Come da copione,
le proteste: Cobas in piazza a Roma davanti alla sede del ministero
dell’Istruzione, la scuola elementare Morosini di Milano dove gli
insegnanti hanno scioperato facendo saltare le prove a tutti i bambini
della seconda elementare. Come da copione, le polemiche: davvero si
arriverà come sostiene la ministra Stefania Giannini a usare i test
Invalsi come parametro per la revisione del contratto e dello stipendio
degli insegnanti? O invece si cambierà di nuovo il test per renderlo
meno complicato, come ha annunciato la presidente dell’Istituto di
valutazione Anna Maria Ajello, che dichiara che «chi sostiene che i test servano a valutare
gli insegnanti irrobustisce solo le critiche perché servono per
valutare le competenze dei ragazzi»?
Ieri è stato il primo giorno delle prove Invalsi: si fanno in seconda,
quinta elementare e seconda superiore, i ragazzi di terza media
sosterranno invece il test insieme all’esame finale a giugno.
Si tratta di una prova di italiano (lettura e comprensione del testo) e
di una di matematica che devono misurare il raggiungimento delle
competenze secondo il programma ministeriale. In generale creano ansie
tra gli insegnanti (meno tra gli studenti), polemiche tra i sindacati e
il ministero. Il copione di ieri però non aveva previsto la novità:
secondo i dati diffusi dal ministero, ormai 7 scuole su dieci usano i
risultati delle prove dei propri ragazzi (che vengono restituiti agli
insegnanti a settembre ogni anno) per valutare internamente la propria
didattica ed eventualmente prendere i provvedimenti del caso.
A quattro anni dall’introduzione a regime della valutazione dunque la
maggioranza delle scuole pubbliche italiane «ha imparato» a usare in
modo pragmatico questo strumento che resta ancora molto contestato. Non
solo per le proteste eclatanti come quella della Morosini di Milano ma
anche per l’opposizione più subdola, quella degli insegnanti che
«barano», il «cheating» lo chiamano gli esperti nobilitando così un po’
la pratica.
Ci sono zone, province intere dove i risultati sono falsati
dall’intervento degli insegnanti in modo da non poter essere usati. Il
clima di sospetto intorno ai test è diffuso non tanto per la prova in
sé ma per le speculazioni sull’eventuale uso che di questi risultati si
potrà fare.
Al momento infatti gli esiti sono rigorosamente segreti, usati solo
all’interno delle scuole, tanto che quando qualche indiscrezione
trapela fino ai genitori l’atteggiamento di presidi e insegnanti è
carbonaro. In ogni intervento, da quando i test sono diventati una
realtà, ministri e addetti annunciano cambiamenti con lo scopo di
migliorare la prova e l’effetto di suscitare ulteriori dubbi. Come
quelli che involontariamente ha creato ieri la presidente dell’Invalsi
che in un’intervista ha parlato di «domande trabocchetto», troppo
difficili, a lei stessa incomprensibili. Non è ancora chiaro se
diventeranno la terza o quarta prova dell’esame di maturità (intanto da
quest’anno sono stati aboliti in prima media) per provare ad introdurre
una prova nazionale omogenea in un esame che non lo è per niente.
La polemica sulla valutazione - a parte gli aspetti
sindacal-contrattuali sui quali sarebbe meglio fare chiarezza al più
presto anche da parte del ministero - semplicemente non tiene conto del
fatto che la scuola è fatta per imparare, che le competenze dei ragazzi
vanno valutate nel modo più oggettivo possibile e o si fa una
valutazione trasparente e aperta, condivisa o la valutazione delle
scuole, della scuola pubblica, continueranno a farla i genitori e gli
studenti in modo autonomo, forse non corretto, affidandosi agli
strumenti che hanno: raccogliendo informazioni tra gli amici, i vicini,
i conoscenti. E chi ha più «conoscenze» avrà informazioni migliori,
potrà scegliere scuole migliori per i propri figli.
Il rapporto trasparente con le famiglie rischia di diventare uno dei
punti di forza (o di debolezza) della scuola pubblica nei prossimi
anni. E passa anche attraverso la valutazione: se non credono nelle
forze dei loro (nostri) ragazzi gli insegnanti, se non solo loro ad
avere anche l’orgoglio del loro insegnamento, chi dovrà difendere la
scuola italiana? La posta in gioco, come ha scritto anche la Fondazione
Agnelli nel suo ultimo rapporto dello scorso febbraio, è ben più alta
di un voto alla propria classe. Solo una scuola pubblica che accetta un
rapporto trasparente con le famiglie, che è disponibile a farsi
valutare, che è sicura anche della propria missione e delle capacità
dei propri insegnanti, potrà essere la vera scuola di tutti. Altrimenti
il rischio molto concreto è che le famiglie che hanno disponibilità
puntino su altre soluzioni educative per formare i propri figli e la
prossima classe dirigente del Paese, lasciando alla scuola pubblica un
ruolo che rischia di diventare molto meno determinante o addirittura
marginale.
Gianna Fregonara - Corriere della Sera