Mi
arrampicai perigliosamente fin lassù, sulla rocca di San Leo, per una
stradina impervia e isolata, e per tutto il tempo della scalata non
incontrai anima viva, solo silenzio e tanto caldo. Il forte è ubicato
sulla cima d’una punta rocciosa che sovrasta un paesino e domina un
immenso vallone solcato da un sottile corso d’acqua. Giunto davanti la
muraglia, m’addentrai tra le sue possenti e alte mura, ornate, a
tratti, da piccolissime fenditure, fin dentro il cuore dell’edificio.
Sembrava un antico castello medievale, ch’era stato adattato a tetra
prigione e ch’aveva ospitava, nel corso dei secoli, orde di briganti e
malfattori d’ogni specie, che in quell’oscuro luogo scontavano vite
immorale e violenta. Udivo, di tanto in tanto, urla e imprecazioni
bestiali, e percepivo, quasi, la disperazione e la sofferenza dei
condannati, che tracimavano con il loro alito dalle inferriate. Ogni
minuto era interminabile e le giornate non passavano mai. Aiutato da
alcune guardie, dall’aspetto truce, spettinati e malvestiti, che erano
stati in precedenza informati del motivo della mia visita,
m’accompagnarono dritto dritto, attraversando scale e cunicoli, stretti
e freddi, fino al Pozzetto, come chiamavo la cella più buia e fredda
dell’intera prigione. Là giaceva da quasi quattro anni il carcerato
numero 2331: Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro. Erano le tre del
pomeriggio, ma dentro c’era buio pesto. L’ordine emanato dalla Santa
Inquisizione era tassativo: “Balsamo
non deve parlare con nessuno, vedere nessuno, essere visto da nessuno!”.
Non doveva neppure ricordare com’era la vita prima del carcere di San
Leo. Solo un “lasciapassare pontificio”, che custodivo gelosamente, mi
consentiva di visitare il detenuto. Mi diceva che non passava giorno
che non si chiedeva quale errore aveva commesso, dove aveva sbagliato,
quale passo falso aveva fatto. Balsamo voleva capire in quale momento,
esattamente, la sua buona stella l’aveva abbandonato ed era
incominciato per lui il precipizio, l’abisso, l’inizio della fine.
Un’intera vita, la sua, tra ampolle e alchimie, intrugli e imbrogli,
scommesse e prestiti, spassi e lazzi, sottane e mariti infuriati,
scoperte segrete e formule magiche. Insomma, una vita oltre le righe!
Ma per noi la domanda è sempre una: chi
era veramente il conte di Cagliostro? Era un taumaturgo, un
cultore e divulgatore delle scienze esoteriche, “amico dell’Umanità”
(come lui si definiva), o era un avventuriero, un impostore, uno
scaltro imbonitore, un comune ciarlatano!? E’ stato una vittima della
tirannia e del dispotismo della Santa Romana Chiesa, l’ultima vittima
(ufficiale) della Santa Inquisizione, un martire innocente d’un potere
violento e crudele, che perseguiva il libero pensiero? E’ stato un
arrampicatore sociale o un ricercatore, un imbroglione o un alchimista?
Della sua avventurosa e misteriosa esistenza conosciamo solo poche e
confuse notizie, ingarbugliate tra realtà e leggenda, tra verità e
mistero d’un’esistenza trascorsa tra “le stelle e la polvere”, tra il
lusso e la miseria. Neppure dell’identità personale abbiamo certezza,
neanche il nome è sicuro: era Giuseppe Balsamo o Alessandro, conte di
Cagliostro?
Giuseppe Balsamo, al secolo Alessandro, conte di Cagliostro, nacque a
Palermo, il 2 giugno 1743, orfano di padre, fu affidato al seminario di
S. Rocco a Palermo, a tredici anni entrò come novizio nel convento dei
Fatebenefratelli di Caltagirone, come aiutante del frate speziale dal
quale pare abbia appreso i primi rudimenti di farmacologia e chimica.
