La musica dei lager
In una sua famosa e assai contestata affermazione, Adorno stabiliva che dopo Auschwitz non si poteva più fare poesia. Ma, possiamo domandarci, 'durante' Auschwitz? Nei ghetti polacchi, nei campi di concentramento, alle soglie della morte, era possibile fare poesia, intendendo metaforicamente, nel senso più ampio di cultura, quella 'poesia' su cui Adorno si interrogava? L’interrogazione non è vana, se pensiamo alla straordinaria produzione culturale nata nelle condizioni più estreme, quasi sulle soglie delle camere a gas. A Terezin, il ghetto-lager costruito dai nazisti a scopo propagandistico per mostrarlo alla Croce Rossa e ai media degli stati neutrali, e dove furono rinchiusi prima di essere inviati ad Auschwitz numerosissimi intellettuali, letterati, artisti, musicisti, furono create opere musicali straordinarie, come l’opera per bambini Brundibar, di Hans Krása, che fu eseguita innumerevoli volte a Terezin. Nel 1944 fu filmata e registrata a scopo propagandistico dai nazisti, che subito dopo mandarono nelle camere a gas di Auschwitz il compositore insieme con i piccoli protagonisti.
Ma che cosa rappresentava per un intellettuale chiuso in un ghetto o in un campo il fatto di comporre, suonare, scrivere, recitare? Era una domanda che si posero ad esempio quanti, nel ghetto di Vilnius nel 1942 coprirono i manifesti che annunciavano i primi concerti che si tennero nel ghetto con la scritta: «Nei cimiteri non si canta». Alcune di queste motivazioni le conosciamo, come nel caso del giovane storico Emmanuel Ringelblum, il cui gruppo di ricercatori raccolse e seppellì testimonianze scritte e diari: testimoniare, andare oltre la morte.
E forse quello che ci si proponeva era, per tutti, un andare oltre la morte: uscire dalle gabbie in cui i nazisti avevano rinchiuso i loro corpi, per affermare alta la libertà del proprio spirito, per continuare ad esprimere vitalità e forza creativa. Oppure, come nell’interpretazione di Polanski nel film Il pianista, una fuga dalla realtà, tanto irreale che il pianista non può neanche, suonando, toccare realmente i tasti del suo pianoforte?
Wladislav Szpilman , il pianista ebreo polacco alle cui memorie Polanski si è ispirato, è sopravvissuto alla Shoah, è morto tanti anni dopo compositore e musicista riconosciuto. Ma per quanti invece non sono sopravvissuti, per quelle vite troncate a metà, quanta musica non è stata composta, quanti poemi non sono stati scritti! Ma anche di quanto è stato realizzato in quelle situazioni estreme, molto spesso si è perduta memoria. Tante opere musicali non hanno potuto materialmente essere messe sulla carta, tante altre sono andate smarrite.
È per riparare a questa perdita, una riparazione al tempo stesso ricostruzione critica rigorosa e affettuosa riparazione morale, che nel 1991 un giovane pianista e compositore pugliese, Francesco Lotoro, ha iniziato a raccogliere la musica concentrazionaria, a radunare materiali e documenti, a parlare con i sopravvissuti e con i discendenti dei musicisti assassinati, a suonare la musica dei campi, a dirigerla. Un lavoro di ricerca immane e difficilissimo, anche perché portata avanti nel disinteresse totale delle istituzioni, che poco a poco ha delineato un paesaggio sempre più mosso, una messe di opere sempre più fitta, che ha fatto riemergere, accanto ai lavori già entrati nel repertorio concertistico, composizioni straordinariamente importanti e finora sconosciute.
Lotoro ha raccolto anche la musica composta su imposizione dei comandanti dei campi, quella suonata dalle orchestre dei prigionieri per allietare i loro aguzzini: i canti e i brani composti per sottolineare i vari momenti della vita del campo, fino alle impiccagioni che erano sempre accompagnate, come anche nel gulag sovietico, dall’orchestrina dei prigionieri. Si è giunti così alla raccolta di quattromila opere musicali, oltre a migliaia di documenti e a moltissime registrazioni del tempo. Il lavoro di raccolta ed esecuzione si è realizzato a Foggia, dove Lotoro ha creato l’Istituto Musica Judaica e dove si è avvalso per le esecuzioni, in gran parte realizzate direttamente da lui, della collaborazione dei migliori musicisti pugliesi. È nato uno straordinario archivio, l’Archivio
musicale dei ghetti e dei campi, il cui catalogo è consultabile on line. Nel 2007, la casa editrice Musikstrasse ha iniziato la pubblicazione dell’intera produzione musicale raccolta. Alla fine dell’opera, prevista per il 2010, saranno pubblicati 32 Cd, che presenteranno un’enciclopedia completa di tutta la musica concentrazionaria, intendendo il termine nel suo senso più ampio, la produzione musicale cioè di qualunque genere realizzata tra il 1933 e il 1945 «in tutti i campi di prigionia, transito, concentramento e sterminio da musicisti imprigionati o deportati o uccisi o sopravvissuti da qualsiasi contesto nazionale, sociale o religioso». Una musica, quindi, non solo di ebrei, anche se prevalentemente ebraica. Un lavoro straordinario, che ricostruisce un tassello vitale e creativo della storia della Shoah e che ci permette di concludere che, forse, nei cimiteri si può anche suonare.
È possibile fare cultura «durante» Auschwitz? La ricerca compiuta dimostra
che sì, è possibile resistere spiritualmente