Musica di consumo o consumo della musica?
di Carlo Delfrati
Al centro degli interessi musicali degli adolescenti seduti nelle nostre aule scolastiche si sa cosa c’è: è quell’insieme composito di musiche pop e rock anglosassoni, di cantautori italiani, di jingle pubblicitari, i cui confini si spostano elasticamente di mese in mese, andando a confondersi a volte con quelli degli altri generi, con i quali le contaminazioni sono tutt’altro che rare. Se il gruppo ACdC utilizzava frammenti di gregoriano e addirittura echi operistici nel suo Anno Domini, Pino Daniele in un suo disco aggiunge la sua voce a quella di un complesso vocale a cappella in brani costruiti in puro stile cinquecentesco. Senza contare certe intrusioni elettroniche di derivazione addirittura darmstadtiana, o recuperi dalla musica popolare tradizionale, o etnica che dir si voglia: diversi gruppi d’oggi fondono in un unico crogiolo ritmi rock e materiali etnici.
Genuine o contaminate, tutte quelle musiche sono rifiutate dalla scuola puritana vecchio stampo, affiancata nella crociata da una corrente di intellettuali che le liquida spregiativamente come musica di consumo, o gastronomica, intesa come materiale usa e getta, che di per sé non ha meriti. “La canzonetta, è ormai cosa ovvia, non nasce da una necessità di comunicazione, da un’effusione sentimentale, ma da una fredda determinazione per un preciso scopo: essere venduta e diffusa. E’ cioè un prodotto commerciale che si consuma come un dentifricio o una pasticca digestiva”: così negli anni Sessanta liquidava la canzone Emilio Jona in un libro che fece sensazione: Le canzoni della cattiva coscienza.
A esorcizzare le paure puritane stanno un paio di considerazioni. La prima è la semplice nozione comune che anche il barometro estetico della musica popolare è molto ampio, fra la paccottiglia e i piccoli capolavori. Basta leggere una autorevole rivista di musica popolare per rendersi conto della grande varietà di giudizi qualitativi a cui ricorre il critico esperto, fra l’apprezzamento encomiastico e la condanna senza appello. O c’è bisogno dell’avallo di Luciano Berio, che di canzoni dei Beatles realizzò un arrangiamento? O di quello del musicologo “serio” Wilfrid Mellers, che tra una monografia su Couperin e un’altra su Bach trovava il tempo di dedicare al gruppo inglese un importante volume, Twilight of the Gods? Un genere musicale non è spregevole “in sé”. Sotto l’etichetta “canzone moderna” possiamo raccogliere i pezzi smerciati in serie per le balere estive, ma anche, per limitarci all’Italia, la canzone dei “cantautori”, di Fabrizio de Andrè, di Franco Battiato, di Paolo Conte, senza dimenticare la canzone impegnata degli anni Sessanta-Settanta, dal gruppo Cantacronache al Nuovo Canzoniere Italiano.
L’altra riflessione riguarda il concetto di “consumo”. Nessuno considera spregevoli i consumi materiali. Perché dovrebbe esserlo il consumo della musica? E’ ciò che avviene in quelle pratiche sociali dove è reclutata per creare un clima amichevole, che favorisce le relazioni; a cominciare da quella tipica e universale forma di consumo che è il ballo, per finire con gli usi terapeutici. Ci sono sempre stati compositori che scrivono espressamente per queste pratiche. Rientra nel concetto più esteso che i tedeschi, a partire da Besseler, chiamano Gebrauchmusik, “musica funzionale”, o “applicata”, e che ha precedenti lontani e vicini, come la Tafelmusik che Kant considerava “una cosa meravigliosa, la quale soltanto con un gradevole rumore deve mantenere negli animi la disposizione allegra, e, senza che nessuno presti la minima attenzione alla sua composizione, favorisce la conversazione libera tra l’uno e l’altro vicino”.