Ben presto però abbandonò la vocazione religiosa per dedicarsi allo
studio della medicina, dell’ipnotismo e dell’alchimia. Nel 1768 si recò
a Roma, dove conobbe e sposò, nello stesso anno, una giovanissima e
avvenente fanciulla, Lorenza Serafina Feliciani, figlia di un fonditore
di bronzo e futura complice delle sue ardimentose imprese. Con lei
viaggiò per tutta Europa, in avventure incredibili che lo porteranno,
nel giro di pochi anni, dagli onori della cronaca e dei salotti mondani
e reali alla polvere dei processi e delle carceri, tra intrighi,
raggiri e miraggi.
Ma andiamo con ordine.
Nel 1771 è il suo primo viaggio a Londra, insieme alla moglie, dove,
ben presto, finì in prigione per debiti e, per restituire le somme
dovute, fu costretto a lavorare come decoratore. Nel 1772 lo troviamo a
Parigi, dove la sua giovane e bella moglie si invaghì dell’avvocato
Duplessis e, a causa di questa relazione illecita, fu rinchiusa nel
famigerato carcere femminile di Santa Pelagia. Ma Giuseppe Balsamo per
evitare lo scandalo e per tirare fuori Lorenza da quella tetra
prigione, pensando, probabilmente alla sua futura “carriera”,
“dimenticò” ogni incomprensione e si riconciliò con la moglie. La
coppia, dopo varie peregrinazioni in Belgio e in Germania, rientrò a
Palermo e poi a Napoli. Nello stesso anno, Balsamo si recò a Marsiglia,
dove si “sperimentò” nelle vesti di taumaturgo e, dietro lauto
compenso, fa credere ad un innamorato di poter riacquistare il vigore
fisico attraverso miracolosi riti magici. Scoperto l’inganno, Balsamo
fu costretto a fuggire e a cercare riparo, prima in Spagna, poi a
Venezia, quindi ad Alicante per terminare la fuga a Cadice.
Ma è solo nel 1776 che a Londra “appare” per la prima volta,
Alessandro, conte di Cagliostro, d’Harat, marchese Pellegrini, e
principe di Santa Croce, insieme alla moglie, la “celestiale” Serafina,
dove viene ammesso alla loggia massonica “La speranza”, e addirittura
ne istituisce una propria di “rito egiziano” (basata su pratiche che
avevano come scopo la rigenerazione del corpo e dell’anima). E da lì,
da quel fatidico anno, grazie anche ai buoni uffici della Massoneria,
inizia la scalata che lo porterà al successo. Dal 1777 al 1780, lo
vediamo in giro nell’Europa centro-settentrionale, dall’Aia a Berlino,
dalla Curlandia a Pietroburgo e in Polonia. La nuova setta di rito
egiziano, di cui Cagliostro era “Gran Cofto”, affascina nobili ed
intellettuali con le sue iniziazioni e pratiche rituali che prevedevano
la rigenerazione del corpo e dell’anima. E in quell’occasione assume
grande rilievo la figura di Serafina, presidentessa di una loggia che
ammetteva anche le donne, con il titolo di regina di Saba. Si narra,
che alla corte di Varsavia, nel maggio del 1780, ricevette
un’accoglienza trionfale, tributata dal sovrano in persona: la sua fama
di alchimista e guaritore aveva raggiunto le vette più alte!
Ma quali erano le “armi segrete” del
successo del conte di Cagliostro?
“Un ricercatore non può esimersi dall’esplorare anche mondi “sottili”…
e femminili… soleva spesso dire il conte. Notevole diffusione ebbero in
quegli anni l’elisir di lunga vita, il “vino egiziano” e le cosiddette
polveri rinfrescanti con i quali Cagliostro compie alcune portentose
guarigioni a numerosi ammalati, spesso senza alcun compenso, che
gremivano la sua residenza a Strasburgo. Il comportamento filantropico,
la conoscenza di alcuni elementi del magnetismo animale e dei segreti
alchemici, la capacità di infondere fiducia e, al tempo stesso, di
turbare l’interlocutore, penetrarlo con la profondità del suo sguardo
“magnetico”, ritenuto quasi soprannaturale: queste le componenti che
contribuirono a rafforzare il fascino personale e l’alone di leggenda e
di mistero del conte di Cagliostro. Poliedrico e versatile, conquistò
la stima e l’ammirazione del filosofo Lavater e del gran elemosiniere
del re di Francia, il cardinale di Rohan, entrambi in quegli anni a
Strasburgo.
