Secondo l’ultimo rapporto Censis, la radio risulta essere il terzo medium più seguito dalla popolazione italiana con una percentuale del 65,4%. Per il più antico (ormai centenario) mezzo di comunicazione di massa, considerato da molti un oggetto residuale e di scarso impatto sulle nostre abitudini quotidiane, è un risultato sorprendente e lusinghiero. Un risultato possibile solo considerando che la radio è tanto discreta e poco appariscente nella sua forma, quanto estremamente efficiente nella restituzione del messaggio rispetto alla tecnologia impegnata. La radio ha rivoluzionato percezione e produzione del teatro e della musica, oltre a sedimentarsi nell’immaginario collettivo come autorevole depositaria di notizie e informazioni, tanto da lasciare ancor oggi di uso comune l’espressione «L’ha detto la radio». Nella grande avventura musicale del XX secolo il ruolo giocato dalla radio è stato decisivo per almeno due aspetti.
Ha impresso una formidabile accelerazione nella diffusione estensiva della musica, sia dal punto di vista geografico che di repertorio, con particolar riguardo per tutta la tradizione occidentale colta ed extracolta. Ha condizionato, almeno a partire dagli anni ’30, la produzione di nuova musica, sia imponendo vincoli tecnici ed estetici legati alle esigenze di trasmissione, sia aprendo nel dopoguerra laboratori di musica elettronica dove almeno due generazioni dell’avanguardia postbellica hanno inseguito il sogno della nuova musica. La culla di queste sperimentazioni fu l’Europa, dove nacque un servizio pubblico radiofonico in grado di elaborare una visione strategica di quelli che sarebbero potuti essere gli sviluppi e le potenzialità del mezzo. Molto più pragmatico e lineare lo sviluppo della radio negli Stati Uniti, dove la struttura privatistica e la predominanza di bacini di utenza locali individuò rapidamente formati e reti attraverso i quali la musica trovò formidabile amplificazione e diffusione (il mito Toscanini, per esempio, si accrebbe esponenzialmente tramite i concerti della «sua» Nbc Orchestra).
Guglielmo Marconi
La radio italiana cominciò le sue trasmissioni regolari nel 1924 e si sviluppò con una certa lentezza in confronto alle consorelle europee, benché il regime fascista considerasse di primaria importanza questo mezzo che, insieme al cinema agli albori del sonoro, segnava i tempi nuovi. Nel 1931 l’Eiar – progenitrice della Rai – aveva circa 200 mila abbonati su 42 milioni di abitanti; poca cosa in confronto ai 3 milioni e 300mila dell’Inghilterra e i 3 milioni e 700mila della Germania. A questo proposito il compositore, direttore d’orchestra, organizzatore di eventi musicali nonché Onorevole del Regno Adriano Lualdi osservò in un suo preoccupato intervento alla Camera dei Deputati: «Sarebbe una situazione un po’ mortificante per un paese che gode fama di andar pazzo per la musica, se le nostre dolci tiepide profumate notti serene non spiegassero tante cose. Ad ogni modo è necessario trovar la maniera di migliorare, e di molto, queste condizioni». E per chiarire il proprio pensiero, proseguì illustrando quanto si stava facendo, soprattutto in Germania, per studiare e elaborare un progetto culturale adatto a questo potentissimo mezzo di diffusione.
«Intendo dire, lo sforzo – in cui una quantità di maestri, di studiosi e di specialisti stranieri sono concordi – lo sforzo teso a creare per la Radio un’arte completamente autonoma, un’arte, cioè, che considerando la radio com’è infatti, un nuovo strumento avente sue particolari caratteristiche, ne tenga il debito conto; se ne ispiri quasi, ne tragga partito per dire, con nuovo mezzo, nuove parole». Le conseguenze tratte da Lualdi per quanto riguarda l’aspetto musicale furono particolarmente interessanti, perché ricoprendo egli la veste di direttore artistico del Festival Internazionale di Musica di Venezia, si affrettò ad organizzare nel 1932 un concorso di musica radiogenica. le norme che accompagnavano il bando di concorso testimoniano lo sforzo teso alla ricerca di uno specifico linguaggio musicale per la radio. Da segnalare fra i finalisti del Concorso per Musica Radiogenica del Festival di Venezia, Luigi Dallapiccola (Tre studi per soprano e piccola orchestra) e Nino Rota (Balli per piccola orchestra), due compositori che ebbero successivamente percorsi artistici divergenti, ma da annoverare entrambi fra i nomi significativi del ’900 italiano.
