Chi spara sul dilettante?
di Carlo Delfrati
"E' opportuno che faccia studiare il pianoforte a mia figlia? Sarà abbastanza dotata?" La vecchia scuola sconsigliava lo studio "serio" di uno strumento a chi non avesse doti particolari. "Serio" valeva come contrario di "dilettantesco", di "amatoriale", immagini su cui cadeva intransigente la censura: "Molti allievi si iscrivono solo per il vago desiderio di applicarsi alla musica in senso dilettantesco. La 'Civica Scuola di Musica' invece liberata con le mie speciali cure da ogni traccia di dilettantismo musicale, dà a questa specie di studenti l'impressione di trovarsi di fronte a difficoltà serie da superare, a programmi da svolgere, e stronca i facili entusiasmi e annulla la concezione di molti d'una Scuola ridotta al piacere della cantatina serale (...). La nuova gioventù, sempre più seriamente preparata alla musica, ucciderà a poco a poco la mala pianta dell'empirismo musicale, del dilettantismo, e stroncherà la leggenda degli italiani mandolinisti e orecchianti". Così si pronunciava Felice Lattuada, compositore e direttore dell'importante Civica Scuola di Musica di Milano, nella relazione che il 3 luglio 1939 rivolgeva al pubblico di allievi e familiari.
Almeno fino a tutto il XVIII secolo l'immagine del dilettante godeva di ben altra considerazione: alla voce Amateur l'Encyclopédie di Alambert e Diderot riferiva alla pittura ciò che valeva anche per la musica: "Si dice di tutti coloro che amano quest'arte e hanno un gusto sicuro per i quadri. Noi abbiamo gli amatori, gli italiani hanno i virtuosi" (un termine che in Italia nel secolo precedente indicava semplicemente l'uomo di buon gusto, e che passerà poi a indicare l'artista dotato di abilità eccezionali). Due secoli dopo, il diletto e l'amore, le emozioni che si provano nel fare e nell'ascoltare la musica, vengono "stroncati", "annullati", uccisi", come suona il lessico violento del vecchio Direttore.
A essere investita dall'intolleranza è oggi a volte anche la pratica strumentale nella scuola dell'obbligo. Fra i commissari che nel 1978 si trovavano a scrivere i programmi della scuola media c'era chi proponeva di inserirvi questa clausola: sia vietato l'uso scolastico di strumenti musicali. Per quale ragione? Per il "miserabile livello" delle prestazioni musicali dimostrate dagli alunni. Non la preparazione degli insegnanti, in questo caso metodologica prima ancora che tecnica, era messa in discussione, non i limiti di tempo e le condizioni ambientali in cui erano costretti a operare, ma la pratica stessa degli alunni veniva censurata. Perché non bandire allo stesso modo il disegno, visti i risultati rudimentali di cui il bambino è capace, o abolire la scrittura, viste le sgrammaticature che abbondano nei lavori dei ragazzi? Perché il bambino non potrebbe acquisire abilità grafiche o verbali se non praticandole. Lo stesso avviene per le abilità musicali. È solo esercitandole, con la voce e con gli strumenti, che possono svilupparsi. Mentre al bambino che stona, con la voce o con il flauto dolce, l'insegnante di un tempo chiude la bocca, l'insegnante illuminato insegna proprio a intonare. Intonare non è un prerequisito del far musica, è un obiettivo. In ogni ordine e grado degli studi la scuola dovrebbe consentire all'allievo di far musica; e tanto più la valorizza quanto meglio riesce a far provare all'allievo godimento, soddisfazione (amore e diletto, ancora!) fin dalle prime note prodotte. Chi potrebbe reprimere la gioia che il bimbo piccolo prova quando canta Madama Dorè, per il fatto che le note emesse dalle sue corde vocali hanno magari poco a che vedere con l'originale? Questa stessa soddisfazione si ripropone a livelli avanzati, quando il piccolo flautista, o pianista, o violinista, si cimenta al meglio delle sue capacità, piccole o grandi che siano. Si suona e si canta per se stessi, prima di tutto, per la propria soddisfazione e il proprio benessere. E non è detto che non ci sia anche un pubblico che sappia apprezzarci e provare piacere per la nostra prestazione, il piccolo pubblico degli amici a cui facciamo omaggio della nostra piccola offerta musicale: permeata di diletto e di amore.
