto speculativo, cioè quelle in cui il licenziamento per motivo oggettivo non è connesso ad una difficoltà aziendale di tipo economico o organizzativo, ma solo alla ricerca di un maggior profitto a scapito del lavoratore, come nel caso tipico [...]
PRESIDENTE. La prego di concludere, senatrice Carlino.
CARLINO, relatrice di minoranza. [...] di esternalizzazione dei compiti svolti dai lavoratori licenziati con ricorso ad appalti a prezzi minori.Mi conceda altri due minuti, signor Presidente, per passare al tema degli ammortizzatori sociali. Mi faccia finire. Almeno il tempo di lamentarci, visto che non abbiamo molto spazio.
PRESIDENTE. Prego, continui pure.
CARLINO, relatrice di minoranza. Vi è anche il rischio che le «altre ipotesi» di illegittimità in cui, secondo la previsione normativa, vi sarebbe comunque un indennizzo economico si rivelino una sorta di insieme vuoto, anche perché lo stesso articolo 14 richiama il famigerato articolo 30 del cosiddetto collegato lavoro, il quale descrive il giustificato motivo oggettivo con riguardo a un disegno economico, produttivo e organizzativo di qualsiasi tipo, e comunque, in definitiva, sempre legittimo.
Il disegno di legge crea inoltre un quarto tipo di licenziamento individuale. Infatti, in caso di licenziamento invalido o per difetto di forma, tutto si ridurrebbe al pagamento di un indennizzo dimezzato rispetto a quello normale, salvo che il lavoratore chieda che si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso la controversia torna ad essere una normale controversia di licenziamento: ma su quale motivazione, ci chiediamo, visto che essa era mancata al principio? E chi deve sostenere l’onere della prova?
Alla fine, sembra che si sia di fronte ad una sorta di incredibile processo al buio, nel senso che, se il datore di lavoro non motiva il licenziamento, il lavoratore ha la scelta tra prendere un piccolo indennizzo o contestare un licenziamento di cui però non è stata data ufficiale motivazione.
Insomma, siamo di fronte ad una mostruosità giuridica che va semplicemente respinta in blocco.
Passo agli ammortizzatori sociali. (Commenti). So che l’intervento è lungo, ma come ho anticipato tale questione è quella più spinosa.
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, permettete alla senatrice Carlino di terminare il suo intervento.
CARLINO, relatrice di minoranza. La riforma degli ammortizzatori e l’introduzione dell’ASpI cancellano la vecchia mobilità, pur non cancellando la cassa integrazione straordinaria e quella in deroga.
Si sostiene che con la riforma degli ammortizzatori sociali aumenterà la platea dei beneficiari ma, nonostante gli interventi operati in Commissione, è ancora tutt’altro che chiaro come questo avvenga, e soprattutto con quali risorse.
Nonostante le promesse, la cosiddetta mini-ASpI continua ad essere in tutto e per tutto l’indennità a requisiti ridotti oggi vigente. Era stato annunciato che sarebbe stata estesa a tutti i lavoratori a progetto, ma a questo annuncio non è stato poi dato alcun seguito.
Si è invece scelto di potenziare l’indennità una tantum per i parasubordinati che restano senza impiego, come previsto dall’articolo 35. Per i collaboratori a progetto e le finte partite IVA resta infatti in vigore la «mancia» introdotta dall’ex ministro Sacconi nel 2008, che attualmente vale mediamente 800 euro all’anno e che copre 9.500 lavoratori in tutto, a fronte di una platea di 125.000 potenziali beneficiari. L’articolo 35 disponeva nella sua versione originale la riduzione dell’importo, anche se con estensione a una platea più vasta.
Ora l’indennità viene rafforzata e dovrebbe essere portata a 8.000 euro (anche se la cifra non è del tutto chiara), ma solo come misura sperimentale per un triennio.
Il punto vero resta, tuttavia, un altro: come avevamo chiesto con interventi emendativi, e ribadiamo con uno specifico ordine del giorno, è necessario superare la logica delle indennità una tantum continuamente prorogate, ed allargare invece la copertura dell’ASpI a favore di tutti i precari.
Per quello che riguarda le politiche in favore delle donne, tanto sbandierate dal ministro Fornero, purtroppo si è fatto poco. Anziché essere una priorità, della riforma le misure a favore delle donne sono state relegate agli articoli 55 e 56. Ci aspettavamo un concreto investimento sull’apporto che le donne possono dare davvero alla crescita del Paese.
In Italia il tasso di occupazione femminile raggiunge circa il 43 per cento; al Sud scende al 30 per cento. Siamo lontani dell’obiettivo del Trattato di Lisbona.
Nell’ottobre 2010, il Parlamento europeo ha approvato una legge per proteggere le donne dal licenziamento a causa della maternità e garantire ai padri almeno due settimane di congedo obbligatorio.
