La musica nella tragedia greca
di Carlo Fatuzzo
Secondo la Poetica di Aristotele, la poesia tragica si configura essenzialmente come mimesis (imitazione) della realtà, raggiunta con tre mezzi: rhythmos (ritmo), logos (parola) e harmonia (musica). Oserei azzardare che l’unione delle tre arti performative (poesia, musica e danza) in tragedia era capace di un’imitazione veramente icastica della realtà, soprattutto della sua tridimensionalità, in quanto la poesia sembrerebbe rievocare la dimensione della lunghezza (il “metro” appunto), la musica quella dell’altezza (anche se originariamente “acuto” e “grave” non dovevano essere percepiti proprio come “alto” e “basso”) e la danza quella della profondità (per lo spazio interessato dalle sue evoluzioni).
Dal De Musica di Aristide Quintiliano sappiamo che il tropos (stile) tragico operava su un registro grave, a differenza dei tropoi ditirambico, di registro medio, e nomico, di registro acuto. Per l’estensione che ricoprivano, i canti tragici potevano essere destinati ad un coro di non professionisti composto da uomini adulti, mentre i canti ditirambici potevano essere eseguiti anche da un coro di ragazzi; lo stile citarodico invece pretendeva l’abilità propria di un cantante solista.
Lo strumento musicale principalmente adoperato per la musica della tragedia è l’aulos, strumento a fiato ad ancia doppia. Al suonatore di aulo spettava l’accompagnamento dei canti e l’esecuzione di mesauli (intermezzi auletici). Veniva scelto sempre un musicista professionista specializzato proprio in musica tragica. Sofocle ed Euripide prevedevano anche altri strumenti per le loro tragedie, seppure in misura minore rispetto all’aulos: lyra, kithara, barbitos, tympana, kymbala, krotala, rhombos, trigonon, pektis, magadis, salpinx, syrinx.
Gli antichi Greci avevano teorizzato un sistema di associazioni tra le strutture musicali e la sfera affettiva dell’uomo, attribuendo a ciascun modello melodico o ritmico un particolare ethos, cioè un carattere capace d’influenzare lo stato d’animo e la volontà stessa dell’ascoltatore. Per esempio nelle tragedie più antiche le melodie rispecchiavano in special modo il genere enarmonico, dotato di un ethos eroico, e venivano utilizzate principalmente le harmoniai dorica, dal carattere solenne, e mixolidia, dal carattere triste e lamentoso.
Poichè per il gusto dell’epoca risultava più gradita una musica già nota all’ascoltatore (affinchè questi potesse cantarla mentalmente in contemporanea con l’esecutore), la tecnica compositiva consisteva nella scelta di un determinato nomos, cioè una formula melodica d’antichissima origine, e nella sua riproposizione in forma parzialmente variata purchè non ne venisse pregiudicata la riconoscibilità da parte del pubblico: poter riascoltare melodie famose poteva costituire una grande attrattiva per chi andava a teatro (e nei testi troviamo espliciti riferimenti a queste melodie).
La tragedia si articolava in parti recitate e parti cantate (per noi riconoscibili dalla struttura metrica, in mancanza delle musiche originarie). C’erano anche parti in parakataloge, una forma di recitativo con accompagnamento strumentale inventata da Archiloco e presumibilmente adottata in tragedia (ad esempio per intonare gli anapesti della parodos) in quanto tecnica coerente con lo straniamento dell’elocuzione tragica, che doveva essere solenne e non veristica.
Frìnico era metaforicamente considerato negli Uccelli di Aristofane “poeta-ape” per la dolcezza delle sue melodie, le quali dovevano essere molto orecchiabili, cantabili, piacevoli, persino commoventi come i suoi drammi.