Una sala di registrazione radiofonica
Il sogno di un’autonoma arte radiofonica ebbe probabilmente il suo maggiore vigore proprio intorno gli anni ’30 perché quello fu il decennio di maggiore sviluppo e diffusione del mezzo. Successivamente, con la Seconda guerra mondiale, la radio verrà arruolata come la più potente arma della propaganda e, tranne che per le esperienze dell’Orchestra della Svizzera Romanda nella neutrale Confederazione Elvetica, tutte le speranze, i progetti e le molte pregevoli realizzazioni resteranno sotto le macerie della guerra. Di quella lunga stagione della quale sono rimasti pochissimi documenti sonori, riteniamo doveroso segnalare almeno un’opera radiofonica prodotta nella vecchia Europa, Der Lindberghflug (1929) di Bertolt Brecht per la musica di Paul Hindemith e Kurt Weill. La ricostruzione in forma di fiction radiofonica del mitico volo transoceanico di Lindberg rappresenta per il tema, per il trattamento musicale e drammaturgico un capo d’opera che, al di là dell’altissimo valore degli autori coinvolti, restituisce in pieno quel tempo di ricerca e speranze, nel quale la radio veniva intesa come il mezzo in grado di restituire la contemporaneità.
Il volo di Lindberg ci porta d’altro canto ad almeno una considerazione su quello che negli stessi anni si agitava intorno alla radio americana. Abbiamo già accennato al diverso svolgersi dello sviluppo radiofonico negli Usa e, se andiamo a scorrere solo qualche documento relativo al 1930 e dintorni, troviamo appunto una fervida vita musicale che ruota attorno alle stazioni locali attraverso la costituzione di orchestre per le maggiori emittenti. Troviamo anche una grande attenzione nelle istituzioni scolastiche volta alla preparazione di personale artistico in grado di produrre le musiche destinate alla radiodiffusione, come testimoniato dalle assidue presenze degli allievi del prestigiosissimo Curtis Institute di Philadelphia nella trasmissione radiofonica settimanale a loro riservata. E sono i migliori insegnanti a scendere in campo per guidare queste esperienze, come Fritz Reiner che allora teneva il corso di direzione d’orchestra proprio al Curtis e guidava sovente l’orchestra della scuola nel concerto radiofonico settimanale. Ma non possiamo concludere questa finestra americana, senza menzionare quello che oggi, in una prospettiva ormai storicizzata come la nostra, fu il caso più clamoroso dell’arte radiofonica anteguerra.
Uno studio radiofonico negli anni '60
Si tratta naturalmente della Guerra dei mondi, messa in scena al Mercury Theatre della catena radiofonica nazionale Cbs la sera del 30 ottobre 1938, per la regia di Orson Welles. 4,6 milioni di ascoltatori si riversarono per tramite di un frenetico e sempre più isterico passaparola sul canale Cbs per seguire in diretta l’invasione marziana dell’America. Welles aveva allora solo 23 anni, ma seppe assemblare un perfetto mix di recitazione, effetti e musiche – tutti prodotti in diretta, stante la arretrata tecnologia dei registratori del tempo – in grado di terrorizzare un’intera nazione. La musica fu utilizzata da Welles al pari di altri effetti sonori, contribuendo a creare quel clima di incertezza, suspense, straniamento che fece credere a molti di trovarsi a vivere veramente l’invasione marziana. Quello fu probabilmente il momento della potenza massima del mezzo perché già nel 1941 Theodor W. Adorno evidenziò alcuni problemi nella ricezione della musica attraverso la radio. La bidimensionalità del suono, i limiti spaziali nella diffusione dello stesso, le forme intime e privatistiche della fruizione che limitano ed elidono l’aspetto sociale della musica erano per il filosofo tedesco questioni che nessuna tecnologia avrebbe potuto risolvere.