PRESIDENTE. Senatrice Carlino, la prego di concludere il suo intervento.
CARLINO, relatrice di minoranza. Sto concludendo, signor Presidente.
Il congedo di paternità è presente in quasi tutti gli Stati europei per periodi di diversa durata: le «quote azzurre», sia nel congedo obbligatorio che in quello facoltativo, devono essere una misura che possa contribuire a cambiare l’esperienza dei padri e favorire la condivisione della cura dei figli.
Se il congedo obbligatorio e quello parentale saranno più condivisi da entrambi i genitori, ci saranno meno perdite di capitale umano e meno ragioni, per le imprese, di discriminare le lavoratrici.
La riformulazione dell’articolo 56, che stabilisce che «il padre lavoratore dipendente (…) ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno» e «può astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi», è ben poco.
C’è da rimpiangere la formulazione originale di questo articolo. Era certamente insufficiente, ma almeno non era, come quella attuale, una presa in giro!
I voucher per l’impiego di baby-sitter o per gli altri servizi per l’infanzia, non possono compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto.
I tagli alle spese per gli asili nido implicheranno una minor occupazione (femminile), sia per gli effetti diretti sia per gli effetti indiretti.
Voglio infine concludere con il tema delle dimissioni in bianco. (Commenti dal Gruppo PdL).
PRESIDENTE. Colleghi, abbiate quantomeno rispetto per la relatrice di minoranza. Ho garantito alle opposizioni la massima disponibilità per il dibattito. È una relazione di minoranza e la senatrice Carlino ha diritto di concluderla.
Prego, senatrice.
CARLINO, relatrice di minoranza. All’articolo 55 si affronta il ripristino di una normativa di contrasto a questa odiosa pratica. Ma anche questo intervento, nonostante le varie proposte di modifica che sono pervenute da più colleghe, risulta ancora assolutamente insufficiente, in quanto non prevede, a differenza della normativa approvata a suo tempo dal Governo Prodi, delle specifiche garanzie sulla possibilità di verificare attraverso precisi requisiti, quali ad esempio la modulistica, la veridicità della dichiarazione di dimissioni.
Ricordo che alla Commissione lavoro è stato assegnato un nostro disegno di legge, a mia prima firma, che recepisce anche le indicazioni di una petizione popolare: un disegno di legge completo, che disciplina le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che prevede procedure che garantiscano la libertà di scelta e la tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici.
Signor Presidente, concludo ribadendo che siamo davanti ad un provvedimento in nessun modo condivisibile. Modificare le regole in modo così iniquo e insufficiente non significa riformare il lavoro, ma perseverare in una logica sbagliata, che porterà ad avere solo più precarietà e disoccupazione. (Applausi dal Gruppo IdV e del senatore Giuliano).
TESTO EMENDATO DALLA COMMISSIONE LAVORO DEL SENATO DELLE NORME DEL PROGETTO FORNERO RELATIVE ALLA MATERIA DEL RECESSO DEL DATORE DI LAVORO E ALLE CONTROVERSIE SULLA STESSA MATERIA
Articoli 13-21 del disegno di legge n. 3249, come emendati dalla Commissione Lavoro del Senato in sede referente – Le parole aggiunte dagli emendamenti approvati dalla Commissione sono evidenziate in grassetto – Il testo del nuovo articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (sostituito dall’articolo 14 del progetto), con la nuova numerazione dei suoi commi, è evidenziato dai capoversi rientrati e dal colore blu – L’iter del disegno di legge prosegue con la discussione in Aula, a partire dal 23 maggio
Capo III
DISCIPLINA IN TEMA DI FLESSIBILITÀ IN USCITA E TUTELE DEL LAVORATORE
Sezione I – Disposizioni in materia di licenziamenti individuali
Art. 13.
(Modifiche alla legge 15 luglio 1966, n. 604)
1. Il comma 2 dell’articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, è sostituito dal seguente:
«2. La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.».
2. Al secondo comma dell’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, la parola: «duecentosettanta» è sostituita dalla seguente: «centottanta».
3. Il termine di cui al comma 2 si applica in relazione ai licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della presente legge.
4. L’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, è sostituito dal seguente:
«Art. 7. – 1. Ferma l’applicabilità, per il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, dell’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’articolo 3, seconda parte, della presente legge, qualora disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore.
2. Nella comunicazione di cui al comma 1, il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.
3. La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: l’incontro si svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile.
3-bis. La comunicazione contenente l’invito si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero è consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.
4. Le parti possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, ovvero da un avvocato o un consulente del lavoro.
5. La procedura di cui al presente articolo, durante la quale le parti, con la partecipazione attiva della commissione di cui al comma 3, procedono ad esaminare anche soluzioni alternative al recesso, si conclude entro venti giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo. Se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.
6. Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a), c) ed e), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
7. Il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato dal giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’articolo 18, settimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, e per l’applicazione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura civile.
7-bis. In caso di legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare all’incontro di cui al comma 3, la procedura può essere sospesa per un massimo di quindici giorni ».
7-ter. Il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare di cui all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, oppure all’esito del procedimento di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dal comma 4 del presente articolo, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva; è fatto salvo, in ogni caso, l’effetto sospensivo disposto dalle norme del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Gli effetti rimangono, altresì, sospesi in caso di impedimento derivante da infortunio occorso sul lavoro. Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato.
Art. 14.
(Tutele del lavoratore in caso
di licenziamento illegittimo)
1. All’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo»;
b) i commi dal primo al sesto sono sostituiti dai seguenti:
«1. – Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
2. – Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
3. – Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
4. – Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.
5. – Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
6. – Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.
7. – Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.
8. – Le disposizioni dal comma quarto al comma settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.
9. – Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all’ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all’ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
10. – Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo.».
2. All’articolo 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «L’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto».
Sezione II – Disposizioni in materia di
licenziamenti collettivi
Art. 15.
(Modifiche alla legge 23 luglio 1991, n. 223)
1. All’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, al secondo periodo, la parola: «Contestualmente» è sostituita dalle seguenti: «Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi».
2. All’articolo 4, comma 12, della legge 23 luglio 1991, n. 223, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo».
3. All’articolo 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, il comma 3 è sostituito dal seguente:
«3. Qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell’impugnazione del licenziamento trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».
Sezione III – Rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti
Art. 16.
(Ambito di applicazione)
1. Le disposizioni della presente sezione si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Art. 17.
(Tutela urgente)
1. La domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui all’articolo 16 si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui all’articolo 16 della presente legge, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. A seguito della presentazione del ricorso il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti. L’udienza deve essere fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza, nonché un termine, non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente. La notificazione è a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata. Qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi debbono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia.
2. Il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda.
3. L’efficacia esecutiva del provvedimento di cui al comma 2 non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio instaurato ai sensi dell’articolo 18.
Art. 18.
(Opposizione)
1. Contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui all’articolo 17, comma 2, può essere proposta opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all’articolo 414 del codice di procedura civile, da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto a pena di decadenza entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui all’articolo 16 della presente legge, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti. Il giudice fissa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi sessanta giorni, assegnando all’opposto termine per costituirsi fino a dieci giorni prima dell’udienza.
2. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, anche a mezzo di posta elettronica certificata, dall’opponente all’opposto almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione.
3. L’opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’articolo 416 del codice di procedura civile. Se l’opposto intende chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella memoria difensiva.
4. Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, secondo comma, 106 e 107 del codice di procedura civile, il giudice fissa una nuova udienza entro i successivi sessanta giorni, e dispone che siano notificati al terzo, ad opera delle parti, il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione dell’opposto, osservati i termini di cui al comma 2 del presente articolo.
5. Il terzo chiamato deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell’udienza fissata, depositando la propria memoria a norma del comma 3.
6. Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale non è fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale il giudice ne dispone la separazione.
7. All’udienza, il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d’ufficio, ai sensi dall’articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione. La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione. La sentenza è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Art. 19.
(Reclamo e ricorso per cassazione)
1. Contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso reclamo davanti alla corte d’appello. Il reclamo si propone con ricorso da depositarsi, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore.
2. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile.
3. La corte d’appello fissa con decreto l’udienza di discussione nei successivi sessanta giorni e si applicano i termini previsti dai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 18. Alla prima udienza, la corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi. La corte d’appello, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione. La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.
4. In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’articolo 327 del codice di procedura civile.
5. Il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore. La sospensione dell’efficacia della sentenza deve essere chiesta alla corte d’appello, che provvede a norma del comma 3.
6. La corte fissa l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso.
7. In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’articolo 327 del codice di procedura civile.
Art. 20.
(Priorità nella trattazione delle controversie)
1. Alla trattazione delle controversie regolate dagli articoli da 16 a 19 devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze.
2. I capi degli uffici giudiziari vigilano sull’osservanza della disposizione di cui al comma 1.
Art. 21.
(Disciplina transitoria e disposizioni finanziarie)
1. Gli articoli da 16 a 20 si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge.
2. I capi degli uffici giudiziari vigilano sull’osservanza della disposizione di cui al comma 1.
3. Dall’attuazione delle disposizioni della presente sezione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ovvero minori entrate.









Postato il Lunedì, 28 maggio 2012 ore 14:48:09 CEST di Salvatore Indelicato
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