Tuttavia, Cagliostro raggiunse l’apice del successo a Lione, dove
giunse dopo una breve sosta a Napoli e dopo aver vissuto più di un anno
a Bordeaux con sua moglie. A Lione, infatti, egli consolida il rito
egiziano, istituendo la “Madre loggia”, la “Sagesse triomphante”, per
la quale ottenne una fiabesca sede, l’adesione di importanti
personalità e l’amicizia di nobili, scienziati e persino sovrani. Quasi
nello stesso momento gli giunse l’invito al convegno dei Philalèthes,
la prestigiosa società che intendeva appurare le antiche origini della
massoneria. Spesso, il conte, amava dire, “Io agisco e la pace torna
nei vostri cuori, la salute entra nei vostri corpi, la speranza e il
coraggio nelle vostre anime. Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti
i paesi mi sono cari”. In quegli anni Cagliostro è all’apice del
successo.
L’affaire du collier e la fine di
Cagliostro
Dopo l’enorme consenso riscosso in tutt’Europa, il conte di Cagliostro
si dedicò, anima e corpo, a questo nuovo incarico, insieme alla sua
principale e redditizia attività di taumaturgo. Niente e nessuno
sembrava poterlo fermare. La sua ascesa sociale sembrava inarrestabile.
Ma niente dura per sempre, neanche per il conte di Cagliostro. Da lì a
breve, lo “scandalo della collana”, l’affaire du collier de la reine lo
travolgerà rovinosamente. Ricordato come il più intricato e celebre
scandalo dell’epoca, il famoso complotto diffamò la regina Maria
Antonietta e aprì la strada alla Rivoluzione francese. Colpevole solo
di essere amico di Rohan e di aver consigliato di rivelare la truffa al
sovrano, Cagliostro, accusato dalla De La Motte, artefice di ogni
inganno, fu arrestato e rinchiuso con sua moglie nella Bastiglia, in
attesa del processo.
Durante la detenzione, ebbe modo di constatare quanto grande fosse la
popolarità raggiunta: furono organizzate manifestazioni di solidarietà
e, il giorno della scarcerazione, fu accompagnato a casa dalla folla
acclamante. Nonostante il Parlamento di Parigi avesse appurato
l’estraneità di Cagliostro e di sua moglie dalla vicenda, i monarchi ne
decretarono l’esilio: la notizia giunse a pochi giorni dalla
liberazione, costringendo il “Gran Cofto” a riparare frettolosamente a
Londra. Da qui scrisse una lettera aperta, contestando duramente il
sistema giudiziario francese e preannunciando profeticamente la caduta
del trono capetingio e l’avvento di un regime moderato. Il governo
francese si difese opponendo gli scritti di un libellista francese,
Théveneau de Morande che, stabilita la vera identità di Cagliostro e di
Serafina, raccontava le varie peripezie e i raggiri nei loro precedenti
soggiorni londinesi, al punto che l’avventuriero decise di chiedere
l’ospitalità del banchiere Sarrasin e di Lavater in Svizzera. Rimasta a
Londra, Serafina fu persuasa a rilasciare compromettenti dichiarazioni
sul marito che la richiamò in Svizzera in tempo per farle ritrattare
tutte le accuse “estorte”. Tra il 1786 e il 1788 la coppia cercò di
risollevare le proprie sorti compiendo vari viaggi: Aix in Savoia,
Torino, Genova, Rovereto.
In queste città Cagliostro continuò a svolgere l’attività di taumaturgo
e ad istituire nuove logge massoniche. Giunto a Trento nel 1788, fu
accolto con benevolenza dal vescovo Pietro Virgilio Thun che lo aiutò
ad ottenere i visti necessari per rientrare a Roma. Pur di assecondare
i desideri di Serafina, era disposto a stabilirsi nella città eterna,
ostile agli esponenti della massoneria. Ma anche la Massoneria oramai
gli voltava le spalle. I liberi muratori, infatti, lo guardavano come a
un volgare lestofante, per la sua spavalda e irriverente intraprendenza
negli ambienti massonici. Per tentare di arginare le critiche e
riannodare i legami con gli ambienti massonici, Cagliostro tentò di
costituire anche a Roma una loggia di rito egiziano, invitando il 16
settembre 1789, a Villa Malta, prelati e patrizi romani. Ma questa
volta non ebbe successo. Le adesioni furono soltanto due: quella del
marchese Vivalde e quella del frate cappuccino Francesco Giuseppe da
San Maurizio, che fu nominato segretario.
