L’area
siciliana dove l’attività bachi-sericola si sviluppò meglio fu, però,
il Val Demone. E non è da escludere che nel Palazzo Reale di Messina,
inaugurato verso il 1140, «sia sorto, a somiglianza del laboratorio di
Palermo, un edificio per indumenti reali» che, con ogni probabilità,
produceva panni anche per i Messinesi, considerato che nel 1160
Guglielmo concesse loro l’esenzione dall’obbligo di comprarli dalla
corte. L’attività serica a Messina continuò ad essere fiorente sotto
gli Svevi e gli Aragonesi. Subì un grave ridimensionamento dopo la
cacciata degli Ebrei (1492), che detenevano il monopolio della
produzione e della commercializzazione dei prodotti serici. Ma si
riprese presto con l’immissione di capitali e manodopera provenienti da
Lucca e da Catanzaro.
Nel 1530 Carlo V concesse ai messinesi i Capitoli della seta, una
importante regolamentazione del processo produttivo, gestita in
stretto rapporto con il Tribunale del Real Patrimonio dai Consoli
dell’arte, autorizzati ad effettuare ispezioni «a tutte hore», multare
i contravventori e, all’occorrenza, bruciare «in più lochi» la merce
scadente. Ma già prima, nel 1517, la regina Giovanna aveva accordato ai
messinesi il privilegio di esportare la seta a Cagliari e a Siviglia.
Filippo IV stabilì addirittura che tutta la seta siciliana fosse
esportata dal porto di Messina. Si sviluppò di conseguenza una
prestigiosa attività manifatturiera che riceveva importanti committenze
dal clero e dalla nobiltà. Messina fu inoltre beneficiata di una fiera
franca della seta che attirava un numero considerevole di mercanti
stranieri, soprattutto genovesi, biscaglini e norvegesi.
Nel 1664 la città dello Stretto perse il privilegio dell’esportazione
esclusiva della seta, per l’atteggiamento antispagnolo dei suoi
abitanti. Le conseguenze furono disastrose sia in termini economici che
di ordine pubblico. Comunque, l’attività serica bene o male continuò.
Si riprese decisamente sotto i Borboni, grazie ai nuovi Capitoli
concessi dalla Corona nel 1736 e al parziale ripristino del privilegio
del porto di Messina, da cui era obbligatorio esportare la seta
prodotta nel Val Demone, che costituiva la stragrande maggioranza della
produzione serica siciliana.
A dimostrazione della obbligatorietà di questa disposizione, basti
ricordare che, richiamando un apposito «Real biglietto» del 13 dicembre
1753, un Bando e Comandamento del Marchese di Trentino, maestro
razionale del Tribunale del Real Patrimonio, subito dopo stabilì che
tutti gli abitanti del Val Demone dovessero «forzatamente immettere le
loro Sete in detta città di Messina, e volendole estrarre, lo
[dovevano] fare dal medesimo Porto con pagare grana 30 per ogni libra
per l’estrazione, oltre a grana quattro a libra pel pelo [ossia per il
trasporto su animali da soma], e gli altri diritti di Regia Dogana, e
contravvenendo a tale ordine, si [intendessero] non solo nella perdita
delle Sete, ma di dover pagare ancora onze cento per quilibet
contravvenzione, a beneficio della Regia Corte [...] che in caso di
furtiva estrazione di Sete dalli descritti luoghi [...] per infra e
fuori Regno oltre alle pene di sopra espresse, [avrebbero perduto] gli
Estraenti e conduttori le Mule, Cavalli, Somari, Carri, Carrette, Bovi
ed altri, sopra le quali [si fossero trasportate] dette Sete, e le
barche sopra le quali si fossero imbarcate le Sete, o navigate per
estrarsi».
Il terremoto del 1783 segnò l’inizio della decadenza dell’attività
bachi-sericola. Alla vigilia dell’unità d’Italia si cominciarono ad
avvertire i segni di un diffuso disimpegno produttivo dei gelsicoltori,
per effetto dell’atrofia di cui erano stati colpiti i bachi (pebrina).
Molti proprietari cominciarono ad estirpare i gelsi e a piantare gli
agrumi. E frattanto nell’Italia settentrionale s’introducevano nuove
razze originarie dell’Estremo Oriente. La malattia che aveva attaccato
i bachi in Sicilia fu debellata solo nel 1874. Ma la bachicoltura nel
Messinese non scomparve, grazie all’iniziativa di un coraggioso
industriale inglese, Tommaso Hallan, «che impiantò sistemi meccanici
nelle filande» per produrre la seta greggia. Ma già cinque anni prima
la Camera di Commercio di Messina aveva creato un ufficio di
coordinamento delle attività connesse all’esportazione dei bozzoli in
Francia e nelle città industriali del nord Italia.
Alla fine del secolo c’erano nove filande, sette delle quali a vapore,
con circa mille addetti, in gran parte di sesso femminile. Ma il calo
della produzione fu inevitabile: dai 22.000 quintali di bozzoli che si
producevano nel 1855 si passò ai 17.000 nel 1880, che si ridussero a
15.545 nel 1888 e a 400 a fine secolo. In queste condizioni non può
stupire più di tanto se a partire dal 1898 a Gazzi, villaggio a sud di
Messina, una grande filanda che dava lavoro a 650 operaie mal pagate,
divenne teatro di un continuo stato d’agitazione delle lavoratrici che
reclamavano migliori condizioni di vita e di lavoro. La situazione
precipitò nel 1904: «un clamoroso sciopero, come non s’era mai visto a
Messina, bloccò letteralmente il territorio a sud della città». E la
protesta, «che sapeva più di ribellione politica che di rivendicazione
sociale», si estese a tutte le altre filande, con tutte le conseguenze
del caso.
A segnare l’inizio della fine della residua produzione di seta grezza
in Sicilia fu il terremoto del 1908.
Pur nondimeno, in alcuni villaggi di Messina (Gesso, Pezzolo, Santa
Margherita, Giampilieri, Massa San Giorgio, ecc.) la bachicoltura
sopravvisse di un ventennio alla seconda guerra mondiale, anche perché
i sensali di Roccalumera continuavano a fare incetta di bozzoli per
conto di una filanda.
Chi scrive, alcuni anni fa, ha avuto modo di raccogliere informazioni
da un’anziana contadina di Pezzolo dalla quale ha appreso che fino al
1957, lei stessa, allevava bachi da seta: possedeva una bigattiera
capiente di tre cannizzi e covava le uova con i seni.
Prof. Pippo Oddo