Ma dentro nascondeva un anima sensibilissima, inquieta, tormentata, come i (pochi) versi che ci ha lasciato, in bilico tra il metafisico, l'apocalittico, il visionario (per studio e per lenire i dolori ebbe rapporti frequenti con etere, morfina, oppio e droghe varie), il mistero (confidente di Marcel Schwob, sarà amica di Arnaud de Gramont, esperto d'occultismo) e il mistico (la malattia alla fine la porterà a riavvicinarsi alla fede). Scrive in "Scopolamina": "Il vino che scende nella mia vena/ ha affogato il mio cuore e lo trascina/ E io navigherò per il cielo/ A bordo di un cuore senza capitano/ Dove l'oblio si scioglie come miele". E un mese prima di morire: "Non so perché muoio e annego/ prima di entrare nella residenza eterna./ Non so di chi sono la preda. / Non so di chi sono l'amore" (in "Nyx"). Ma chi fu davvero questa sciamano in crinoline? Nata a Parigi nel 1882 in una famiglia colta e altoborghese (il padre, Samuel, di origini italiane, era un noto neurochirurgo che finì per essere assassinato da un suo paziente; la madre, fervente cattolica, era un'ereditiera di Lione), Catherine Pozzi sposò a 25 anni Edouard Bourdet, uomo di teatro, da cui ebbe un figlio prima di separarsi. Nel 1910 scopre di avere la tubercolosi: fu in quel momento che si mise a studiare furiosamente la filosofia, le religioni, la matematica, la chimica (pensava le parole come molecole: "Meravigliosa rassomiglianza tra la composizione letteraria e la composizione chimica dei corpi. La poesia si fa per unione di radicali", annotò nel suo diario) e nel 1920 incontrò Valéry con il quale avviò quella liason burrascosa (otto lunghissimi anni) che è diventata l'unico motivo per cui era ricordata nel mondo delle lettere prima della recente attenzione alla sua produzione: il diario (il "Journal de jeunesse" del 1893-1906, e quello che tenne dal 1913 alla morte); il saggio psico-poetico "Peau d'Âme"; il romanzo autobiografico "Agnès", uscito anonimo nel '27 e per molto tempo attribuito a Valéry; e le sei poesie maggiori ("Ave", "Vale", "Scopolamina", "Nova", "Maya" e "Nyx") pubblicate postume, nel 1935, e ora raccolte insieme ad altri versi ritrovati e dispersi sotto il titolo italiano "Il mio inferno" (Medusa, pagg. 108, euro 12,50; traduzione e cura Marco Deotti). Fu Jean Paulhan, testa pensante della "Nouvelle Revue Française" a credere per primo e più di ogni altro nella forza, nella novità, nella anomalia della poesia dell'amica Catherine, con la quale ebbe anche un intenso scambio critico-epistolare; fu lui a spingerla - senza successo - a "uscire allo scoperto"; fu lui, alla morte della scrittrice, a curare la pubblicazione sulla rivista "Mesures" e poi in volume delle sue poesie. Fosse stato per lei, probabilmente sarebbero finite bruciare, come i suoi testi giovanili. D'altra parte, come scrisse proprio a Paulhan in una lettera del 10 giugno 1931: "Ci sono tante ragioni per scrivere, oltre a quelle per pubblicare. Per esempio, esaltare la coscienza, l'attenzione, tracciare una strada. La propria strada. Distruggere. Crescere. E tutto si riconduce a una certa forma di vita, che è l'opera per eccellenza, e da cui forse, la cosa scritta si staccherebbe più naturalmente e impercettibilmente che se si ammettesse che, in effetti, la vita è l'opera".
Postato il Martedì, 11 agosto 2009 ore 11:54:18 CEST di Maria Allo |
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