di Carlo Delfrati
"E' opportuno che faccia studiare il pianoforte a mia figlia? Sarà abbastanza dotata?" La vecchia scuola sconsigliava lo studio "serio" di uno strumento a chi non avesse doti particolari. "Serio" valeva come contrario di "dilettantesco", di "amatoriale", immagini su cui cadeva intransigente la censura: "Molti allievi si iscrivono solo per il vago desiderio di applicarsi alla musica in senso dilettantesco. La 'Civica Scuola di Musica' invece liberata con le mie speciali cure da ogni traccia di dilettantismo musicale, dà a questa specie di studenti l'impressione di trovarsi di fronte a difficoltà serie da superare, a programmi da svolgere, e stronca i facili entusiasmi e annulla la concezione di molti d'una Scuola ridotta al piacere della cantatina serale (...). La nuova gioventù, sempre più seriamente preparata alla musica, ucciderà a poco a poco la mala pianta dell'empirismo musicale, del dilettantismo, e stroncherà la leggenda degli italiani mandolinisti e orecchianti". Così si pronunciava Felice Lattuada, compositore e direttore dell'importante Civica Scuola di Musica di Milano, nella relazione che il 3 luglio 1939 rivolgeva al pubblico di allievi e familiari.
Almeno fino a tutto il XVIII secolo l'immagine del dilettante godeva di ben altra considerazione: alla voce Amateur l'Encyclopédie di Alambert e Diderot riferiva alla pittura ciò che valeva anche per la musica: "Si dice di tutti coloro che amano quest'arte e hanno un gusto sicuro per i quadri. Noi abbiamo gli amatori, gli italiani hanno i virtuosi" (un termine che in Italia nel secolo precedente indicava semplicemente l'uomo di buon gusto, e che passerà poi a indicare l'artista dotato di abilità eccezionali). Due secoli dopo, il diletto e l'amore, le emozioni che si provano nel fare e nell'ascoltare la musica, vengono "stroncati", "annullati", uccisi", come suona il lessico violento del vecchio Direttore.
A essere investita dall'intolleranza è oggi a volte anche la pratica strumentale nella scuola dell'obbligo. Fra i commissari che nel 1978 si trovavano a scrivere i programmi della scuola media c'era chi proponeva di inserirvi questa clausola: sia vietato l'uso scolastico di strumenti musicali. Per quale ragione? Per il "miserabile livello" delle prestazioni musicali dimostrate dagli alunni. Non la preparazione degli insegnanti, in questo caso metodologica prima ancora che tecnica, era messa in discussione, non i limiti di tempo e le condizioni ambientali in cui erano costretti a operare, ma la pratica stessa degli alunni veniva censurata. Perché non bandire allo stesso modo il disegno, visti i risultati rudimentali di cui il bambino è capace, o abolire la scrittura, viste le sgrammaticature che abbondano nei lavori dei ragazzi? Perché il bambino non potrebbe acquisire abilità grafiche o verbali se non praticandole. Lo stesso avviene per le abilità musicali. È solo esercitandole, con la voce e con gli strumenti, che possono svilupparsi. Mentre al bambino che stona, con la voce o con il flauto dolce, l'insegnante di un tempo chiude la bocca, l'insegnante illuminato insegna proprio a intonare. Intonare non è un prerequisito del far musica, è un obiettivo. In ogni ordine e grado degli studi la scuola dovrebbe consentire all'allievo di far musica; e tanto più la valorizza quanto meglio riesce a far provare all'allievo godimento, soddisfazione (amore e diletto, ancora!) fin dalle prime note prodotte. Chi potrebbe reprimere la gioia che il bimbo piccolo prova quando canta Madama Dorè, per il fatto che le note emesse dalle sue corde vocali hanno magari poco a che vedere con l'originale? Questa stessa soddisfazione si ripropone a livelli avanzati, quando il piccolo flautista, o pianista, o violinista, si cimenta al meglio delle sue capacità, piccole o grandi che siano. Si suona e si canta per se stessi, prima di tutto, per la propria soddisfazione e il proprio benessere. E non è detto che non ci sia anche un pubblico che sappia apprezzarci e provare piacere per la nostra prestazione, il piccolo pubblico degli amici a cui facciamo omaggio della nostra piccola offerta musicale: permeata di diletto e di amore.