Nelle Rane di Aristofane abbiamo un elogio della musica di Eschilo, pur poco varia, per l’impiego metodico dei nomoi. Nel terzo episodio delle Eumenidi, Atena invita l’araldo a radunare il popolo al suono della salpinx tirrenica (cui si attribuiva il potere apotropaico di allontanare gli spiriti dei morti), strumento lungo e ricurvo all’estremità, la cui invenzione era attribuita ai Tirreni di Lidia o agli Etruschi.
Sofocle fin da fanciullo fu educato alla danza e alla musica alla scuola di Lampro: fu un ottimo citarista e curò con particolare attenzione l’aspetto coreografico delle sue tragedie. Introdusse in tragedia le harmoniai frigia e lidia e strumenti musicali fino ad allora non utilizzati.
Per parlare della musica di Euripide e Agatone, occorre premettere che nella seconda metà del V sec. a.C. si sviluppò in Grecia una corrente compositiva detta “nuova musica”: si trattò di una vera e propria rivoluzione musicale (anche se affermatasi gradualmente ed anticipata da vari prodromi) che coinvolse i compositori di tutti i generi musicali. I più noti protagonisti di questo movimento furono i musicisti Melanìppide, Cinesia, Frìnide, Filòsseno e soprattutto Timoteo di Mileto, nome molto importante nella storia dei compositori dell’antichità, sicuramente il più rivoluzionario della sua generazione.
Caratteristiche peculiari di questo complesso fenomeno furono: contaminazione e reciproci scambi tra le forme musicali, frequenti metabolai (modulazioni), una complessiva poikilia (varietà) ed una libertà del tutto nuova che condusse la melopea (tecnica compositiva) a fisionomie melodiche molto ardite e tortuose, che facevano uso di una gamma di suoni molto più ampia che in passato (polychordia), ormai prive dell’antico vincolo ad un nomos di riferimento. Maggior varietà musicale si ottenne con la riduzione del numero di coppie strofiche e l’allontanamento dallo schema triadico tradizionale (strofe, antistrofe, epodo).
La “nuova musica” suscitò la perplessità dei conservatori e scatenò la reazione dei poeti comici che ne fecero oggetto di severa satira.
Strettamente collegate a queste innovazioni furono le nuove tecniche di costruzione degli strumenti musicali, dai quali si esigeva un adeguamento ai nuovi gusti musicali (nelle lire aumento di corde e negli auli aumento di fori, per fare un esempio). Euripide e Agatone aderirono con prontezza alla nuova corrente, impegnati in sperimentazioni non solo musicali ma anche poetiche e registiche: innanzitutto le innovazioni adottate richiedevano abilità esecutive di carattere virtuosistico (si pensi alle modulazioni), quindi i canti tragici vennero affidati sempre di più a solisti professionisti, che tolsero spazio al coro. Come nei coevi nomoi citarodici di Timoteo, la musica raggiunse un mimetismo estremo ed avvertì l’esigenza di attingere ad un repertorio di canti popolari ed esotici molto più vasto di quello dei nomoi tradizionali.
Si può riconoscere una svolta decisiva di Euripide con l’adesione a tali innovazioni nelle Troiane (415 a.C.): è un dato molto significativo, in quanto la “nuova musica” adottò per i cori tragici un registro più acuto, e ciò potrebbe collegarsi alla scelta sempre più frequente di Euripide di fare impersonare ai coreuti personaggi femminili da questo momento in poi. Inoltre Euripide fece sì che spesso negli espisodi delle sue tragedie la recitazione fosse sostituita da canti molto melismatici (monodie e duetti).
Fortunatamente possediamo due testimonianze papiracee che tramandano la musica di alcuni versi euripidei (dall’Oreste e dall’Ifigenia in Aulide), sebbene la questione della reale paternità euripidea di quelle melodie non è stata ancora risolta dagli studiosi.
La perdita delle musiche originarie ha fatto sì che illustri compositori dal Rinascimento ad oggi abbiano sfruttato l’affascinante opportunità d’inventare musiche sempre nuove sui testi dei drammi antichi.
