Mi è capitato
spesso, da insegnante precario, di accompagnare la classe in gita
scolastica. Questo per due motivi fondamentali: il primo
è che gli studenti di solito preferiscono i supplenti, statisticamente
più «malleabili», meno rigidi nelle regole comportamentali da istituire
nel corso del viaggio (ore libere, ronde notturne, cambio di stanze, e
altre consuetudini del caso). L’altro motivo è che i colleghi,
soprattutto quelli di ruolo e lungo corso, la gita scolastica
preferiscono evitarla, a volte come la peste.
Eppure, malgrado la notevole fatica fisica e mentale che richiede a un
docente, accompagnare gli studenti nel loro cosiddetto «viaggio
d’istruzione» è un compito importante, al quale non bisognerebbe
sottrarsi; importante non soltanto per l’ulteriore responsabilità che
il professore è costretto ad assumere, ma soprattutto per garantire
agli allievi di compiere un’esperienza utile e piacevole. Questo perché
in molti casi per i nostri adolescenti si tratta della loro «prima
volta», nel senso che per la prima volta escono di casa restando a
dormire fuori, lontani dalla propria (protettiva) cameretta, e dal
resto della famiglia. E tutto ciò significa confrontarsi con
un’autogestione quotidiana di se stessi, non più controllati dai
genitori 24 ore su 24, per esempio organizzando gli spazi per i propri
indumenti e oggetti personali, spazi dentro e fuori da condividere con
i compagni di stanza.
E poi c’è quella sensazione di essere cresciuti, di esser diventati
grandi, di conoscersi meglio con il resto della classe:non è un caso,
va da sé, che i primi amori nascano proprio nel corso di una gita
scolastica, con tutte le gioie e i rischi del caso… Ora tutto
questo, lo si voglia o meno, fa parte della vita, di un percorso di
crescita del figlio-studente, di una formazione anche umana, oltre che
didattica (di didattico nelle gite di solito non c’è molto, e in fondo
non è uno scandalo).
Anche per questo mi ha colpito una notizia di pochi giorni fa, arrivata
dalla zona del grossetano, su uno studente autistico che non ha
potuto partecipare all’escursione di classe a causa delle sue
difficoltà. A dire la vicenda non è molto chiara, con un palleggio di
responsabilità tra la mamma e un consiglio di classe che dichiara
di aver preso questa decisione d’accordo con l’insegnate di sostegno,
il dirigente scolastico e la stessa famiglia del ragazzo, mentre per la
madre si è trattata di un’esclusione a priori, senza preavviso. Tra
l’altro si parla di una scuola media, e l’escursione prevedeva la
visita di una sola giornata in un capoluogo toscano, senza
pernottamento. Per l’allievo (di 13 anni) sarà comunque preparato un
altro appuntamento ad hoc nel corso del prossimo mese.
La circostanza è chiaramente di non semplice gestione, e credo possano
essere comprensibili entrambe le posizioni: di chi, come gli
insegnanti, si preoccupano di non aumentare pericoli già esistenti di
per sé al momento dell’uscita di una classe dalla struttura scolastica;
e di chi spera, con tutte le ragioni del mondo, che il proprio figlio,
dopo lungo calvario, un giorno riesca a raggiungere quella “normalità”
quotidiana tanto desiderata.
Quello che mi sento di dire, per le esperienze di cui sopra, è
che ogni volta che mi è capitato di accompagnare studentesse e
studenti in gita, c’è sempre stata una gara alla «protezione
reciproca», al controllarsi gli uni con gli altri, dedicando maggior
attenzione ai compagni più fragili, fragili per tanti motivi. Certo,
schiamazzi e fughe notturne non sono mancati, ma fa parte del gioco. E
ogni volta siamo tornati dal viaggio con un bagaglio di vissuto in più
tutti quanti, grandi e «piccoli».
Detto questo, ci vuole anche molta molta fortuna affinché tutto vada
sempre per il meglio, come purtroppo altre recenti e tragiche vicende
insegnano. Ma il ruolo di un insegnante è anche quello di non
sottrarsi alle proprie responsabilità.
Emiliano Sbaraglia - Corriere della
Sera