Come anticipato
ieri da questo giornale, nei test Ocse-Pisa le competenze degli
studenti italiani in matematica, lettura e scienze sono migliorate,
anche se ancora restano sotto la media Ocse. È un dato a prima vista
sorprendente, che proprio per questo ci costringe a riflettere mettendo
da parte certi schematismi cui facciamo spesso ricorso. Ad esempio,
quel dato sembra smentire l’opinione corrente secondo la quale per
risolvere ogni problema nel campo dell’istruzione (e non solo)
basterebbe ottenere più soldi dallo Stato. Non è così, visto che negli
stessi anni in cui si verificava il miglioramento registrato dal
rapporto Ocse-Pisa l’Italia ha ridotto la propria spesa per
l’istruzione. Sembra che la pensi allo stesso modo la maggioranza dei
presidi italiani, secondo i quali la carenza di computer o l’assenza di
una rete wireless di cui soffrono molti istituti non rappresentano di
per sé problemi insormontabili per poter svolgere il proprio compito
educativo.
È un’implicita presa di distanze da certa retorica sulla «scuola 2.0»,
che spesso è sembrata affidare soprattutto all’informatizzazione la
soluzione dei problemi del nostro sistema educativo (il ministro
Profumo, come si ricorderà, promise agli insegnanti un tablet, che temo peraltro non sia mai arrivato).
Naturalmente, è del tutto ovvio che alla scuola servono sia i computer
sia un più adeguato stanziamento di risorse. Ma la qualità di un
sistema di istruzione non è fatta solo di queste cose. Ieri il
responsabile del rapporto, il tedesco Andreas Schleicher, intervistato
dal Corriere, ha sostenuto che le migliori performance della scuola
italiana sarebbero dovute a una nuova politica verso gli insegnanti. Da
insegnanti mal pagati e formati piuttosto male saremmo passati a «meno
docenti ma più capaci e professionali».
Come a chi vive in questo Paese è ben noto, in realtà nulla del genere
è accaduto in Italia, dove la politica di reclutamento dei docenti
continua a essere dominata dal problema dell’assorbimento dei precari e
molti anni fa un ministro che propose di premiare gli insegnanti più
capaci ci rimise il posto. Piuttosto, il miglioramento delle competenze
dei nostri studenti nei test internazionali dimostra qualcosa che, in
un Paese statalista come il nostro, tendiamo a dimenticare: e cioè che
la pretesa di governare minutamente la società attraverso le leggi è in
gran parte un’illusione. Perché a volte tante leggi si esauriscono
nell’effetto annuncio e neppure entrano in vigore per mancanza dei
decreti attuativi; ma soprattutto perché i processi di evoluzione della
società si lasciano controllare solo in parte, spesso una piccola
parte, dalla iperproduzione legislativa a cui ormai ricorrono i
governi. Il miglioramento registrato dall’Italia nella classifica
Ocse-Pisa si deve in realtà, per la gran parte, agli ottimi risultati
ottenuti dai giovani del Nordest: per la competenza matematica gli
studenti di Trentino, Friuli-Venezia Giulia e Veneto conseguono
punteggi molto alti e si collocano, insieme all’Olanda, ai vertici
della classifica dei Paesi Ue. Ma questo ha a che fare appunto, più che
con le leggi elaborate tra viale Trastevere e il Parlamento, con la
vitalità e il dinamismo di quelle Regioni; ha a che fare con
quell’insieme di risorse immateriali ma decisive che i sociologi
definiscono con il termine «capitale sociale».
È anche per questo, temo, che il rapporto presenta dati negativi
riguardo all’intero Mezzogiorno: se la Sicilia si colloca sotto la
Turchia, la Calabria si posiziona al fondo della classifica mondiale. È
un dato che non può sorprendere, per chi conosca la condizione di un
Sud dove intere aree sfuggono al controllo dello Stato, dove le
prospettive economiche sono sempre più deboli, dove per i giovani la
possibilità di guardare con ottimismo al futuro sembra fuori dalla
realtà. Ed è questo un messaggio drammatico che i dati sui test
Ocse-Pisa mandano a tutti noi e in primo luogo a chi ha responsabilità
di governo, non solo scolastico.
Giovanni
Belardelli - Corriere della Sera