L’iniziativa, pur non conseguendo l’esito sperato, fu interpretata
dalle autorità ecclesiastiche come una vera e propria sfida alla Chiesa
che, attraverso il Sant’Uffizio, iniziò a tenere sotto controllo le
mosse dello sprovveduto avventuriero. Il pretesto per procedere contro
Cagliostro fu offerto proprio da sua moglie, che, consigliata dai
parenti, aveva rivolto al marito accuse molto gravi durante la
confessione, denunciandolo come eretico e massone. Cagliostro sapeva
bene di non potersi fidare della moglie, che in più di un’occasione
aveva dimostrato scarso attaccamento al tetto coniugale, e per questo
sperava di poter rientrare in Francia, essendo caduta la monarchia che
lo aveva perseguitato. A tal fine scrisse un memoriale diretto
all’Assemblea nazionale francese, dando la massima disponibilità al
nuovo governo, ma la relazione venne intercettata dal Sant’Uffizio che
redasse un dettagliato rapporto sull’attività politica ed antireligiosa
del “Gran Cofto”. La misura era colma. Papa Pio VI, il 27 dicembre
1789, decretò l’arresto di Cagliostro, della moglie Lorenza e del frate
cappuccino. Era l’inizio della fine per il conte di Cagliostro.
Rinchiuso nelle carceri di Castel Sant’Angelo, sotto stretta
sorveglianza, Cagliostro attese per alcuni mesi l’inizio del processo.
Fu sottoposto a duri e snervanti interrogatori, a supplizi e torture
d’ogni genere per indurlo alla “confessione”. Alla fine, il Tribunale,
presieduto dal Segretario di Stato, cardinale Zelada, lo ritenne
colpevole di eresia, massoneria ed attività sediziose, e il 7 aprile
1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza,
la distruzione dei suoi manoscritti e degli strumenti massonici. In
seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata,
Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal
pontefice in carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni
dell’inaccessibile fortezza di San Leo, allora considerato carcere di
massima sicurezza dello Stato Pontificio. Lorenza fu assolta, ma venne
rinchiusa, quale misura disciplinare, nel convento di Sant’Apollonia in
Trastevere, dove terminò i suoi giorni. Nella rocca di San Leo,
all’inizio, in attesa d’una adeguata segregazione, il prigioniero venne
rinchiuso nella cella del Tesoro, la più sicura ma anche la più tetra
ed umida dell’intera fortezza.
Poi, in seguito ad alcune voci che parlavano di un piano di fuga
preparato dai suoi sostenitori, nonostante fossero state prese tutte le
precauzioni per scongiurare qualunque tentativo di evasione, il conte
Semproni, responsabile in prima persona del carcerato, decise di
trasferirlo nella cella del Pozzetto, ritenuta ancor più sicura di
quella del Tesoro. E fu in quel luogo “infernale” che io l’ho trovato,
con evidenti segni di stanchezza, ma con tanta rabbia dentro, tanto che
alla fine della mia breve visita, ebbe ancora la spavalderia e l’impeto
di gridare, “Io sono Alessandro, conte di Cagliostro e d’Harat,
marchese Pellegrini, principe di Santa Croce, e Gran Cofto. Io sono un
uomo libero, sono di nessun’epoca e di nessun luogo, io sono al di
fuori del tempo e dello spazio, io sono colui che è!”. Confesso che io
rimasi sbalordito. Cosa intendeva dire? Non lo sapremo mai! Sepolto in
quel maniero, Cagliostro morirà quattro anni dopo, il 26 agosto 1795.
Probabilmente, in seguito ai maltrattamenti che gli avevano fatto
perdere la ragione. Nessuno seppe mai se era morto Giuseppe Balsamo o
il Conte di Cagliostro. Nessuno! Morirà com’era sempre vissuto, tra
misteri, magie e alchimie.
Questa, forse, è stata la sua ultima vittoria.
Angelo Battiato