Carlo Fatuzzo
di Carlo Fatuzzo
Secondo la Poetica di Aristotele, la poesia tragica si configura essenzialmente come mimesis (imitazione) della realtà, raggiunta con tre mezzi: rhythmos (ritmo), logos (parola) e harmonia (musica). Oserei azzardare che l’unione delle tre arti performative (poesia, musica e danza) in tragedia era capace di un’imitazione veramente icastica della realtà, soprattutto della sua tridimensionalità, in quanto la poesia sembrerebbe rievocare la dimensione della lunghezza (il “metro” appunto), la musica quella dell’altezza (anche se originariamente “acuto” e “grave” non dovevano essere percepiti proprio come “alto” e “basso”) e la danza quella della profondità (per lo spazio interessato dalle sue evoluzioni).
Dal De Musica di Aristide Quintiliano sappiamo che il tropos (stile) tragico operava su un registro grave, a differenza dei tropoi ditirambico, di registro medio, e nomico, di registro acuto. Per l’estensione che ricoprivano, i canti tragici potevano essere destinati ad un coro di non professionisti composto da uomini adulti, mentre i canti ditirambici potevano essere eseguiti anche da un coro di ragazzi; lo stile citarodico invece pretendeva l’abilità propria di un cantante solista.
Lo strumento musicale principalmente adoperato per la musica della tragedia è l’aulos, strumento a fiato ad ancia doppia. Al suonatore di aulo spettava l’accompagnamento dei canti e l’esecuzione di mesauli (intermezzi auletici). Veniva scelto sempre un musicista professionista specializzato proprio in musica tragica. Sofocle ed Euripide prevedevano anche altri strumenti per le loro tragedie, seppure in misura minore rispetto all’aulos: lyra, kithara, barbitos, tympana, kymbala, krotala, rhombos, trigonon, pektis, magadis, salpinx, syrinx.
Gli antichi Greci avevano teorizzato un sistema di associazioni tra le strutture musicali e la sfera affettiva dell’uomo, attribuendo a ciascun modello melodico o ritmico un particolare ethos, cioè un carattere capace d’influenzare lo stato d’animo e la volontà stessa dell’ascoltatore. Per esempio nelle tragedie più antiche le melodie rispecchiavano in special modo il genere enarmonico, dotato di un ethos eroico, e venivano utilizzate principalmente le harmoniai dorica, dal carattere solenne, e mixolidia, dal carattere triste e lamentoso.
Poichè per il gusto dell’epoca risultava più gradita una musica già nota all’ascoltatore (affinchè questi potesse cantarla mentalmente in contemporanea con l’esecutore), la tecnica compositiva consisteva nella scelta di un determinato nomos, cioè una formula melodica d’antichissima origine, e nella sua riproposizione in forma parzialmente variata purchè non ne venisse pregiudicata la riconoscibilità da parte del pubblico: poter riascoltare melodie famose poteva costituire una grande attrattiva per chi andava a teatro (e nei testi troviamo espliciti riferimenti a queste melodie).
La tragedia si articolava in parti recitate e parti cantate (per noi riconoscibili dalla struttura metrica, in mancanza delle musiche originarie). C’erano anche parti in parakataloge, una forma di recitativo con accompagnamento strumentale inventata da Archiloco e presumibilmente adottata in tragedia (ad esempio per intonare gli anapesti della parodos) in quanto tecnica coerente con lo straniamento dell’elocuzione tragica, che doveva essere solenne e non veristica.
Frìnico era metaforicamente considerato negli Uccelli di Aristofane “poeta-ape” per la dolcezza delle sue melodie, le quali dovevano essere molto orecchiabili, cantabili, piacevoli, persino commoventi come i suoi drammi.