Dal canto suo il compositore americano Virgil Thomson, che esercitò anche una intensa attività giornalistica e saggistica, individuò in due articoli del 1945 – significativamente intitolati Radio is chamber music e Symphonic broadcasts – i limiti e i pregi della ricezione radiofonica. La musica da camera in senso lato, includendo così anche i piccoli complessi jazzistici, è per Thomson il genere radiogenico per eccellenza. Trasparenza della tessitura, dinamica relativamente limitata e spazio virtuale occupato dagli strumentisti e dal pubblico sono assolutamente compatibili con la ricezione radiofonica. Nel secondo articolo Thomson invece mette in guardia sulla percentuale di verità rappresentata dalla trasmissione di concerti sinfonici ed operistici. Al di là dell’aspetto visuale, la compressione della percezione acustica di un evento così complesso e variegato, non può che essere un’immagine sbiadita della realtà. Circoscritti i limiti della ricezione musicale attraverso la radio è necessario rimarcare che, a partire dal dopoguerra, una quantità sterminata di repertori musicali è stata suonata, registrata e trasmessa dalle orchestre radiofoniche di tutto il mondo, consentendo ad almeno tre generazioni di crescere con una cultura (almeno dal punto di vista auditivo e con i limiti sopra menzionati) che non ha pari nella storia della ricezione musicale. Il lavoro delle orchestre e in special modo quello delle orchestre delle radio pubbliche europee è stato, mi si perdoni l’esempio iperbolico, paragonabile all’effetto che l’invenzione della stampa ha avuto sull’alfabetizzazione.
Una radio oggi
Il sempre più rapido progredire delle tecniche di registrazione e riproduzione dei suoni amplificherà attraverso i dischi questo fenomeno che, nel campo della musica leggera, avvierà un marcato processo di industrializzazione e globalizzazione. La musica pop diventerà il linguaggio globale dei giovani nel mondo e i Beatles ne saranno i profeti. Parallelamente, negli anni ’50, nacquero presso le principali emittenti europee (Parigi, Milano, Colonia) studi di musica elettronica dove i maggiori esponenti delle avanguardie musicali avevano la possibilità di sperimentare e applicare le proprie teorie. Nel 1956, Luciano Berio, presentando il neonato Studio di Fonologia della Rai di Milano, citò questo pensiero di J.R. Oppenheimer; «tanto gli uomini dell’arte che quelli della scienza vivono sempre alla soglia del mistero, circondati da esso; gli uni e gli altri, nella misura della loro creazione, devono cercare di armonizzare ciò che è nuovo con ciò che è familiare, cercare di raggiungere l’equilibrio fra la novità e la sintesi, devono combattere per fare un ordine parziale in un caos totale». e lo stesso Berio così concludeva: «In ogni caso e in qualsiasi momento il compositore continua a produrre nuove opere, a perfezionare la qualità della sua comunicazione estetica e a garantire al suo lavoro una adesione continua all’uomo del suo tempo».
Così della lunga e feconda esperienza milanese ci piace ricordare più che le opere musicali «pure» due produzioni radiofoniche che furono, se così si può dire, una sintesi applicativa dei fermenti che animavano quegli anni. Si tratta dell’Omaggio a Joyce di Luciano Berio e Umberto Eco e di Ritratto di città di Roberto Leydi con le musiche di Luciano Berio e Bruno Maderna. L’impatto delle sperimentazioni musicali «pure» effettuate negli studi di fonologia e musica elettronica accelerò invece una mutazione sensibile nell’idea stessa di evento musicale, assecondando in parte quelle che erano le più estreme e nichilistiche conclusioni delle avanguardie attive nei ’50 e primi ’60, là dove il progetto e il testo erano da considerarsi sostanza dell’opera piuttosto che l’effettivo svolgersi dell’evento musicale. La fine della storia e dell’arte così come postulato in quei tempi non avvenne, o meglio, si passò oltre, e così ritengo particolarmente appropriata questa riflessione di Benjamin Britten del 1964, nella quale il compositore inglese cercò di ristabilire alcuni criteri indispensabili a preservare la pienezza della fruizione musicale al tempo della sua riproducibilità.
«Chiunque, in qualunque luogo, in qualsiasi momento può ascoltare la Messa in si minore di Bach alla sola condizione di possedere una macchina. Non è richiesta qualificazione di alcun genere – fede, virtù, educazione, esperienza, età... La musica è accessibile per tutti, se io dico che l’altoparlante è il principale nemico della musica, non intendo dire che io sia ingrato a questo come strumento di educazione e studio, o come evocatore di memorie. Ma che questo non è parte di una vera esperienza musicale. Riguardo a questa è un semplice sostituto, e oltre tutto pericoloso in quanto deludente. La musica richiede di più all’ascoltatore che il semplice possesso di un registratore o di una radio a transistor. Richiede qualche sforzo, un po’ di preparazione, un viaggio in un luogo speciale, il risparmiare per l’acquisto di un biglietto, qualche studio casalingo sul programma forse, qualche chiarificazione delle orecchie e focalizzazione degli istinti. Richiede molto più sforzo da parte dell’ascoltatore che dagli altri vertici del triangolo, questo sacro triangolo composto dal compositore, l’esecutore e l’ascoltatore». Viva la radio – insomma – fedele compagna delle nostre giornate, generosa dispensatrice di tutte le musiche del mondo, ma non scordiamo mai che la Musica vive con noi e per vivere ha bisogno di noi e della nostra passione, sempre.
