La
riflessione di Vittadini sull’investimento nell’educazione e la
delicata funzione dei docenti (“maestri non funzionari”) mi trova
assolutamente d’accordo.
Noto un’incapacità dei media (ovviamente IlSussidiario.net fa
eccezione) nel cogliere il nesso tra crescita economica e qualità
dell’istruzione. Da molti anni, diciamo dopo il ’68, i temi scolastici
sono stati derubricati a “questioni sindacali”. Gli stessi partiti
politici non hanno più gli “uffici scuola” e le figure di spicco di un
tempo. Dove sono oggi uomini come Concetto Marchesi, Tristano
Codignola, Maria Badaloni che, nelle tre grandi tradizioni comunista,
socialista e cattolica, univano la passione per l’educazione e
l’autorevolezza politica?
Dove sono oggi gli opinion leader della scuola? Tutti noi ormai
conosciamo a memoria lo spread tra i bund tedeschi e i nostri Btp. Ma
c’è qualcuno che sui giornali ci racconta lo spread tra i nostri
apprendisti (500 mila) e gli apprendisti tedeschi (3 milioni)? C’è
qualcuno che ci ricorda che negli ultimi vent’anni, mentre le imprese
raddoppiavano il numero di tecnici assunti passando da 11 a 22, la
scuola (inseguendo il mito del genericismo formativo) dimezzava
l’offerta di diplomati tecnici e avveniva il sorpasso tra licei e
istituti tecnici?
Come dice giustamente Vittadini, “per ricominciare seriamente a
crescere, occorre riprendere la capacità di educare”.
E veniamo al tema che sta al cuore della riflessione di Vittadini: il
ruolo degli insegnanti.
Molti paesi stanno cercando di individuare le strategie più efficaci
per migliorare la qualità degli insegnanti e i risultati dei loro
sistemi educativi. La gravità del ritardo accumulato in questo campo
dall’Italia nel confronto internazionale ci impone di guardare
all’esperienza di altri paesi europei che hanno già efficacemente
migliorato il rendimento dei loro sistemi di istruzione, con
l’introduzione di regole che premiano il merito dei docenti e
rafforzano la competizione tra le scuole. La vicenda del recente
tentativo di premiare gli insegnanti migliori (progetto sperimentale
“Valorizza” realizzato dal Miur nell’anno scolastico 2010-11 in 33
istituti scolastici di Campania, Lombardia e Piemonte) è eloquente.
Poiché metteva in discussione i dogmi dell’egualitarismo scolastico
(“non esistono gli insegnanti migliori”) è stato fortemente boicottato.
Non che fosse esente da limiti e perfezionabile, ma appunto si trattava
della prima sperimentazione su un piccolo numero di scuole dopo i
lunghi anni in cui, a seguito del tentativo fallito del ministro
Berlinguer, nessuno aveva più osato valutare gli insegnanti. Eppure al
di là della percezione di un corpo insegnante fatto da Cipputi e
ossequioso e subalterno ai dogmi egualitari, l’ambiente scolastico è
fortemente dinamico. Il vero problema è il clima organizzativo e le
regole che non favoriscono e non stimolano questa dinamicità.
Le scuole hanno scarso spazio di azione. In questi ultimi anni
l’autonomia scolastica ha fatto decisivi passi indietro e il
centralismo burocratico si è consolidato. II fatto che la proposta di
legge Aprea, che voleva ridare dignità agli insegnanti introducendo
elementi decisivi di merito, selezione rigorosa e carriera, si sia fin
dall’agosto 2009 insabbiata nonostante un significativo consenso
bipartisan, è un ulteriore sintomo della malattia del pachiderma
scolastico.
Eppure oggi l’istruzione svolge un ruolo sempre più cruciale per la
vita ed il lavoro, ma allo stesso tempo la professione
dell'insegnante negli ultimi anni ha perso prestigio. Questo fenomeno
rappresenta un pericolo per lo sviluppo economico e per la società
intera.
Gli insegnanti devono acquisire maggiore libertà professionale per
sviluppare l’approccio più adeguato. I dirigenti scolastici devono
essere veri e propri leader educativi, fonte di ispirazione per i loro
collaboratori e devono tornare a valutare e a premiare attraverso
adeguati incentivi gli insegnanti, come avviene in ogni organizzazione.
È importante commentare il cuore pedagogico del ragionamento che
fa Vittadini: la passione di educare come esperienza di libertà e di
incontro con la realtà. Ogni processo di insegnamento ha una duplice
dimensione. Da un lato l’insegnante mette in valore la prima delle
radici latine della parola educare, cioè edere, nutrire. Dall’altro
ogni insegnante che non si limiti al sillabario e alla annuale scontata
reiterazione del programma, mette in valore la seconda radice
dell’espressione educare, educere, cioè tirar fuori. Soprattutto oggi,
di fronte ai “nativi digitali” e alle scoperte delle neuroscienze,
questa seconda dimensione cresce di importanza. L’esperienza
dell’insegnamento si gioca tra queste due dimensioni, alimentativa e
fermentativa. Il “buon docente” pone attenzione alle capacità
dell’allievo, le riconosce e cerca tutte le strategie per valorizzare
il suo modo di apprendere, assegnando valore all’esperienza e alle
conoscenze che lo studente già possiede, siano state acquisite in
famiglia, nell’extrascuola o nella scuola.
