Vasco, un'eternità spericolata
Fenomenologia del ribelle postmoderno, più sfatto che dannato, un mito da trent'anni
ANDREA SCANZI
Torna a suonare nei Palasport, traduce una canzone dei Radiohead, racconta che fatica sempre più a vivere. Vasco Rossi non smette di fare notizia, da trent'anni. La scomparsa di Mike Bongiorno ha rilanciato lo storico ritratto di Umberto Eco (citato da tutti e letto da nessuno), eppure oggi la fenomenologia più intrigante riguarderebbe proprio Vasco. Perché piace ancora? Chi popola oggi la «combriccola del Blasco»? Perché, ogni estate o quasi, escono singoli-fotocopia in cui Vasco ripete le stesse cose, parlando alla luna oppure dando la colpa al whisky, mietendo ogni volta successi?
Già Pier Vittorio Tondelli scriveva alla fine degli Ottanta come il successo del suo corregionale non dipendesse tanto dal messaggio musicale quanto da «un atteggiamento, una storia vissuta, una mitologia. In anni in cui tutto stava andando verso la normalizzazione, il carrierismo, il perbenismo, Vasco, con la sua faccia da contadino, la sua andatura da montanaro, la sua voce sguaiata da fumatore, il suo sguardo sempre un po' perso, diventava l'idolo di una diversità».
Diversità comportamentale, non politica. Da qui gli inni esistenziali, genericamente contro (ma contro chi? È sempre colpa di Alfredo?). Il carcere per droga. Le rare partecipazioni televisive, ora a Sanremo e ora da Mike (appunto), sbalestrato dall'alcol e con quei «capìtto» (versione padana del «you know» anglosassone) biascicati con occhio di cernia. La sua capacità di fiutare il mugugno popolare, quel suo captare il malessere giovanile (e non solo giovanile), hanno un che di rabdomantico: di geniale. Ligabue, pure lui lodevolmente longevo, in confronto è un novizio. Gli anni passano, Vasco no. Persino la «vecchiaia», in lui, ha tratti iconoclasti.
Vasco non nasconde le ferite: le ostenta. Mostra un corpo orgogliosamente refrattario a diete e salutismi. I capelli non ci sono più, il cappellino all'indietro sarebbe per tutti un vezzo improponibile: non per lui. Lui può, perché è Vasco. Sul palco, che in Italia domina come nessuno, somiglia ancora alla descrizione di Edmondo Berselli: «Sulle assi del palcoscenico si muove come un tacchinone, saltando qua e là con balzi che il peso rende magnificamente goffi, e quando si avvicina alla chitarra solista, mimando con audacia il riff spalla a spalla con il chitarrista, sembra il ritratto dell'ex giovane che si è lasciato un po' troppo andare». Eppure funziona.
Più ruspante che demoniaco, più sfatto che dannato, sguaiatamente truzzo con quelle urla («ehhhhhhhhhhh!!!») tipo muezzin colpito da sincope. Per non parlare della gestualità da camionista triviale, le mani unite a mimare l'organo femminile e la folla infoiata che grida «la la la la la la, fammi godere!». Solo un capo-curva, quindi? Troppo facile. Così vorrebbe la critica più impegnata, dimenticandosi ad esempio che Vasco era ritenuto da Fabrizio De André il suo erede.
Vasco non è un rocker: è un (punto di) riferimento. Più della sua arte, conta la sua percezione. Soltanto Vasco può far sì che mantra di esilità adolescenziali («Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l'ha»), se pronunciati da lui assurgano a Verbo. Un Verbo dove la donna è mantide («Mi piaci perché sei porca»), geisha («Toffee! Portami l'asciugamano!») o rarefatta come la paradigmatica Albachiara. Dove tutto è eroico: anzitutto la sopravvivenza.
Non più uomo, Vasco, bensì postulato. Coerente a prescindere, divinizzato per plebiscito. Immortale in quanto (amico) fragile. Non si discute: si ama. C'è, nella sua cifra, una particolarissima capacità di coniugare devianza e mainstream, ballate col cuore e folgorazioni di pancia («Perché la vita è un brivido che vola via / è tutta un equilibrio sopra la follia»). Vasco è, in buona sostanza, il ribelle post-moderno. Così apolitico da suonare (quasi) eversivo. Così furbo da sembrare (quasi) candido. Nella sua imprecisata insoddisfazione, che i politologi definirebbero «qualunquista», c'è la declinazione - da quotidiano a forma d'arte - dell'indistinto fastidio per un mondo che «fa venire il vomito», governato com'è da «queste facce qui, non mi dire che son proprio quelli lì». Mondo squallido eppure «stupendo», perché (da qualche parte) si possono mangiare ancora le fragole. Come nella canzone Sally. Quasi come nei film di Bergman.