Ha impresso una formidabile accelerazione nella diffusione estensiva della musica, sia dal punto di vista geografico che di repertorio, con particolar riguardo per tutta la tradizione occidentale colta ed extracolta. Ha condizionato, almeno a partire dagli anni ’30, la produzione di nuova musica, sia imponendo vincoli tecnici ed estetici legati alle esigenze di trasmissione, sia aprendo nel dopoguerra laboratori di musica elettronica dove almeno due generazioni dell’avanguardia postbellica hanno inseguito il sogno della nuova musica. La culla di queste sperimentazioni fu l’Europa, dove nacque un servizio pubblico radiofonico in grado di elaborare una visione strategica di quelli che sarebbero potuti essere gli sviluppi e le potenzialità del mezzo. Molto più pragmatico e lineare lo sviluppo della radio negli Stati Uniti, dove la struttura privatistica e la predominanza di bacini di utenza locali individuò rapidamente formati e reti attraverso i quali la musica trovò formidabile amplificazione e diffusione (il mito Toscanini, per esempio, si accrebbe esponenzialmente tramite i concerti della «sua» Nbc Orchestra).
Guglielmo Marconi
La radio italiana cominciò le sue trasmissioni regolari nel 1924 e si sviluppò con una certa lentezza in confronto alle consorelle europee, benché il regime fascista considerasse di primaria importanza questo mezzo che, insieme al cinema agli albori del sonoro, segnava i tempi nuovi. Nel 1931 l’Eiar – progenitrice della Rai – aveva circa 200 mila abbonati su 42 milioni di abitanti; poca cosa in confronto ai 3 milioni e 300mila dell’Inghilterra e i 3 milioni e 700mila della Germania. A questo proposito il compositore, direttore d’orchestra, organizzatore di eventi musicali nonché Onorevole del Regno Adriano Lualdi osservò in un suo preoccupato intervento alla Camera dei Deputati: «Sarebbe una situazione un po’ mortificante per un paese che gode fama di andar pazzo per la musica, se le nostre dolci tiepide profumate notti serene non spiegassero tante cose. Ad ogni modo è necessario trovar la maniera di migliorare, e di molto, queste condizioni». E per chiarire il proprio pensiero, proseguì illustrando quanto si stava facendo, soprattutto in Germania, per studiare e elaborare un progetto culturale adatto a questo potentissimo mezzo di diffusione.
«Intendo dire, lo sforzo – in cui una quantità di maestri, di studiosi e di specialisti stranieri sono concordi – lo sforzo teso a creare per la Radio un’arte completamente autonoma, un’arte, cioè, che considerando la radio com’è infatti, un nuovo strumento avente sue particolari caratteristiche, ne tenga il debito conto; se ne ispiri quasi, ne tragga partito per dire, con nuovo mezzo, nuove parole». Le conseguenze tratte da Lualdi per quanto riguarda l’aspetto musicale furono particolarmente interessanti, perché ricoprendo egli la veste di direttore artistico del Festival Internazionale di Musica di Venezia, si affrettò ad organizzare nel 1932 un concorso di musica radiogenica. le norme che accompagnavano il bando di concorso testimoniano lo sforzo teso alla ricerca di uno specifico linguaggio musicale per la radio. Da segnalare fra i finalisti del Concorso per Musica Radiogenica del Festival di Venezia, Luigi Dallapiccola (Tre studi per soprano e piccola orchestra) e Nino Rota (Balli per piccola orchestra), due compositori che ebbero successivamente percorsi artistici divergenti, ma da annoverare entrambi fra i nomi significativi del ’900 italiano.