Il modello curricolare della scuola secondaria italiana è costruito su
una gerarchia dei saperi che prevede implicitamente la superiorità
delle discipline umanistiche su quelle scientifiche. Questa concezione
cosiddetta “gentiliana” ed erede della tradizione idealistica, ha
egemonizzato per quasi un secolo il sistema scolastico del nostro Paese
e ha accentuato la dicotomia tra cultura umanistica e cultura
scientifica, tra formazione e lavoro, relegando ad un ruolo subalterno
gli istituti tecnici e professionali. E questa divisione tra scuole di
serie A (i licei) e scuole di serie B (gli istituti tecnici) continua a
ispirare una parte significativa dei comportamenti degli attori del
sistema educativo. Il recente riordino del sistema di istruzione
secondaria superiore rappresenta un’occasione preziosa per mettere a
punto nuovi modelli didattici e organizzativi. Gli insegnanti saranno
pronti ed adeguatamente formati ad innovare il loro metodo di
insegnamento? Questa è la vera partita.
La professione degli insegnanti deve diventare più dinamica, motivante
e attraente. La scuola non ha bisogno di insegnanti “impiegati”, ma di
insegnanti “professionisti”. Gli insegnanti dovrebbero essere
scelti e assunti dalle singole scuole, che dovrebbero avere la
libertà di sviluppare nuovi approcci educativi senza che l’esercizio
della professione risulti ostacolato da regolamentazioni nazionali
troppo rigide.
Studenti e famiglie si aspettano sempre più che gli insegnanti rendano
conto della qualità dell’insegnamento che ha un forte impatto sulle
chance di vita dei giovani.
Un nuovo studio, effettuato dagli economisti Raj Chetty e John Friedman
dell´Università di Harvard e da Jonah Rockoff della Columbia, seguendo
l’evoluzione di due milioni e mezzo di studenti nell’arco di oltre
vent’anni, ha evidenziato l’importanza di avere insegnanti di qualità
sui redditi futuri degli alunni e in generale sullo sviluppo della loro
vita.
Dopo aver individuato gli insegnanti bravi, quelli medi e quelli
scarsi, gli economisti hanno analizzato il percorso dei loro studenti
nel lungo periodo, studiando dati sul loro reddito, sui tassi di
iscrizione all’università, sull’età in cui hanno avuto un figlio e
sulla città e la zona dove vivono. I risultati sono stati
impressionanti. Limitandosi ai punteggi degli esami l’effetto di un
bravo insegnante di solito svanisce dopo tre o quattro anni. Ma,
assumendo una prospettiva più ampia, gli studenti continuano a
beneficiare dell´influsso positivo di un buon insegnante per anni. A
parità di altre condizioni, uno studente che ha avuto un insegnante
molto bravo per un anno, tra la quarta elementare e la terza media,
guadagna 4.600 dollari di reddito in più nell’arco dell’intera vita,
contro uno studente della stessa classe di età che ha avuto un
insegnante medio. Sostituire un insegnante “scadente” con uno medio
produrrebbe un incremento dei guadagni degli studenti nella vita di
circa 266mila dollari. Questo significa che lasciare un insegnante a
basso valore aggiunto in una scuola per 10 anni, invece di sostituirlo,
porta a perdere 2,5 milioni di dollari di reddito.
Mentre in passato la maggioranza dei docenti appariva contraria di
fronte ad ipotesi valutative o a politiche del personale basate sul
merito, oggi i professori sono favorevoli all’introduzione di
prospettive di carriera e all’utilizzazione del metodo valutativo per
impiegare al meglio le risorse umane nella scuola, come emerso
dall’indagine TALIS (Teaching and Learning International Survey, 2008)
dell’Ocse.
Tra gli obiettivi strategici di una valutazione degli insegnanti vi è
sicuramente quello di collegare il miglioramento retributivo ad un
meccanismo di riconoscimento del merito e non solo al maturare
dell’anzianità; indurre in tutti i docenti un’abitudine
all’autovalutazione, quale presupposto necessario per il miglioramento
generale delle loro prestazioni; far emergere le personalità più
interessanti in ogni scuola ai fini della attribuzione di compiti
ulteriori, sia di natura didattica che di organizzazione delle scuole.
Un maggiore riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante
consentirebbe di reclutare giovani di talento con forti motivazioni,
risultato non trascurabile se consideriamo che solo lo 0,2% degli
insegnanti italiani ha meno di 30 anni e solo il 6% meno di 40 anni,
mentre circa l’87% degli insegnanti italiani si concentra nella fascia
di età 40-59.
C’è ancora molto da lavorare per rimettere in moto il sistema
scolastico, per migliorare la condizione dell’insegnante e la qualità
delle metodologie didattiche. Il ruolo dei docenti è e deve essere
considerato cruciale per migliorare e innovare i sistemi educativi.
La posta in gioco è troppo alta. Quando si tratta degli insegnanti dei
nostri figli e delle scuole in cui insegnano, dobbiamo pretendere il
meglio. (di Claudio Gentili da Il Sussidiario.net)
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