Il consumo in altre parole non denota un genere, ma un modo di fruizione. Tanto è vero che si può benissimo – succede quotidianamente, forse a tutti - “consumare” Beethoven proprio come si consuma Ligabue o Madonna. Non regge l’etichetta di “musica commerciale”: non c’è compositore “colto” che non aspiri, più che legittimamente, a vedere commercializzata la propria opera: non lo era Beethoven, non lo è il giovane dell’ultima leva. Anche se sono pure esistiti compositori, o artisti, o poeti, ai quali il ritorno economico della propria opera era del tutto irrilevante (era Marx a ricordare che il poeta inglese John Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta!). E nemmeno regge la definizione di popolare come “creato non a fini estetici”. Potremmo a rigore sostenere che “a fini estetici” è stato creato Il ballo delle ingrate o la Passione secondo Matteo? E perché non credere che al contrario molte canzoni siano venute alla luce dietro sollecitazioni di natura estetica?
Ma all’educatore non interessa tanto una distinzione socio-musicologica. Ne serve di più una pratica, che riguarda non i generi ma gli atteggiamenti che si possono assumere davanti alla musica. Ecco allora due possibili lezioni, dal fronte della musica di consumo. La prima è all’insegna del positivo: ci si può porre davanti al pop come a un’esperienza non da “consumare”, ma da conoscere, studiare, analizzare, praticare. E’ quello che fa l’insegnante che sa venire incontro ai gusti dei ragazzi mostrando lui per primo di respingere la frattura tra popolare e colto, nelle attività musicali della classe. Ed è quello che fanno una quantità di studiosi, con le loro ricerche, i libri, le riviste specializzate come la britannica, influente Popular Music; anche attraverso sodalizi, come quello fondato proprio per promuovere gli studi nei primi anni Ottanta, la International Association for the Study of Popular Music.
La seconda è all’insegna del negativo, e riguarda proprio il concetto di consumo. Che può coinvolgere Jovanotti ma può coinvolgere qualunque altra musica, Beethoven compreso, che diventa, se proprio si vuol dire così, materiale usa e getta, quando la si vive lasciandola agire su di noi, senza esercitare filtri cognitivi, come benefico arredo sonoro della nostra giornata. Meglio non parlare allora di “musica di consumo”, né, con licenza di Eco che così intitolava la sua prefazione a Le canzoni della cattiva coscienza, di “canzone di consumo”; ma semmai di “consumo della musica”. Era questa la cosa che scatenava la feroce reazione del filosofo Adorno, nella sua crociata per una cultura autentica, orientata a liberare l’individuo dall’alienazione sociale: “Le differenze nella ricezione della musica ‘classica’ ufficiale e di quella leggera non hanno più un significato reale, e vengono manipolate ancora e soltanto nel senso della smerciabilità”. O ancora: “Il fatto che dei ‘valori’ vengano consumati attraendo su di sé gli affetti dei consumatori, senza peraltro che le loro qualità specifiche vengano raggiunte dalla coscienza di questi, è espressione tardiva del loro carattere di merce”. Gli faceva bordone il suo amico Horkheimer, per il quale l’opera d’arte oggi “è completamente neutralizzata. Prendiamo per esempio l'Eroica di Beethoven. Oggi l'ascoltatore medio è incapace di afferrarne il significato oggettivo: l'ascolta come se fosse stata scritta per illustrare i commenti del critico che ha preparato il programma del concerto. La composizione è stata trasformata in un bene materiale, in un pezzo da museo, e l'esecuzione è diventata un passatempo, un'occasione per concertisti e direttori d'orchestra di mettersi in mostra o un evento mondano a cui non si può mancare se si appartiene a un certo gruppo. Ma non esiste più nessun vivente rapporto con l'opera, nessuna diretta e spontanea comprensione della sua funzione espressiva, nessuna capacità di intenderla nella sua totalità come un'immagine di ciò che un tempo si chiamava verità”.
Parole dure, che però lanciano una sfida all’educatore: chiamato a far vivere la musica come un veicolo di “verità”, come quella “rivelazione più alta di ogni saggezza e filosofia” di cui scriveva lo stesso Beethoven nella celebre lettera a Bettina. Anche se il consumo, con buona pace dei filosofi di Francoforte, è pur sempre uno dei modi con cui da che mondo è mondo l’umanità se ne serve per soddisfare i suoi bisogni, la musica merita di essere accostata per la sua primaria funzione di linguaggio, di mezzo di comunicazione del pensiero e dell’emozione. Anche dai nostri giovani fan della hit parade.