Una sala di registrazione radiofonica
Il sogno di un’autonoma arte radiofonica ebbe probabilmente il suo maggiore vigore proprio intorno gli anni ’30 perché quello fu il decennio di maggiore sviluppo e diffusione del mezzo. Successivamente, con la Seconda guerra mondiale, la radio verrà arruolata come la più potente arma della propaganda e, tranne che per le esperienze dell’Orchestra della Svizzera Romanda nella neutrale Confederazione Elvetica, tutte le speranze, i progetti e le molte pregevoli realizzazioni resteranno sotto le macerie della guerra. Di quella lunga stagione della quale sono rimasti pochissimi documenti sonori, riteniamo doveroso segnalare almeno un’opera radiofonica prodotta nella vecchia Europa, Der Lindberghflug (1929) di Bertolt Brecht per la musica di Paul Hindemith e Kurt Weill. La ricostruzione in forma di fiction radiofonica del mitico volo transoceanico di Lindberg rappresenta per il tema, per il trattamento musicale e drammaturgico un capo d’opera che, al di là dell’altissimo valore degli autori coinvolti, restituisce in pieno quel tempo di ricerca e speranze, nel quale la radio veniva intesa come il mezzo in grado di restituire la contemporaneità.
Il volo di Lindberg ci porta d’altro canto ad almeno una considerazione su quello che negli stessi anni si agitava intorno alla radio americana. Abbiamo già accennato al diverso svolgersi dello sviluppo radiofonico negli Usa e, se andiamo a scorrere solo qualche documento relativo al 1930 e dintorni, troviamo appunto una fervida vita musicale che ruota attorno alle stazioni locali attraverso la costituzione di orchestre per le maggiori emittenti. Troviamo anche una grande attenzione nelle istituzioni scolastiche volta alla preparazione di personale artistico in grado di produrre le musiche destinate alla radiodiffusione, come testimoniato dalle assidue presenze degli allievi del prestigiosissimo Curtis Institute di Philadelphia nella trasmissione radiofonica settimanale a loro riservata. E sono i migliori insegnanti a scendere in campo per guidare queste esperienze, come Fritz Reiner che allora teneva il corso di direzione d’orchestra proprio al Curtis e guidava sovente l’orchestra della scuola nel concerto radiofonico settimanale. Ma non possiamo concludere questa finestra americana, senza menzionare quello che oggi, in una prospettiva ormai storicizzata come la nostra, fu il caso più clamoroso dell’arte radiofonica anteguerra.
Uno studio radiofonico negli anni '60
Si tratta naturalmente della Guerra dei mondi, messa in scena al Mercury Theatre della catena radiofonica nazionale Cbs la sera del 30 ottobre 1938, per la regia di Orson Welles. 4,6 milioni di ascoltatori si riversarono per tramite di un frenetico e sempre più isterico passaparola sul canale Cbs per seguire in diretta l’invasione marziana dell’America. Welles aveva allora solo 23 anni, ma seppe assemblare un perfetto mix di recitazione, effetti e musiche – tutti prodotti in diretta, stante la arretrata tecnologia dei registratori del tempo – in grado di terrorizzare un’intera nazione. La musica fu utilizzata da Welles al pari di altri effetti sonori, contribuendo a creare quel clima di incertezza, suspense, straniamento che fece credere a molti di trovarsi a vivere veramente l’invasione marziana. Quello fu probabilmente il momento della potenza massima del mezzo perché già nel 1941 Theodor W. Adorno evidenziò alcuni problemi nella ricezione della musica attraverso la radio. La bidimensionalità del suono, i limiti spaziali nella diffusione dello stesso, le forme intime e privatistiche della fruizione che limitano ed elidono l’aspetto sociale della musica erano per il filosofo tedesco questioni che nessuna tecnologia avrebbe potuto risolvere.
Dal canto suo il compositore americano Virgil Thomson, che esercitò anche una intensa attività giornalistica e saggistica, individuò in due articoli del 1945 – significativamente intitolati Radio is chamber music e Symphonic broadcasts – i limiti e i pregi della ricezione radiofonica. La musica da camera in senso lato, includendo così anche i piccoli complessi jazzistici, è per Thomson il genere radiogenico per eccellenza. Trasparenza della tessitura, dinamica relativamente limitata e spazio virtuale occupato dagli strumentisti e dal pubblico sono assolutamente compatibili con la ricezione radiofonica. Nel secondo articolo Thomson invece mette in guardia sulla percentuale di verità rappresentata dalla trasmissione di concerti sinfonici ed operistici. Al di là dell’aspetto visuale, la compressione della percezione acustica di un evento così complesso e variegato, non può che essere un’immagine sbiadita della realtà. Circoscritti i limiti della ricezione musicale attraverso la radio è necessario rimarcare che, a partire dal dopoguerra, una quantità sterminata di repertori musicali è stata suonata, registrata e trasmessa dalle orchestre radiofoniche di tutto il mondo, consentendo ad almeno tre generazioni di crescere con una cultura (almeno dal punto di vista auditivo e con i limiti sopra menzionati) che non ha pari nella storia della ricezione musicale. Il lavoro delle orchestre e in special modo quello delle orchestre delle radio pubbliche europee è stato, mi si perdoni l’esempio iperbolico, paragonabile all’effetto che l’invenzione della stampa ha avuto sull’alfabetizzazione.