Nelle Rane di Aristofane abbiamo un elogio della musica di Eschilo, pur poco varia, per l’impiego metodico dei nomoi. Nel terzo episodio delle Eumenidi, Atena invita l’araldo a radunare il popolo al suono della salpinx tirrenica (cui si attribuiva il potere apotropaico di allontanare gli spiriti dei morti), strumento lungo e ricurvo all’estremità, la cui invenzione era attribuita ai Tirreni di Lidia o agli Etruschi.
Sofocle fin da fanciullo fu educato alla danza e alla musica alla scuola di Lampro: fu un ottimo citarista e curò con particolare attenzione l’aspetto coreografico delle sue tragedie. Introdusse in tragedia le harmoniai frigia e lidia e strumenti musicali fino ad allora non utilizzati.
Per parlare della musica di Euripide e Agatone, occorre premettere che nella seconda metà del V sec. a.C. si sviluppò in Grecia una corrente compositiva detta “nuova musica”: si trattò di una vera e propria rivoluzione musicale (anche se affermatasi gradualmente ed anticipata da vari prodromi) che coinvolse i compositori di tutti i generi musicali. I più noti protagonisti di questo movimento furono i musicisti Melanìppide, Cinesia, Frìnide, Filòsseno e soprattutto Timoteo di Mileto, nome molto importante nella storia dei compositori dell’antichità, sicuramente il più rivoluzionario della sua generazione.
Caratteristiche peculiari di questo complesso fenomeno furono: contaminazione e reciproci scambi tra le forme musicali, frequenti metabolai (modulazioni), una complessiva poikilia (varietà) ed una libertà del tutto nuova che condusse la melopea (tecnica compositiva) a fisionomie melodiche molto ardite e tortuose, che facevano uso di una gamma di suoni molto più ampia che in passato (polychordia), ormai prive dell’antico vincolo ad un nomos di riferimento. Maggior varietà musicale si ottenne con la riduzione del numero di coppie strofiche e l’allontanamento dallo schema triadico tradizionale (strofe, antistrofe, epodo).
La “nuova musica” suscitò la perplessità dei conservatori e scatenò la reazione dei poeti comici che ne fecero oggetto di severa satira.
Strettamente collegate a queste innovazioni furono le nuove tecniche di costruzione degli strumenti musicali, dai quali si esigeva un adeguamento ai nuovi gusti musicali (nelle lire aumento di corde e negli auli aumento di fori, per fare un esempio). Euripide e Agatone aderirono con prontezza alla nuova corrente, impegnati in sperimentazioni non solo musicali ma anche poetiche e registiche: innanzitutto le innovazioni adottate richiedevano abilità esecutive di carattere virtuosistico (si pensi alle modulazioni), quindi i canti tragici vennero affidati sempre di più a solisti professionisti, che tolsero spazio al coro. Come nei coevi nomoi citarodici di Timoteo, la musica raggiunse un mimetismo estremo ed avvertì l’esigenza di attingere ad un repertorio di canti popolari ed esotici molto più vasto di quello dei nomoi tradizionali.
Si può riconoscere una svolta decisiva di Euripide con l’adesione a tali innovazioni nelle Troiane (415 a.C.): è un dato molto significativo, in quanto la “nuova musica” adottò per i cori tragici un registro più acuto, e ciò potrebbe collegarsi alla scelta sempre più frequente di Euripide di fare impersonare ai coreuti personaggi femminili da questo momento in poi. Inoltre Euripide fece sì che spesso negli espisodi delle sue tragedie la recitazione fosse sostituita da canti molto melismatici (monodie e duetti).
Fortunatamente possediamo due testimonianze papiracee che tramandano la musica di alcuni versi euripidei (dall’Oreste e dall’Ifigenia in Aulide), sebbene la questione della reale paternità euripidea di quelle melodie non è stata ancora risolta dagli studiosi.
La perdita delle musiche originarie ha fatto sì che illustri compositori dal Rinascimento ad oggi abbiano sfruttato l’affascinante opportunità d’inventare musiche sempre nuove sui testi dei drammi antichi.
Carlo Fatuzzo