Una radio oggi
Il sempre più rapido progredire delle tecniche di registrazione e riproduzione dei suoni amplificherà attraverso i dischi questo fenomeno che, nel campo della musica leggera, avvierà un marcato processo di industrializzazione e globalizzazione. La musica pop diventerà il linguaggio globale dei giovani nel mondo e i Beatles ne saranno i profeti. Parallelamente, negli anni ’50, nacquero presso le principali emittenti europee (Parigi, Milano, Colonia) studi di musica elettronica dove i maggiori esponenti delle avanguardie musicali avevano la possibilità di sperimentare e applicare le proprie teorie. Nel 1956, Luciano Berio, presentando il neonato Studio di Fonologia della Rai di Milano, citò questo pensiero di J.R. Oppenheimer; «tanto gli uomini dell’arte che quelli della scienza vivono sempre alla soglia del mistero, circondati da esso; gli uni e gli altri, nella misura della loro creazione, devono cercare di armonizzare ciò che è nuovo con ciò che è familiare, cercare di raggiungere l’equilibrio fra la novità e la sintesi, devono combattere per fare un ordine parziale in un caos totale». e lo stesso Berio così concludeva: «In ogni caso e in qualsiasi momento il compositore continua a produrre nuove opere, a perfezionare la qualità della sua comunicazione estetica e a garantire al suo lavoro una adesione continua all’uomo del suo tempo».
Così della lunga e feconda esperienza milanese ci piace ricordare più che le opere musicali «pure» due produzioni radiofoniche che furono, se così si può dire, una sintesi applicativa dei fermenti che animavano quegli anni. Si tratta dell’Omaggio a Joyce di Luciano Berio e Umberto Eco e di Ritratto di città di Roberto Leydi con le musiche di Luciano Berio e Bruno Maderna. L’impatto delle sperimentazioni musicali «pure» effettuate negli studi di fonologia e musica elettronica accelerò invece una mutazione sensibile nell’idea stessa di evento musicale, assecondando in parte quelle che erano le più estreme e nichilistiche conclusioni delle avanguardie attive nei ’50 e primi ’60, là dove il progetto e il testo erano da considerarsi sostanza dell’opera piuttosto che l’effettivo svolgersi dell’evento musicale. La fine della storia e dell’arte così come postulato in quei tempi non avvenne, o meglio, si passò oltre, e così ritengo particolarmente appropriata questa riflessione di Benjamin Britten del 1964, nella quale il compositore inglese cercò di ristabilire alcuni criteri indispensabili a preservare la pienezza della fruizione musicale al tempo della sua riproducibilità.
«Chiunque, in qualunque luogo, in qualsiasi momento può ascoltare la Messa in si minore di Bach alla sola condizione di possedere una macchina. Non è richiesta qualificazione di alcun genere – fede, virtù, educazione, esperienza, età... La musica è accessibile per tutti, se io dico che l’altoparlante è il principale nemico della musica, non intendo dire che io sia ingrato a questo come strumento di educazione e studio, o come evocatore di memorie. Ma che questo non è parte di una vera esperienza musicale. Riguardo a questa è un semplice sostituto, e oltre tutto pericoloso in quanto deludente. La musica richiede di più all’ascoltatore che il semplice possesso di un registratore o di una radio a transistor. Richiede qualche sforzo, un po’ di preparazione, un viaggio in un luogo speciale, il risparmiare per l’acquisto di un biglietto, qualche studio casalingo sul programma forse, qualche chiarificazione delle orecchie e focalizzazione degli istinti. Richiede molto più sforzo da parte dell’ascoltatore che dagli altri vertici del triangolo, questo sacro triangolo composto dal compositore, l’esecutore e l’ascoltatore». Viva la radio – insomma – fedele compagna delle nostre giornate, generosa dispensatrice di tutte le musiche del mondo, ma non scordiamo mai che la Musica vive con noi e per vivere ha bisogno di noi e della nostra passione, sempre.